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Ricordi Immaginari - Spiegare un Film a un Bambino

 

Moby Dick

 

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Titolo: Moby Dick.

Titolo originale: Moby Dick.

Regista: John Huston.

Autore del romanzo: Herman Melville.

Sceneggiatore: Ray Bradbury.

Paese di produzione: U.S.A..

Anno di produzione: 1956.

Attori principali: Gregory Peck (Capitano Achab), Richard Basehart (Ismaele), Orson Welles (padre Mapple), Leo Genn (Starbuck), James Robertson Justice (Capitano Boomer), Harry Andrews (Stubb), Mervyn Johns (Peleg), Frederick Ledebur (Quiqueg), Edrik Connor (Daggoo), Seamus Kelly (Flask).

Durata: 1h 56’.

 

Lo scrittore

Herman Mellville

 

Il regista

John Huston

 

Lo sceneggiatore

Ray Bradbury

 

Il film

 

“Chiamatemi Ismaele. Alcuni anni fa ― non importa quanti esattamente ― avendo pochi o punti denari in tasca e nulla di particolare che m’interessasse a terra, pensai di darmi alla navigazione e vedere la parte acquea del mondo. È un modo che ho io di cacciare la malinconia e di regolare la circolazione del sangue...” Comincia così (nella traduzione di Cesare Pavese) il grande romanzo di Herman Melville pubblicato nel 1851. E comincia così anche il film di John Huston (sceneggiato con maestria da Ray Bradbury) che ne è lappassionata (ma sottilmente irrispettosa) trasposizione cinematografica.

Il giovane Ismaele (conosciuto in modo piuttosto avventuroso un esotico ramponiere, Quiqueg, appena arrivato dai Mari del Sud “con un lotto di teste neozelandesi imbalsamate”) decide di imbarcarsi con lui e si fa assumere come mozzo su una nave baleniera, il Pequod. Non lo dissuadono dal partire né le descrizioni della pericolosa vita dei cacciatori di balene e degli interminabili anni che trascorrono in mare aperto senza più casa né patria, né gli ammonimenti e i presagi che insinuano che su quella nave e sul suo equipaggio incomba un oscuro destino, né la notizia che il comandante è un uomo misterioso e truce di cui si narrano storie terribili: il capitano Achab, che ha giurato eterno odio alla mostruosa balena bianca, Moby Dick, che anni prima gli ha amputato una gamba con un terribile morso.

Ismaele parte lo stesso. Forse perché, prim’ancora di conoscerlo personalmente, già condivide con Quiqueg e il resto dell’equipaggio l’affascinata sottomissione che li lega ad Achab e alla sua vendicativa follia? O piuttosto perché senza di lui, senza Ismaele unico sopravvissuto, la bara che resterà del Pequod non potrebbe, da veicolo di morte, trasformarsi in portatrice di salvezza?

Il commento di Luigi Scialanca

 

Moby Dick è la Natura nel suo aspetto più terribile? La Natura anaffettiva, che non ubbidendo che alle proprie leggi ci piega e ci distrugge? Ciò che le nostre realizzazioni non potranno forse mai “addomesticare”: i terremoti, le eruzioni vulcaniche, le stelle che esplodono distruggendo interi sistemi solari, la morte stessa? Ciò, insomma, al cui irresistibile potere dovremmo rassegnarci? E Achab, che invece non si rassegna, siamo noi stessi che ci ribelliamo alla nostra condizione e ai nostri limiti? È l’Umanità come escrescenza maligna, che non accetta di esser parte disciplinata e umile della Natura e che rischia consapevolmente e insensatamente la distruzione pur di trionfare su di essa?

 

Se così fosse, Achab sarebbe quel che ne pensano Huston e Bradbury: lo smisurato orgoglio della scienza del Novecento (e della politica sua complice) che affette da sindrome di onnipotenza e da bramosia di potere e di ricchezza, e senza più alcun rispetto per gli esseri umani e per il pianeta, inventano e implementano tecnologie dalle potenzialità sempre più mostruose e sempre meno controllabili.

 

È un’interpretazione suggestiva, e comprensibile se si considera che nel 1956, quando il film fu girato, il mondo era sull’orlo di un conflitto nucleare tra Stati Uniti e Unione Sovietica che lo avrebbe ridotto a un deserto radioattivo. Ma è sbagliata: Melville non era un profeta delle sventure del progresso, ma del peso insopportabile della “civiltà” sotto le proteiformi ma fondamentalmente identiche tirannie della fede e dell’ideologia.

 

L’incipit di Moby Dick ― Ismaele che corre al mare per sfuggire al “novembre umido e piovigginoso” che gli “scende nell’anima”, e con lui le “migliaia e migliaia di mortali perduti in fantasticherie oceaniche” che ignoti desideri muovono ad affollare le banchine di New York da ogni parte dell’entroterra, “da viottoli e da vicoli, da vie e da corsi, dal nord, dall’est, dal sud e dall’ovest”; Ismaele e gli altri che neanche gli spaventosi ammonimenti di padre Mapple a chi tenta di sottrarsi a Dio riescono a trattenere a terra ― cosa cercano se non una realizzazione, quale che sia, purché lontano dall’“ordine costituito” che non riconosce altre identità che quelle del Padre e dei padri?

 

No: il mare di Melville e del suo Ismaele altro non essendo che lo sconfinato oceano di ogni possibile impresa dell’uomo per l’uomo, come si può cucire loro addosso gli abiti da moralisti dei nemici del progresso in nome della Natura? È proprio il progresso quel che Ismaele cerca, cioè il movimento, fuori dalle morte gore in cui i padre Mapple vorrebbero vederlo marcire. E Achab non è, dunque, il titano dell’autoaffermazione umana, che l’Onnipotente incenerirà per punirne l’orgoglio blasfemo, ma l’“eroe” negativo dell’autodistruzione umana: colui che, in nome di un qualche Onnipotente, da quello stesso invincibile impulso al libero movimento vuol trarre la volontà e la forza, sopprimendolo entro di sé e negli altri, di rendersi non umano.

 

Moby Dick, cioè, per Achab è sì il Male da spazzare via dalla faccia della Terra, ma non come Natura nella sua interezza: il Male, l’invincibile entità mostruosa che non si assoggetta alle leggi, alle preghiere e alle poesie con cui ci illudiamo di riuscire ad ammansirla, è per Achab la nostra stessa umanità: è la natura umana ribelle a ogni controllo. Per Achab ― come per il non meno tenebroso padre Mapple, che di Achab non è l’avversario ma l’alter ego terricolo ― il Male è nell’essere umano ed è la sua indomabile libertà e volontà di movimento interno, quel potere di immergersi negli abissi più profondi dell’Universo (in cerca “della perla delle perle”, aveva detto pochi anni prima il giovane Marx) e laggiù apparentemente scomparire per poi riemergere, all’improvviso, dove e come vuole e senza che alcuno possa fermarlo. E la “missione” di Achab, pertanto, non è l’affermazione “titanica” del dominio umano sulla Natura, ma la distruzione interna della natura umana per annullarne la capacità di progresso e realizzazione.

 

È per questo che Achab affascina i suoi uomini fino a cancellare in loro la bramosia di guadagno e perfino l’istinto di sopravvivenza; è per questo che piega così facilmente la resistenza dei pochi che gli si oppongono: perché la malattia del pensiero da cui trae forza la sua volontà ― il delirio che un mostro si nasconda in ognuno di noi perché mostruosa è la nostra natura ― è la stessa malattia che anche in loro fu inoculata e allevata dalle legioni di padre Mapple che li governarono e ammaestrarono fin dalla nascita. E perché essi sentono e vedono che se al mondo c’è qualcuno che può compierla, l’impresa di rendere non umani sé e loro e forse il mondo intero, questo è proprio lui, Achab, l’uomo che si è dimostrato capace di tutto uccidendo sé stesso e rimanendo, tuttavia, abnormemente vivo

 

Genio straordinario di Herman Melville che nel 1851, a poco più di trent’anni dalla sua nascita e a più di mezzo secolo dai primi orrori del Novecento, già intuiva quanto potente fosse per diventare la frenesia di una parte di noi contro la nostra stessa umanità, e a quali capi stesse andando incontro!

 

Ma gli Achab falliscono, muoiono, e con sé fanno perire chiunque li segua (meno uno, naturalmente, poiché per l’immaginazione umana non può non esserci almeno uno che si salva, e quell’uno è Ismaele poiché siamo noi quell’uno, è per noi che la bara che è il romanzo intitolato Moby Dick può tramutarsi in una scialuppa di salvataggio). E sono sconfitti e distrutti, gli Achab, poiché la Natura (intorno a noi e in noi, che ne siamo parte come tutto ciò che esiste) non può e non dev’essere neanche sfiorata in ciò che in essa è selvaggio. Non si può uccidere Moby Dick nel profondo dell’oceano sconfinato in cui liberamente si muove ― non si può nemmeno costringerla ad emergere, anzi: non si può neanche sostenerne la vista, se la si guarda con intenzioni violente ― poiché colpire e uccidere ciò che non si può domare vorrebbe dire arrestare e distruggere l’invisibile movimento profondo senza il quale non siamo.

 

“Non pareva avesse indosso segni di una comune malattia fisica, né di convalescenza alcuna. Aveva l’aspetto di un uomo staccato dal rogo quando il fuoco ha devastato, trascorrendole, tutte le membra, ma senza consumarle o rubar loro una sola particola della compatta e vecchia robustezza. [...] Un segno sottile come una bacchetta, d’un biancore livido, si apriva una strada di tra i capelli grigi e continuava dritto da un lato della faccia e del collo abbruciacchiati dall’abbronzatura, finché scompariva negli abiti. La cicatrice perpendicolare somigliava a quella che si produce talvolta sul tronco dritto di un grande albero, quando la folgore vi si precipita squarciante e, senza divellere un sol ramo, da cima a fondo spella e scava la corteccia prima di perdersi nel suolo, lasciando la pianta ancor verde di vita, ma segnata”.

 

Leso anche nel corpo, oltre che nella mente, per essersi ridotto a “puro spirito”, a razionalità acorporea che a quel che resta del corpo pretende dimporre la sua tirannia, Achab impara, insieme ai disperati che ha fatto impazzire, che lo spirito senza il corpo, cioè la morte dell’umano dell’uomo, non è possibile che come incubo insopportabile; e che l’acorporeità dell’ordine razionale costituito ― si presenti esso come “divino” o come umano ― altro esito non può avere che la sconfitta, la morte e la distruzione.

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(Le schede di Spiegare un film a un bambino sono per bambini e ragazzi di Quinta elementare, Prima, Seconda e Terza media.

Sono scritte, perciò, il più semplicemente possibile. Ma non sono affatto... semplicistiche.

Vuoi servirtene? Fai pure. Ma non spezzettarle, non alterarle e non dimenticare di citarne l’autore!)

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