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Libera Scuola di Umanità diretta da Luigi Scialanca

 

Ricordi Immaginari - Spiegare un Film a un Bambino

 

Rosetta

 

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Titolo: Rosetta.

Titolo originale: Rosetta.

Regista: Luc e Jean-Pierre Dardenne.

Paese di produzione: Francia.

Anno di produzione: 1999.

Attori principali: Émilie Dequenne (Rosetta), Fabrizio Rongione (Riquet), Anne Yernaux (la madre), Olivier Gourmet (il padrone).

Durata: 1h 31’.

 

I registi

 

Luc e Jean-Pierre Dardenne.

 

Il film

 

Nella vita di Rosetta sembra che per l’immaginazione non ci sia posto: con una madre alcolizzata da sfamare e tener lontana dai guai, senza nessuno che le voglia bene, senza casa e ben presto anche senza lavoro, Rosetta ogni giorno deve lottare ferocemente per sopravvivere, come un animale, in una Società che non la considera e non la tratta come un essere umano. In una Società che l’ha cancellata, che perciò tira avanti senza vederla come se lei non esistesse, e che a poco a poco la sta inducendo a comportarsi come se davvero non vi fosse più traccia, in lei, dell’umanità originaria. Eppure c’è ancora, in Rosetta, senza che lei se ne renda conto, il rifiuto di credere alla menzogna che la vuole non umana, animale, inesistente, scomparsa, e col rifiuto la lotta per tenere in vita ― nel cuore, nella mente, nella realtà ― almeno la speranza inconscia di un’immagine di sé più bella e più valida di quella che è costretta a vedere nello “specchio” della sua vita di ragazza abbandonata e sfruttata: una speranza che nessuno le ha suggerito (poiché nessuno è mai stato in grado neanche di sospettarne la possibilità) ma che Rosetta riesce ugualmente a serbare intatta nel profondo della mente contro tutti e tutto. Perfino contro sé stessa.

 

Con la macchina da presa che le sta sempre addosso ― quasi che anch’essa, come lo spietato meccanismo di emarginazione e di sfruttamento in cui Rosetta è stata fatta cadere, si preparasse a piombare su di lei per stritolarla e schiacciarla ― i registi tentano invece di sorprenderla in un momento di umanità, cercano disperatamente una prova, per quanto infima e quasi impercettibile, che nonostante tutto anche Rosetta è ancora un essere umano: non le danno un attimo di respiro ― così come non glielo dà, a parte il giovane Riquet, nessuno degli uomini e delle donne che intorno a lei la Società ha tramutato, da esseri umani, in padroni e schiavi ― ma lo fanno perché a ogni costo vogliono trovare anche in lei un barlume di quella bellezza interiore di cui va giustamente orgogliosa la parte sempre più esigua del genere umano alla quale è ancora concesso di coltivarla. E ci riescono, alla fine: Rosetta, addormentandosi nella brandina che Riquet le ha messo a disposizione, parla di sé stessa: parla dell’immagine di sé che è impossibile che abbia, ridotta com’è, e che invece ha, e che ci costringe a riconoscere che sì, è vero, sono esseri umani anche quelli che da vicino e da lontano rischiamo continuamente di non vedere più, come se non esistessero, mentre lottano per sopravvivere come se fossero animali, benché animali non siano.

Il commento di Luigi Scialanca

 

Tu ti chiami Rosetta.

Io mi chiamo Rosetta.

Tu hai trovato lavoro.

Io ho trovato lavoro.

Tu hai trovato un amico.

Io ho trovato un amico.

Tu hai una vita normale.

Io ho una vita normale.

Tu non finirai in un buco nero.

Io non finirò in un buco nero.

 

È la prima volta che la vediamo serena. La prima volta ― e siamo quasi a metà film ― in cui il suo bel visetto adolescente non è deformato dalla spietata consapevolezza della lotta senza quartiere che sta combattendo da sola non soltanto per sopravvivere, ma per conservare a sé stessa l’unico rispetto che le è rimasto: il proprio. La prima volta che nel suo sguardo possiamo scorgere non dico un po’ di gioia, questo no ― dovremo alla fine separarci da lei senza aver visto niente del genere, e ci resteremo molto male ― ma un flebile barlume di speranza che la vita possa anche essere meno dura e disperata di come le è apparsa finora, e il suo futuro meno tragico di quello che il presente le minaccia.

 

Sta per addormentarsi nella branda che le ha offerto il giovane Riquet, quando quelle parole scaturiscono dalle sue labbra con la quieta precisione con cui ne sgorgherebbe una preghierina risaputa: solo che non si tratta di una preghiera ― perché Rosetta non si sta rivolgendo a Dio e di sicuro non sta chiedendo nulla, ma al contrario sta promettendo qualcosa ― ed è la prima volta che pensa e dice parole così, e la sua tranquillità non ha niente a che vedere con la placida indifferenza con la quale potrebbe ripetere per l’ennesima volta qualcosa che ormai non la sorprende più, ma è piuttosto l’effetto della tremenda determinazione con cui sta soffocando la tempesta di sentimenti che altrimenti l’immensa novità di questo momento susciterebbe in lei, e soprattutto l’amore e la riconoscenza che non vuol permettersi di provare per Riquet. Una determinazione di cui Rosetta non è consapevole: le mette in fila una dopo l’altra con assoluta tranquillità, le parole che forse cambieranno la sua vita, e non ha la minima idea che, se non fosse per quel ragazzo, non avrebbe potuto neanche pensarle.

 

Con chi sta parlando, infatti, dal momento che è sola? Lì per lì, la risposta sembra ovvia: con sé stessa. Ma se ci pensiamo un po’ sù, non tardiamo ad accorgerci che non può essere così. Non tanto perché non si possa parlare con sé stessi ― si può e come ― quanto perché ci appare del tutto evidente che Rosetta sta invece parlando con qualcun altro, che questo qualcuno è Riquet, e che lei non se ne rende conto.

 

Chi, infatti, per la prima volta l’ha chiamata per nome? Chi le ha trovato lavoro? Chi le si è proposto come amico? Chi, facendo tutto ciò, ha reso normale la sua vita e le ha restituito la speranza? È quel ragazzo che dorme di là, a un paio di metri da lei, e che in cambio non le ha chiesto niente: Riquet. Solo che Rosetta non lo vuole ammettere, non vuol saperlo, e allora lo ricapitola tra sé e sé come se stesse parlando da sola, tutto quello che invece è stato Riquet a farle scoprire. Poiché, se gliene riconoscesse il merito, non potrebbe continuare a credere di non essere innamorata di lui. E dovrebbe riconoscere che quel ragazzo è un essere speciale, superiore a chiunque lei abbia incontrato in tutta la sua vita. E dovrebbe scoprire che l’orribile comandamento a cui ha uniformato l’intero suo rapporto con la realtà ― non fidarti mai di nessuno, poiché tutti sono e saranno sempre tuoi nemici ― a volte può anche rivelarsi fasullo.

 

Come biasimarla, del resto? Nessuno, dacché è al mondo, ha mai trattato Rosetta come un essere umano. Nessuno, dinanzi a lei, ha mai avuto neanche l’aria di sapere di trovarsi di fronte a un essere umano. Neppure la madre, che forse in un oscuro angolino della sua mente malata le vuole ancora un po’ di bene, ma che la tratta ormai soltanto come un oggetto odiosamente ingombrante, una cosa che a ogni istante le si para davanti a impedirle di finire di suicidarsi. Solo Rosetta tratta Rosetta come un essere umano, e solo per questo Rosetta non è ancora andata a finire male: e si difende con le unghie e coi denti ― con la rabbia e la disperazione in cui finisce quasi inevitabilmente per sprofondare chi non è difeso da alcun altro, e che quasi sempre lo conducono alla sconfitta ― e lotta come una furia contro i padroni per i quali è soltanto forza lavoro come un mulo o una macchina, contro gli adulti che in una ragazza non vedono che un oggetto sessuale, e soprattutto contro quella madre senza amore né dignità, che si è ormai rassegnata a essere niente e che per la figlia rappresenta il pericolo maggiore, poiché è la sua immagine che Rosetta ha sempre davanti agli occhi come unica immagine di donna adulta della sua vita che sia anche l’immagine di una donna amata. Ma Rosetta riesce a resistere anche a lei, e lotta, lotta, lotta, determinata e furibonda, poiché appunto è l’unica, Rosetta, che tratta Rosetta come un essere umano.

 

Ma essere l’unica è troppo poco, perché ciò che si può sapere degli esseri umani, se si è soli tra gente che non li conosce né li riconosce, è inevitabilmente quasi nulla. E infatti l’idea che Rosetta ha di sé è così povera, benché certamente umana, che non contiene nemmeno la possibilità, nemmeno il sospetto che qualcuno possa mai desiderarla e amarla o che lei possa mai desiderare e amare qualcuno.

 

Riquet la ama, invece, e perciò gli basta il minuscolo spazio di una sera per dirle mille volte di più, su di lei come essere umano, di quel che Rosetta sia mai riuscita a intuire da sé. Non perché lei sia stupida, lo ripeto, o perché abbia resistito poco, o male, ma perché da soli si può fare ben poco, per serbarsi umani e per lottare contro chi non lo ha fatto, se prima non si è stati a lungo e in profondità con molti altri.

 

Dunque è con Riquet che Rosetta sta parlando, anche se lei non lo sa, mentre pronuncia quelle parole. È Riquet che le sta dicendo: “Tu ti chiami Rosetta. Hai trovato lavoro. Hai trovato un amico. Hai una vita normale. Non finirai in un buco nero”. È lui che glielo insegna, ed è a lui che la ragazza risponde.

Solo che non lo sa e non vuol saperlo. Non sa e non vuol sapere che Riquet per lei è a tutt’oggi il solo essere umano al mondo e il solo che riconosca umana anche lei ― come se fossero l’uno per l’altra due nuovi Adamo ed Eva apparsi però in un angolo dell’Inferno capitalistico contemporaneo, anziché nel bel mezzo dell’originario Paradiso Terrestre ― e non lo sa e non vuol saperlo perché Rosetta è una ragazza in guerra, e lo è da troppo tempo, per non aver paura che il minimo cambiamento nel suo mondo interiore possa mitigare la collera e indebolire la violenza con cui spinge avanti sé stessa contro tutto e contro tutti come un piccolo carro armato: come potrebbe più difendersi se si intenerisse, come potrebbe rimanere sempre così ciecamente concentrata su ogni minimo aspetto del suo angusto e tuttavia sconfinato campo di battaglia se pensasse ad altro, come potrebbe restare in piedi e rispondere colpo su colpo, se nascesse in lei il desiderio di lasciarsi andare tra le braccia di qualcuno e ricambiare i suoi baci?

 

Per la “vecchia” Rosetta, Riquet è un pericolo, e la “nuova” è ancora troppo debole per farsi sentire. Perciò la ragazza decide di fargli perdere il posto, perciò ripaga con l’odio e la violenza il suo amore e i suoi doni: la rabbiosa disperazione suscitata in lei dall’improvviso licenziamento non c’entra, potrebbe andare a rubare il posto a qualcun altro, e invece lucidamente decide e mette in atto di rubarlo a Riquet: perché ce l’ha proprio con lui, perché è a lui che vuole male. Perché Riquet, facendola sentire umana, ha indebolito in lei la belva a cui Rosetta si aggrappa per resistere a chi non la vuole umana.

 

L’ultima immagine del film ci lascia sperare che alla fine “vinca” il ragazzo: uno come Riquet, che continua a vederla umana perfino mentre lei si scaglia su di lui come una belva, non lo si può sconfiggere tanto facilmente. E così ― mentre all’improvviso iniziano a scorrere i titoli di coda e siamo costretti a separarci da Rosetta e Riquet prima di quando avremmo voluto, ma con una ragionevole fiducia che riusciranno, ciascuno e insieme, a cavarsela ― quel che ci vien fatto di pensare è che c’è solo una domanda a cui questo film non risponde ― non per una sua carenza, ma perché è una domanda a cui ognuno deve rispondere da sé: come può considerarsi giusto ― un popolo, un gruppo, un individuo ― se riesce ad accettare che vi sia qualcuno ― tra il popolo, nel gruppo, accanto all’individuo ― che ha dimenticato come si chiama perché da troppo tempo, come se fosse una bestia selvatica, nessuno lo chiama per nome; qualcuno che non ha niente da fare per vivere né per sentirsi utile agli altri; qualcuno che non può essere amato perché è stato reso invisibile; qualcuno che non può più sentirsi davvero vivo? Come può considerarsi giusto ― un popolo, un gruppo, un individuo ― se riesce ad accettare che vi siano bambini e donne e uomini che in questo e in ogni altro momento stanno sprofondando in un buco nero?

 

I bambini e le donne e gli uomini come Rosetta, così “spariti” per la Società che li emargina da sparire  anche per sé stessi, sono forse la più tragica prova della potenza dell’immaginazione umana sulla realtà: potenza distruttrice e assassina, da un lato, dell’immaginazione malata e nazista di chi li rende inesistenti e riesce davvero a non vederli come se davvero non esistessero; ma anche, dall’altro, potenza creatrice di chi ― come Riquet che ama, come l’artista che vede quel che non si vede, come l’uomo e la donna e il bambino che lottano per sè e per loro ― nonostante tutto continua a vederli e a gridare i loro nomi.

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(Le schede di Spiegare un film a un bambino sono per bambini e ragazzi di Quinta elementare, Prima, Seconda e Terza media.

Sono scritte, perciò, il più semplicemente possibile. Ma non sono affatto... semplicistiche.

Vuoi servirtene? Fai pure. Ma non spezzettarle, non alterarle e non dimenticare di citarne l’autore!)

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