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Ricordi Immaginari - Spiegare un Film a un Bambino

 

Tarda primavera

 

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Titolo: Tarda primavera.

Titolo originale: Banshun.

Regista: Yasujiro Ozu.

Paese di produzione: Giappone.

Anno di produzione: 1949.

Attori principali: Setsuko Hara (Noriko, figlia), Chishu Ryu (Shukichi Somiya, padre).

Durata: 1h 48’.

 

Il regista

 

Yasujiro Ozu

 

Il film

 

Tarda primavera è un “messaggio nella bottiglia” recato dal corso del tempo, anziché dalle onde del mare. Dunque, come tutto ciò che viene concepito per sfidare il trascorrere degli anni, è un messaggio che non è stato inviato per invocare il nostro aiuto, ma per arricchire l’universo fantastico umano di un’altra immagine creativa della realtà, per condividerla con noi, forse per aiutarci. Per questo, malgrado l’enorme distanza che ci separa dal suo luogo di partenza (cioè dal Giappone del 1949) è un messaggio che ci parla di un passato anche nostro, e ci illumina, quindi, anche sul nostro presente.

 

È un film, infatti, sulla separazione tra un padre che si avvia verso la vecchiaia e una figlia che ha raggiunto l’età adulta, e dunque sul rapporto fra le generazioni. È un film su un’epoca che volge al termine mentre una nuova si distacca a poco a poco da essa, e dunque sul rapporto tra passato e presente. Ed è un film che rivolge a queste situazioni e ai problemi che ne scaturiscono uno sguardo così limpido, essenziale, consapevole (lo sguardo di cui son capaci solo i bambini, e talora i geni) che tutto ciò che osserva e ci mostra non è mai più di quello che in ogni tempo e in ogni luogo potrebbe essere intuitivamente capito da ogni essere umano. È un’opera d’arte universale, insomma, e perciò continua a coinvolgere e commuovere gli spettatori benché la realtà in cui essa è ambientata sia ormai scomparsa.

 

Tarda primavera, dunque, è la storia di un Padre, da tempo rimasto vedovo, e di una Figlia che per anni si è occupata di lui non meno di quanto egli si è preso cura di lei. Intorno a loro, pochi personaggi altrettanto emblematici: una Zia (la sorella del Padre) che si adopera affinché la Figlia si sposi; un’Amica della Figlia, sposata e già divorziata, che di volta in volta turba o incoraggia la protagonista con i suoi consigli; un Collega del Padre, vedovo e padre anche lui, che si è risposato con una donna assai più giovane; un Allievo del Padre (e Amico d’infanzia della Figlia) che si stanca di aspettarla e sposa una ragazza che ha tre anni meno di lei; e infine una Bella Signora: una giovane vedova che il Padre, forse, potrebbe sposare emulando l’ardito Collega. Ma Shukichi (il Padre) non ha alcuna intenzione di risposarsi: il suo solo pensiero, da quando si è improvvisamente reso conto del trascorrere del tempo, è la preoccupazione per Noriko (la Figlia), che sembra aver del tutto rinunciato al matrimonio e all’indipendenza, cioè alla propria realizzazione, e si comporta come se avesse deciso di dedicarsi al Padre per tutta la vita.

 

Come convincerla a separarsi da lui? Quando Noriko gli confida la propria disapprovazione per il secondo matrimonio del Collega, da lei definito “immorale”, l’anziano professore ha un’idea: le farà credere di aver deciso di sposare la Bella Signora. Sperando che la prospettiva di un così profondo mutamento del loro rapporto, ormai quasi pietrificato, induca Noriko a ridestarsi dalla sua invernale immobilità, a trovare il coraggio di riprendere a creare e trasformare l’immagine di sé e della vita, e a rifiorire, prima che sia davvero troppo tardi, in una sia pur tarda primavera.

Il commento di Luigi Scialanca

 

I rapporti umani non si basano, come accade fra gli altri animali, solo sui bisogni e le necessità: procurarsi il cibo, riprodursi, allearsi per trarne vantaggio. Anche su questo (poiché gli umani sono anch’essi animali) ma non soltanto su questo. E talvolta, anzi, se ne disinteressano del tutto.

 

Bisogni e necessità, infatti, non sono creativi: riproducono, tale e quale, quel che c’è già (riempiono di nuovo la pancia, restituiscono al corpo il calore perduto, mettono al mondo nuove generazioni che prenderanno il posto delle precedenti, ecc.) ma non creano niente di nuovo. Mentre i rapporti umani, oltre che soddisfare bisogni e necessità, creano sempre anche qualcosa che prima non esisteva.

 

Cosa sia questo qualcosa di nuovo, però, non è facile spiegarlo né comprenderlo. Diciamo soltanto (anche se in modo approssimativo e un po’ enigmatico) che i rapporti umani, oltre che soddisfare bisogni e necessità, fanno sì che le menti “crescano” e si realizzino. O talvolta, purtroppo, che invece si ammalino. Diciamo che gli esseri umani, cioè, creando e costruendo rapporti, mettono al mondo le proprie realtà psichiche e si prendono cura di esse o le sciupano, le aiutano a svilupparsi o a deteriorarsi e morire.

 

I nostri rapporti, dunque, esprimono anche le idee che abbiamo di noi stessi e degli altri. E tali idee contengono progetti di situazioni da creare insieme. E tali situazioni, se le idee di partenza sono valide, rendono le nostre menti via via più creative, più potenti, più belle: in una parola, sempre più umane.

 

Ogni volta che iniziamo un rapporto, contemporaneamente iniziamo anche a realizzare l’idea che abbiamo di noi stessi, degli altri e del nostro rapporto con loro. E tale idea è tanto più valida quanto più è disinteressata: quanto più si propone, cioè, di realizzare situazioni che non hanno alcuno scopo pratico, ma solo quello di essere piacevoli, belle, gioiose e indimenticabili per tutti.

 

È naturale, perciò, che di ogni nostro progetto di rapporto faccia parte anche il progetto di durare a lungo, magari per tutta la vita. Poiché nessuno sarebbe così sciocco da proporsi di far terminare qualcosa che col passar del tempo lo rende più umano.

Quando diamo inizio a un rapporto, perciò, non includiamo mai la sua conclusione nel progetto più o meno consapevole che lo fonda. Al contrario: fin dall’inizio consideriamo e temiamo l’eventualità di una futura, definitiva separazione come la prospettiva di un fallimento totale.

 

Solo un rapporto fa eccezione a questa regola: quello tra genitori e figli.

 

Quando ha inizio, con il concepimento di un nuovo essere umano, un rapporto tra un genitore e un figlio, la futura, inevitabile separazione del secondo dal primo non soltanto è conosciuta e messa in conto (all’inizio solo dal genitore e poi, col passar del tempo, sempre più anche dal figlio) ma è addirittura auspicata e desiderata. E non solo non è vista come un fallimento del rapporto, ma come il segno più certo e attendibile (quando la separazione riesce bene) della sua validità e del suo successo.

 

Già la nascita è separazione, poiché il figlio, nascendo, smette di essere una parte del corpo della madre e si separa da esso. Ma lo sono anche lo svezzamento e la pubertà: progressive e sempre più nette separazioni, a ognuna delle quali il figlio realizza sempre più nettamente la propria necessaria indipendenza. Separazioni volute dalla Natura, scritte con un inchiostro indelebile nelle condizioni stesse della Realtà, e che perciò sarebbe segno di follia anche solo ipotizzare d’impedire.

 

Se ben riuscite, già esse sono definitive: il rapporto smette di esistere, si trasforma in un altro. Ma del rapporto precedente non tutto scompare: rimangono i ricordi, le fantasie, le idee, la realtà psichica che in esso sono stati creati. Di quel che vi è stato tra il figlio e i genitori, cioè, a ogni separazione rimane in loro un progresso (o talvolta, purtroppo, un danno) nella creazione delle rispettive menti.

 

Arriverà, alla fine, la morte dei genitori. Altrettanto naturale e inevitabile delle separazioni precedenti. Ma davvero totale e definitiva, poiché segnerà il momento oltre il quale il rapporto non potrà più crescere né trasformarsi. E tuttavia, se non giungerà prematura e se troncherà un rapporto già pienamente vissuto, la morte dei genitori infliggerà al figlio un immenso dolore, ma non gli arrecherà alcun danno.

 

Ben prima di essa, però, nelle società e nelle famiglie ben funzionanti, viene il momento in cui il figlio separa del tutto la propria vita da quella dei genitori. Il momento, cioè, a partire dal quale egli è completamente indipendente e autonomo da essi. Ed è allora, soprattutto, che si capisce se e quanto il rapporto sia stato valido: se e quanto, cioè, i genitori siano riusciti, ognuno per la sua parte, a non ostacolare e anzi ad aiutare il figlio nella costruzione di sé.

 

Tarda primavera descrive appunto le azioni intraprese da Shukichi, il Padre, dopo che egli si è reso conto che la mancata separazione tra lui e Noriko, la Figlia, non soltanto sarebbe un segno terribile che la Figlia ha fallito nella costruzione di sé e non è in grado di vivere pienamente la propria vita, ma dimostrerebbe che tale fallimento ha avuto origine nel loro rapporto: sarebbe il fallimento di Noriko come essere umano e come donna, il fallimento del loro rapporto e il suo personale fallimento come padre.

 

Ma questo, all’inizio, ci è difficile perfino immaginarlo, poiché tutto, fra Noriko e suo padre, sembra assolutamente perfetto. Dai gesti, dagli sguardi e dalle parole dell’anziano professore non traspaiono che la sua saggezza, la sua capacità di comprensione, la calma e la benevolenza con cui riflette sugli altri e sulla vita; in quelli di sua figlia non scorgiamo che intelligenza e amore, vivacità e delicatezza, forza d’animo e sensibilità, e nel suo modo di muoversi la grazia e l’armonia che sempre scaturiscono dall’insieme di tali qualità assai più che dalla bellezza o da una naturale eleganza. Che altro potremmo dunque vedere, nel rapporto che li unisce, se non la più perfetta espressione delle loro bellissime realtà umane?

 

Eppure non è così. O rischia di non essere più così fra non molto. Poiché gli anni passano, i tempi e il mondo cambiano, ma il rapporto tra Shukichi e Noriko rimane lo stesso. E Shukichi, grazie anche alla sua saggia sorella, un giorno se ne rende conto: si accorge che Noriko non pensa più a sposarsi, cioè che crede di non poter più innamorarsi; che è decisa a restare per sempre con lui, cioè che non pensa e non vuol più riuscire a diventare una donna indipendente e autonoma. Si accorge, insomma, che dalla vita di Noriko è sparita... la vita: si è congelata in un eterno presente, nell’immobilità di un eterno ripetere, senza più l’attesa e neanche la speranza di ulteriori trasformazioni e realizzazioni di sé.

 

Ingannarla, farle credere che ha deciso di risposarsi e che perciò la sua immobilità sta per essere comunque interrotta, è il colpo inatteso e magistrale con cui Shukichi riesce a infrangere la dura corazza di serenità, apparentemente inattaccabile, in cui Noriko si è chiusa. È un colpo inferto senza alcuna violenza, senza mai alzar la voce, con appena qualche cenno del capo e una piccola esibizione di cortesia, una sera a teatro, nei confronti della bella signora che vuol far credere di aver prescelto. Ma il suo effetto è dirompente, poiché Noriko, a questa notizia, anziché rallegrarsi per la vitalità del padre e la più completa felicità che egli è sul punto di conseguire, non riesce che a disapprovarlo duramente; e questa collera insensata e malevola, così estranea all’immagine che ella coltiva di sé, la costringe a vedere che dietro la rinuncia a sposarsi, anziché il desiderio di sacrificarsi per il bene di Shukichi, c’è la sua disperata volontà di continuare a distruggersi, a sparire dietro il padre servendosi di lui come di un alibi: facendogli fare per sempre, cioè (pur di non sentirsi la carnefice di sé stessa, ma una figlia devota e amorevole) la parte del padre anaffettivo, capace di accettare il suo sacrificio come un atto naturale e dovuto.

 

Allora, in un ultimo disperato tentativo di scongiurare la separazione che rimetterebbe in movimento la sua vita, Noriko chiede scusa al padre per aver cercato di dissuaderlo dal risposarsi, gli promette che amerà e rispetterà sua moglie come una seconda madre... e lo supplica piangendo di non mandarla via, di permetterle di restare con loro, di continuare a esser figlia per sempre! Ammette, cioè, quel che fino a poco prima non sospettava neppure: che non per lui ella rimaneva, ma per il timore del cambiamento. Shukichi, allora, le spiega pacatamente che questo è impossibile: ella non può rinunciare alla ricerca della felicità, per quanto difficile e rischiosa essa possa essere; né può pretendere, spinta dalla paura di vivere, che sia proprio lui, che le vuol tanto bene, a costringerla a rinunciarvi. E Noriko finalmente capisce: è stata egoista, riconosce, e non vuol esserlo più; smetterà di sacrificarsi per il padre e si separerà da lui.

 

Poiché, come anche noi in quel momento capiamo, il sacrificio di sé è accettabile (e perfino doveroso) solo se ci si sacrifica per non diventare peggiori, come l’eroe che si lascia condannare a morte per non diventare a sua volta un carnefice. Ma se ciò che sacrifichiamo è la possibilità di realizzarci più validi, allora il sacrificio non ha niente di meritorio: è violenza inutile contro noi stessi. E anche contro chi ci vuol bene, se la più valida realizzazione che rifiutiamo è una sua proposta, un’immagine di come potremmo essere creata dal suo amore per noi. Poiché i giovani hanno il dovere di realizzarsi proprio come i vecchi hanno il dovere di non impedirglielo. E il presente deve separarsi dal passato, per la realizzazione di un futuro migliore, proprio come il passato deve farsi da parte accettando di trasformarsi in ricordo.

 

La Figlia si sposa. Se ne va. Il Padre, compiuta l’opera, rimane solo. Vicino a lui c’è una mela. Egli la prende e comincia a sbucciarla meticolosamente, con la stessa amorevole cura con cui si è sempre dedicato a tutte le cose, piccole o grandi che fossero. Ma ecco che s’interrompe, e reclina il capo tristemente. Per il dolore della separazione dalla figlia? O perché si è reso conto che ciò che viene dopo, anche quando tutto è stato fatto al meglio, non è altro che la fine?

 

Fuori, intanto, non lontano dalla casa in cui la gioia di Shukichi si fonde con la sua tristezza, continua a muoversi il mare che non finisce mai.

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(Le schede di Spiegare un film a un bambino sono per bambini e ragazzi di Quinta elementare, Prima, Seconda e Terza media.

Sono scritte, perciò, il più semplicemente possibile. Ma non sono affatto... semplicistiche.

Vuoi servirtene? Fai pure. Ma non spezzettarle, non alterarle e non dimenticare di citarne l’autore!)

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