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Ricordi Immaginari - Spiegare un Film a un Bambino

 

Il settimo sigillo

 

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Titolo: Il settimo sigillo.

Titolo originale: Det sjunde inseglet.

Regista: Ingmar Bergman.

Paese di produzione: Svezia. Anno di produzione: 1957.

Attori principali: Max von Sydow (Antonius Block), Bengt Ekerot (la Morte), Gunnar Björnstrand (Jöns), Bibi Andersson (Mia), Nils Poppe (Jof, marito di Mia), Erik Strandmark (l’attore con Jof e Mia), Åke Fridell (Plog, il fabbro), Inga Gill (Lisa, moglie di Plog), Maud Hansson (“strega”), Inga Landgré (moglie di Block), Gunnel Lindblom (la muta), Bertil Anderberg (Raval, ladro, ex-studente di teologia). Durata: 1h 36’.

 

Il regista

 

Ingmar Bergman

 

Il film

 

Un cavaliere, Antonius Block, torna dalla Crociata con il suo scudiero, Jöns. Ma non è più l’uomo di una volta, e il ritorno in patria non è gioioso: nei lunghi anni di guerra, mentre la morte regnava sulla sua vita e sul mondo, ha perduto, insieme a tutte le cose in cui credeva da giovane, anche la fede nell’esistenza di Dio, in nome del quale era andato, orgoglioso delle proprie certezze morali, a combattere e uccidere gli infedeli. E lo stesso è accaduto al suo Paese e al suo popolo, che ritrova devastati dalla peste, dalla superstizione, dal fanatismo religioso, e dal diffondersi in ogni ceto di una vile e disperata malvagità.

 

Finché un mattino, al risveglio da un sonno di piombo, Antonius Block incontra la Morte sulla riva del mare: “Sono venuta a prenderti,” gli dice, “è già da un po’ che ti cammino accanto”.

 

“Me n’ero accorto” risponde il cavaliere, e le propone una partita a scacchi: “Voglio vedere per quanto a lungo riuscirò a resisterti; e se, dando scacco alla Morte, avrò salva la vita”.

 

La partita ha inizio, e il viaggio del cavaliere e dello scudiero prosegue. La Morte, però, ovunque intorno a loro, continua intanto a compiere il suo tremendo lavoro nel mondo, e a poco a poco altre persone si uniscono a Block credendo che solo lui, fra quanti attendono immobili che il destino si compia, possa offrire loro qualche speranza di sopravvivere. Ma non tutti riusciranno a salvarsi.

 

Film perfetto, celebrato come un capolavoro assoluto, Il settimo sigillo è una profonda meditazione per immagini ― più che sulla Morte fisica e sull’orrore che essa suscita, più che sull’esistenza di Dio e dell’Aldilà e sul ruolo positivo o negativo della religione per la Società e per i singoli ― sulla Morte come devastazione e distruzione, in chi è vivo e in perfetta salute, di quel che rende umani gli esseri umani.

Il commento di Luigi Scialanca

 

In una chiesa, Antonius Block si avvicina al confessionale senza accorgersi che il monaco, al di là della grata, è la Morte che poco prima ha sfidato a una partita a scacchi:

 

“Vorrei confessarmi,” dice, “ma non ne sono capace perché il mio cuore è vuoto. È vuoto come uno specchio che sono costretto a fissare. Mi ci vedo riflesso, e provo solo disgusto e paura. Vi leggo indifferenza verso il prossimo, verso tutti i miei irriconoscibili simili. Vi scorgo immagini da incubo, nate dai miei sogni e dalle mie fantasie”.

 

In quello stesso momento (in un luogo non lontano, dove il sole splende e la natura è in fiore come se la Morte, almeno lì, non avesse alcun potere) un attore girovago di nome Jof racconta alla donna che ama, Mia, la visione che ha appena avuto: una bellissima dama, forse la Madonna, che aiutava un bambino a muovere i primi passi. Mia, però, non gli crede, poiché non capisce che la visione di Jof è l’immagine meravigliosa che egli ha di lei e di Michael, il loro figlioletto: al contrario, lo prende scherzosamente in giro e affettuosamente lo rimprovera, per quelle fantasticherie “che lo mettono in pericolo,” dice, “di essere giudicato pazzo o malvagio da chi non lo conosce”. Non perché Mia sia sciocca o cattiva, (se lo fosse, non amerebbe Jof), ma perché la sua intelligenza e capacità di comprensione si manifestano nei teneri affetti che prova per lui e nelle attenzioni che gli prodiga; mentre i suoi ragionamenti e discorsi scaturiscono invece quasi soltanto dalle paure che il mondo disumano che li circonda è riuscito a incuterle).

 

“Io l’ho vista!” protesta Jof. “Ti ho detto la verità!... Ma non la verità che dico tutti i giorni... Un’altra verità!... Capisci?... Una verità più vera!”

 

Ecco: mentre la Morte imperversa e Block non vede in sé che “immagini da incubo”, le immagini di Jof sono invece le rappresentazioni di una “verità più vera”. Mentre le immagini del cavaliere sono dominate dalla Morte (e mostrano che anche il suo mondo interiore, come il mondo esterno, è devastato dall’Apocalisse quotidiana che la follia di alcuni ha scatenato sulla Terra) le immagini dell’attore invece si oppongono all’orribile realtà creandone un’altra: più bella, più umana, più vera di quella reale.

 

Poiché Jof è diverso da Block e dagli altri, è rimasto umano, e quindi anche il mondo che egli crea per Mia, per Michael, per sé, e per chi assiste ai loro spettacoli, è diverso e più vero del mondo reale.

 

D’altra parte, se Jof è diverso, non è però invulnerabile: il mondo reale (meno vero del suo in quanto meno umano) può far del male anche a lui. Può addirittura ucciderlo. Ma non può uccidere in lui l’essere umano. Non può fare, in lui, l’anaffettività e il vuoto che è riuscito a fare in Antonius Block.

 

“Se le cose stanno così,” replica al cavaliere il monaco (che in realtà è la Morte) “non credi che per te sia meglio morire? Perché non smetti di lottare?”

 

“Per l’ignoto che mi atterrisce”.

 

“Il terrore è figlio del buio” commenta la Morte. E Block, allora, le rivolge una serie di domande che sono al tempo stesso un’invettiva contro Dio, piena di terrore e d’angoscia: il terrore e l’angoscia che scaturiscono, come ha detto la Morte, dal buio che c’è in lui, cioè dal suo non vedere e non capire:

 

“Perché Dio si nasconde?” urla. “Perché dovrei aver fede nella fede degli altri? Perché non riesco a uccidere Dio in me stesso, anche se lo maledico e voglio strapparlo dal mio cuore?”

 

“Il suo silenzio non ti parla?” domanda la Morte.

 

“Io lo invoco! E se non mi risponde, penso che non esista!”

 

“Forse è così. Forse non esiste”.

 

“Ma allora la vita è un vuoto senza fine!”

 

Questo, dunque, è il buio che è in Antonius Block e ne provoca il terrore. Egli continua a cercare e a invocare Dio, disperandosi perché Dio non risponde e dunque non esiste, forse, o almeno è del tutto indifferente al mondo devastato in cui vagano gli umani. Non sa, Antonius, che quel che cerca non è Dio, ma sé stesso: l’uomo che un tempo era e che potrebbe tornare a essere (“Nel fondo delle tue pupille,” gli dirà infatti la moglie, “c’è ancora il ragazzo che se ne andò di qui tanto tempo fa”); l’uomo che egli cominciò a distruggere dentro di sé quando credette ai predicatori di fanatismo, alleati della Morte, e partì per la Crociata; l’uomo pienamente umano, insomma, che nel film non è impersonato dal cinico e disincantato Jöns, lo scudiero ateo, ma da Jof che il problema di Dio non se lo pone affatto, poiché è troppo “preso” dall’amore per Mia, dall’incanto per il loro bambino e dalle mirabili creazioni della propria fantasia.

 

Non capendo che invece di Dio dovrebbe cercare in sé la capacità di essere come Jof, Antonius Block è destinato a perderla, quella tremenda partita: lo capiamo quando lo udiamo dichiarare, parlando col monaco che è la Morte: “Col tempo che guadagnerò, sistemerò una faccenda che mi sta a cuore”.

 

“Di che si tratta?” domanda la Morte.

 

“Ho passato la vita a far la guerra, andare a caccia, agitarmi e parlare senza senno... Un vuoto! [...] Ma ora voglio utilizzare il respiro che mi sarà concesso per compiere un’azione utile”.

 

Un’azione utile! In questo “eroico” quanto mediocre proposito (accontentarsi di compiere una “buona” azione e poi morire, anziché ritrovare in sé stesso “il ragazzo che se ne andò tanto tempo fa” e vivere) c’è tutta la rassegnazione del cavaliere e quindi c’è già la sua sconfitta. E non è un caso, perciò, che sia proprio in questo momento che la Morte, nei panni traditori del monaco confessore, riesce a carpirgli un’informazione che le permetterà di dargli scacco matto, non appena la partita riprenderà.

 

Ma la Morte incombe anche su Jof, Mia e Michael. Gliela ricorda, indossandone la maschera, il loro vanesio e sciocco compagno, Skat, che di ciò che rende umani gli umani non sa nulla, e dell’Arte capisce solo che con essa può riempirsi la pancia e procurarsi qualche facile donnina con cui spassarsela per un giorno o due (e perciò non si salverà, e la Morte gli segherà sotto il sedere l’albero sul quale si arrampicherà come una scimmia rinunciando alla propria umanità): “È scoppiata una terribile pestilenza,” dice Skat ai compagni, “e i preti se ne avvantaggiano perché fa aumentare i pentimenti!”

 

La Crociata, che si è portata via gli uomini migliori; la peste, che spopola intere regioni; la malvagità del fanatismo religioso, rappresentata dall’orrenda processione che interrompe la recita e dai “pii” discorsi degli avventori della locanda pronti a tramutarsi in aguzzini del povero Jof: è questa l’Apocalisse, alla quale alludono il titolo del film e l’affresco de La danza della morte che il pittore dipinge su una parete della chiesa. L’Apocalisse che è in ogni momento della Storia in cui il mondo è dominato dalla Morte e dal non umano, anziché dalla Vita e dall’umano. Ma di chi è la colpa? Dell’assenza e dell’indifferenza di Dio, come crede il cavaliere? O invece della devastazione, della distruzione e della perdita dell’umano? La risposta del film è chiara: sono uomini precisi quelli che fanno trionfare la Morte in sé stessi e nel mondo. Sono gli uomini che negano e uccidono, in sé e nel mondo, non Dio, ma quel che ci rende umani.

 

Ma chi è, tra di noi, che induce alcuni e alcune di noi allo scempio di sé?

 

Non le persone come Antonius Block, che partirono per la Crociata perché furono ingannati e poi si son resi conto di avere sprecato e distrutto la propria vita; non i monaci e i soldati, ingannati anch’essi, che bruciano sul rogo la “strega”; e nemmeno la “strega”, anche lei così ingannata da credere davvero di essere una schiava del demonio... No: l’unico, vero colpevole, dice Il settimo sigillo, è Raval.

 

Raval è l’ex seminarista e studente di teologia che Jöns ritrova, nel villaggio dei morti di peste, intento a derubare i cadaveri. Jöns lo riconosce: è il prete che anni prima, dicendo ad Antonius Block che tale era il volere di Dio, lo aveva convinto a partire per la Crociata. Mentre lui si era guardato bene dal partire, invece, e abbandonati gli studi religiosi si era tramutato in uno “sciacallo”: in uno di quegli individui, cioè, che approfittano della morte, che essi stessi hanno sparso nei cuori altrui e per le vie del mondo, per arricchirsi e diventare potenti. Poco dopo, infatti, ritroviamo Raval nella locanda: sta sobillando gli avventori contro Jof, lo maltratta, lo sevizia, si prepara a ucciderlo; e dice, da quel prete che non ha mai smesso di essere, che lo fa perché Jof è un farabutto, perché gli attori sono alleati di Satana.

 

Ecco, dunque: i cattivi sono i bugiardi, ma quelli grandi. Non, cioè, quelli che contan frottole per salvarsi da un pericolo o per conseguire un modesto utile, ma quelli che spacciano le immense bugie che ci fanno sbagliare la vita: I Raval, quelli che ci inducono in errore sulla nostra umanità e in tal modo fanno di noi i burattini che la Morte trascinerà con sé in una danza che non finirà che con la morte.

 

Il cavaliere e la moglie, l’ateo ma troppo razionale Jöns e la ragazza muta, il fabbro Plog e Lisa: incapaci di capire cosa gli è stato rubato dai tanti Raval che hanno incontrato, e incapaci, perciò, di capire cosa dovrebbero cercare e ritrovare in sé e non altrove, costoro non possono sottrarsi alla Morte: danzeranno con essa fino all’ultimo giorno, sballottati qua e là come burattini per il mondo disumano di cui la Morte fa il proprio palcoscenico. E di buono non potranno far niente? Tutt’al più, forse, potranno immolarsi, come Antonius Block, affinché Jof, Mia e Michael vivano ancora un po’ nel loro piccolo mondo vero.

 

Jof e Mia che al cavaliere avevano offerto, con le fragole e il latte, la possibilità di un’umana “comunione” con loro. Ed egli non era riuscito che a gioirne, a sentirsi bene, ma senza capire la grande risposta che stava ricevendo: “Tutto appare diverso, con voi!” aveva detto. “Lo ricorderò, questo momento. Porterò con me questo ricordo delicatamente, come se fosse una coppa di latte appena munto che non si vuol versare”. E non si era accorto che Jof poteva dargli molto di più poiché era il solo, fra i tanti che il cavaliere aveva incontrato in vita sua, che poteva vederlo nell’atto assurdo di giocare con la Morte.

 

“Asciugati le lacrime e specchiati nella tua anaffettività” dice, sapendo ma non sentendo né capendo, Jöns a Block. “Forse avrei dovuto liberarti da questa angoscia dell’eternità... Ma ormai è troppo tardi, per insegnarti la gioia di una mano che si muove e di un cuore che pulsa”.

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(Le schede di Spiegare un film a un bambino sono per bambini e ragazzi di Quinta elementare, Prima, Seconda e Terza media.

Sono scritte, perciò, il più semplicemente possibile. Ma non sono affatto... semplicistiche.

Vuoi servirtene? Fai pure. Ma non spezzettarle, non alterarle e non dimenticare di citarne l’autore!)

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