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Luciano Gallino

 

Il lavoro non è una merce

 

Contro la flessibilità

 

2007, Editori Laterza - Bari

 

 

 

Luciano Gallino, "Il lavoro non è una merce. Contro la flessibilità", Editori Laterza.

 

Chi diffonde il pensiero malato che tramuta l’Umano in merce?

Luciano Gallino, "Il lavoro non è una merce. Contro la flessibilità", Editori Laterza.

La copertina del libro.

Introduzione

di Luigi Scialanca

 

È lecito parlare di pensieri malati? E domandarsi, come se fossero malattie infettive, chi li diffonda?

 

Dubitarne, secondo noi, è impossibile. Pensiamo leggendo Il lavoro non è una merce, di Luciano Gallino ― a quanti danni, a quanta miseria, a quanta sofferenza e infelicità, a quante morti provochi nel mondo ogni giorno, ogni ora, ogni minuto, l’idea che ciò che è umano ― il lavoro, certo, ma non solo ― si possa considerare e trattare come una merce, come se fosse possibile separarlo dagli Esseri Umani, dalla loro storia, dalla loro vita, dal loro essere sempre qui, dinanzi a me e in rapporto con me, anche se lontani, anche se non li vedo, anche se non li conosco. Pensiamo davvero ai danni, alla miseria, alla sofferenza e infelicità, alle morti che la diffusione di questa idea arreca, e poi proviamo ancora a sostenere che essa ― un’idea che ferisce e uccide chi ne subisce le violente estrinsecazioni, e che tramuta chi la nutre in una grottesca, spaventosa, impossibile parodia del non umano entro un corpo umano ― non sia davvero una sorta di “virus” mentale, e che come un virus non debba essere contrastata e curata, contenendone la diffusione e se possibile estirpandola dalla faccia della Terra...

 

Scrive Luciano Gallino: “A rigore, la prima tappa in direzione della rimercificazione del lavoro non è stata una legge. Si tratta del protocollo d’intesa tra governo, sindacati e organizzazioni dei datori di lavoro sottoscritto dalle parti il 23 luglio 1993”. (...) “La seconda tappa in direzione d’una ri-mercificazione del lavoro è stata la legge 24 giugno 1997, n. 196, detta anche «pacchetto Treu», che ha dato piena attuazione alle indicazioni del protocollo del 1993”. (...) “Un salto netto verso la moltiplicazione dei lavori flessibili si è verificato [poi] con il decreto legislativo 6 settembre 2001 n. 368, che muovendo da una direttiva europea ha di fatto liberalizzato i contratti di lavoro a termine.” Tre date, tre esecutivi: 1992-1993, governi DC-PSI-PSDI-PLI presieduti da Giuliano Amato e da Carlo Azelio Ciampi mentre scoppia la tempesta di Tangentopoli; 1997, governo PDS-PPI-Dini-Udeur-Verdi, con l’appoggio esterno di Rifondazione comunista, presieduto da Romano Prodi; e solo poi, solo nel 2001, il secondo famigerato governo Berlusconi-Bossi-Fini-Casini destinato a restare in carica cinque anni.

 

Come un virus, l’idea che quel che è umano possa essere ridotto a merce si diffonde da mente a mente. Come un virus, già nei primi anni ’90 stava contagiando una parte della Sinistra italiana e la tramutava nella finta “sinistra” che è oggi: “In Italia,” scrive ancora Gallino, “tre quarti delle forze politiche del centrosinistra hanno una concezione meramente adattativa delle politiche del lavoro, che si distingue da quella del centrodestra solo perché orientata a una certa maggior disponibilità quando si tratta di curare gli effetti della flessibilità mediante «ammortizzatori sociali»”.

 

Non solo in Italia. I laburisti inglesi alla Tony Blair, i socialdemocratici tedeschi, i socialisti francesi, i democratici americani alla Bill Clinton: quanto e più della Destra, i tre quarti della “sinistra” occidentaledal 1989, o forse dal 1973 kissinger-pinochetista in poihanno aggredito i Diritti Umani dei Lavoratori, alterato la memoria storica, creato disuguaglianza, svenduto i Beni Pubblicisola difesa dei Cittadini dalle tirannie privateper aver dimenticato che cos’è l’Essere Umano.

 

Ma un’idea, non essendo un virus, può diffondersi solo se i “contagiati” non hanno difese mentali contro di essa. Solo se nelle loro menti allignano già costruzioni di pensiero, all’apparenza innocue, pronte a ospitarla e a fornirle terreno fertile. E solo se, d’altra parte, i “portatori” del “virus” volontariamente lo diffondono, e anziché “curarli” non gli si oppone alcun rifiuto e li si lascia senza risposte.

 

L’idea che il lavoro umano sia separabile dall’Essere Umano (e dunque commerciabile) non avrebbe mai avuto corso, e mai si sarebbe diffusa, se non avesse trovato ad attenderla nelle menti la costruzione di pensiero che separa l’Essere Umano da tutto sé stesso considerando “argilla”, “animale”, inessenziale e transeunte, in lui, ciò che non è anima divina. È il pensiero che ci avvezza a ritenere davvero fondante e davvero importante, in noi, solo quel ch’è “dentro” di noi ― così “dentro” che non lo si può percepire ― solo quel ch’è puro spirito, solo quel che in noi... non c’è, e noi stessi alla fin fine non significativi, non determinanti, sacrificabili: è il pensiero religioso che ci prepara ad accettare, a rassegnarci all’idea che perfino il nostro creare e sentire e pensare e fare possa essere staccato da noi e comprato e venduto così come si recidono e si commerciano i capelli delle Donne indiane, o i corpi delle povere Ragazze abbandonate davanti alle tv di tutto l’Occidente, o i reni e i fegati e i cuori dei Bambini dell’Est Europa. È il pensiero religioso il primo “focolaio” di svalutazione e disprezzo dell’Umanità.

 

Da esso la Sinistra italiana ha cessato di difendersi da ben tre generazioni: dal 1937, anno della morte di Antonio Gramsci. Il Concordato fascista è stato incluso nella Costituzione; i cosiddetti “beni ecclesiastici” rubati agli Italiani dall’associazione a delinquere Mussolini-Ratti (alias Pio XI) non sono mai stati recuperati; l’emancipazione dell’Umanità dalla religione ha cessato di essere una meta dell’azione culturale e politica dei partiti sedicenti “laici” (con l’unica eccezione, per certi versi ambigua, dei Radicali); sono state accettate in tali partiti persone religiose senza più ― quanto meno ― confrontarsi dialetticamente con esse in una prospettiva di lotta e di superamento della loro tendenza alla disistima e alla sottomissione dell’Umano; si è arrivati a sostenere che una religiosità benintesa possa cooperare e favorire la liberazione dall’oppressione e dallo sfruttamento. Per finire, ed è storia di oggi, col fondere il maggior partito della Sinistra (della fu Sinistra?) con i cascami di un partito confessionale, la Democrazia cristiana, che ha oppresso l’Italia per mezzo secolo, col subire da quegli stessi cascami qualsiasi ricatto sedicente “etico”, col vergognarsi perfino della parola socialismo dinanzi agli sguardi e alle parole insensatamente corrucciate di quanti non si vergognano d’esser gli eredi di chi bruciò vivo Giordano Bruno.

 

Nessuna ricostruzione della Sinistra sarà possibile, in Italia e nel mondo, finché le Donne e gli Uomini di Sinistra per primi ― e poi tutti gli altri ― non ritroveranno la stima e il rispetto di sé, dei propri rapporti reciproci, dell’immaginazione che rende gli animali umani i soli creatori (o distruttori) di sé stessi, della Società e del mondo. Nessun riscatto della creatività, del pensiero e del lavoro dal neoschiavismo teocratico-capitalista sarà possibile, in Italia e nel mondo, finché le Donne e gli Uomini di Sinistra per primi ― e poi tutti gli altri ― non avranno scoperto e realizzato un nuovo, moderno Umanesimo. Ma nessun Umanesimo sarà possibile, in Italia e nel mondo, finché le Donne e gli Uomini di Sinistra per primi ― e poi tutti gli altri ― non troveranno il coraggio, la libertà, la fantasia, l’intelligenza di relegare tutti gli Dei nel grande album storico delle creazioni (e distruzioni) dell’Umanità.

Nell’oceano del lavoro la tempesta deriva dall’aver messo in competizione tra loro, deliberatamente, il mezzo miliardo di lavoratori del mondo che hanno goduto per alcuni decenni di buoni salari e condizioni di lavoro, con un miliardo e mezzo di nuovi salariati che lavorano in condizioni orrende con salari miserandi. La richiesta di accrescere i lavori flessibili è un aspetto di tale competizione. Il problema smisurato che la politica nazionale e internazionale dovrebbe affrontare sta nel far sì che l’incontro che prima o poi avverrà tra queste due parti della popolazione mondiale avvenga verso l’alto della scala dei salari e dei diritti piuttosto che verso il basso; che è l’esito verso cui finirebbe per condurci lo smantellamento delle protezioni legali dell’occupazioneuno dei tanti sinonimi della flessibilità.

 

(dalla Prefazione)

 

 

 

In totale, pertanto, l’occupazione flessibile regolare e irregolare coinvolgerebbe in Italia tra 7 milioni e 8 milioni di persone fisiche, più 3 milioni di doppiolavoristi non dichiarati, corrispondenti a 1 milione di unità lavorative a tempo pieno. Ne segue che le persone fisicamente coinvolte in varia misura nell’occupazione flessibile ammonterebbero, nell’insieme, a 10-11 milioni.

Sembra dunque di essere in presenza d’una condizione sociale più pesante e diffusa di quanto non dicano ogni giorno gli articoli rassicuranti sulla modesta consistenza e stabilità nel tempo del lavoro flessibile, oppure i sagaci commenti sulla “precarietà percepita” come stato d’animo in fondo immotivato, in quanto non corrispondente alla realtà. Dire che la politica dell’ultimo decennio ha drammaticamente sottovalutato tale condizione significa tenersi molto al di sotto delle righe.

 

(cap. 1: Le molte facce ― e i tanti numeri ― della flessibilità, p. 25)

 

 

 

Pertanto, uno degli scopi essenziali della riorganizzazione produttiva etichettata “globalizzazione” è stato, e continua a essere, quello di sottrarre un tratto il più lungo possibile del processo produttivo alle condizioni di lavoro predominanti nei paesi industriali avanzati; condizioni caratterizzate da salari elevati, contratti di durata indeterminata, vincoli legislativi al licenziamento e forti tutele sindacali. Il rovescio di tali condizioni è stato trovato in Cina, India, Indonesia, in altri paesi del SudEst asiatico, ma anche nei maggiori paesi dell’ex Urss, Russia e Ucraina. In pochi lustri circa 1 miliardo e mezzo di lavoratori “globali” sono stati quindi deliberatamente posti in competizione con i lavoratori dei paesi più avanzati. La pressione sui salari che si avverte in Italia come in altri paesi, e la domanda di flessibilità dell’occupazione da parte delle imprese, stanno a significare che se non si accettano salari più bassi, e contratti che facilitano l’uscita dei lavoratori dalle imprese, il lavoro non importa se in forma materiale o digitale viene trasferito in altri paesi, dove una smisurata quantità di forza lavoro è disponibile a condizioni di gran lunga peggiori.

 

(cap. 2: Alle origini della richiesta di lavoro flessibile da parte delle imprese, p. 38)

 

 

 

Queste considerazioni, mentre non fanno che confermare i dubbi del citato rapporto Ocse 2004 circa il nesso flessibilità-occupazione, in realtà aggiungono al tema, evidentemente senza volerlo, una connotazione peggiorativa: i contratti a termine, che sappiamo essere per lo più brevi, hanno un effetto negativo sulla produttività. Motivo? E semplice, potrebbe rispondere un qualsiasi esperto di organizzazione aziendale. Sul piano individuale, il lavoratore il quale deve pensare soprattutto a come trovare un nuovo contratto prima che scada quello in vigore è scarsamente motivato sul lavoro; non dispone di tempo per la formazione, né l’impresa ha alcun incentivo a fornirgliela; infine, lascia l’impresa prima di avere cumulato le esperienze da cui dipende in alto grado la produttività del lavoro. Sul piano organizzativo, la presenza nella stessa unità produttiva di lavoratori che ruotano di continuo, fra contratti che finiscono e contratti che cominciano, e dipendenti di aziende terze che ruotano quasi ogni giorno, limita lo sviluppo dello scambio di conoscenze, codici verbali e non verbali, sinergie tra competenze diverse, che sono un altro elemento essenziale della produttività.

 

(cap. 3: I dubbi rapporti tra flessibilità e occupazione, p. 55)

 

 

 

È questa, in essenza, la funzione della cosiddetta deregolazione per via legislativa del mercato del lavoro; ossia, in altre parole, dello smantellamento della legislazione protettrice dell’occupazione, o Epl, di cui si è già parlato nel terzo capitolo. Deregolare significa far girare all’indietro l’orologio della storia del lavoro, in modo da ritornare ai tempi in cui questo veniva venduto dall’individuo all’impresa come una qualsiasi altra merce, con i soli obblighi per i contraenti che derivano da un contratto commerciale: la merce che va dall’individuo all’impresa deve essere della quantità e natura pattuita ed essere fornita nei tempi prestabiliti. L’analogo vale per il denaro che va dall’impresa all’individuo a titolo di retribuzione.

In Italia e in altri paesi a far girare al contrario l’orologio della storia del lavoro ha provveduto, sotto l’impulso della politica, che ha accolto con diligenza le esigenze dell’economia, il nuovo corso imboccato dalla legislazione sul lavoro sin dagli anni Novanta del secolo passato. Da allora in poi essa pare essersi posta come criterio guida quello di smontare il principio insito nella temibile affermazione per cui il lavoro non è una merce. Così recitava il primo comma della Dichiarazione di Filadelfia del 1944, “concernente le finalità e il proposito della Organizzazione internazionale del lavoro”. Organizzazione trilaterale, si noti, posto che nei suoi organi direttivi erano e sono rappresentati governi, sindacati e imprese. In quelle sei parole era condensato il principio per cui non può essere considerato una merce, il lavoro, in quanto è un elemento integrale e integrante del soggetto che lo presta, dell’identità della persona, dell’immagine di sé, del senso di autostima, della posizione nella comunità, della sua vita familiare presente e futura.

(cap. 4: Il ruolo della legislazione sul lavoro, pp 58 – 59)

A rigore, la prima tappa in direzione della rimercificazione del lavoro non è stata una legge. Si tratta del protocollo d’intesa tra governo, sindacati e organizzazioni dei datori di lavoro sottoscritto dalle parti il 23 luglio 1993, che merita di essere qui richiamato perché ha aperto la porta, e indicato con precisione la strada, alle successive leggi e decreti indirizzati ad accrescere la flessibilità dei rapporti di lavoro. Il protocollo, alla sezione Politiche del lavoro, impegnava il governo a predisporre “un organico disegno di legge per modificare il quadro normativo in materia di gestione del mercato del lavoro, al fine di [...] valorizzare le opportunità occupazionali che il mercato del lavoro può offrire se dotato d’una più ricca strumentazione che lo avvicini agli assetti in atto negli altri paesi europei”. La sottosezione dedicata alla Riattivazione del mercato del lavoro prevedeva che le parti sociali avrebbero potuto “contrattare appositi pacchetti di misure di politica attiva, di flessibilità e di formazione professionale” (comma a). Assicurava che si sarebbe proceduto “ad una modernizzazione della normativa vigente in materia di regimi di orario” (comma c). Sosteneva che “per rendere più efficiente il mercato del lavoro va disciplinato anche nel nostro Paese il lavoro interinale” (comma d). Stabiliva che “forme particolari di tempo determinato [...] possono essere previste in funzione della promozione della ricollocazione e riqualificazione dei lavoratori in mobilità” (comma e).

Pochi mesi dopo, l’idea alla base del protocollo che mediante le misure in tema di flessibilità del lavoro da esso previste si possa produrre occupazione sarebbe stata definita “palesemente obsoleta” in un articolo di Massimo D’Antona [...]. Ma qui preme richiamarla per un altro motivo: di fatto l’apertura concessa ai pacchetti di flessibilità, al lavoro interinale (ovvero in affitto), alla modulazione degli orari al fine di modernizzarli, recava con sé nello sfondo, quali che fossero le intenzioni e il grado di consapevolezza dei contraenti, sindacati inclusi, la concezione che il lavoro è un oggetto diverso e indipendente dalla persona del lavoratore. In quanto tale, è passibile di cessioni e vendite che lo separano senza alcuna difficoltà dal suo proprietario, al pari d’un qualsiasi altro oggetto commerciabile.

La seconda tappa in direzione d’una ri-mercificazione del lavoro è stata la legge 24 giugno 1997, n. 196, che avrebbe dato piena attuazione alle indicazioni del protocollo del 1993. Detta anche “pacchetto Treu” perché comprendeva provvedimenti di vario genere in ordine al mercato del lavoro, era intitolata Norme in materia di promozione dell’occupazione; titolo da annotare, poiché da esso traspariva di nuovo la convinzione del legislatore che una maggior flessibilità dei contratti di lavoro favorisca l’aumento del numero degli occupati. La maggior novità della legge 196 è stata l’istituzione del contratto di fornitura di prestazioni di lavoro temporaneo (art. 1)leggasi lavoro interinale, cioè in affitto. In forza di tale articolo, che ha inferto un primo grave vulnus alla legge 23 ottobre 1960, n. 1369, vietante l’intermediazione, cioè l’interposizione di terzi, nel rapporto tra il lavoratore e l’impresa, i lavoratori, come si è appena notato, vengono assunti da un’impresa, denominata “fornitrice”, però lavorano presso un’altra, detta “utilizzatrice”.

 

(cap. 4: Il ruolo della legislazione sul lavoro, pp 63 – 65)

 

 

 

Pur con le suddette connotazioni negative, rimaneva però un vantaggio nei contratti sortiti dal pacchetto di provvedimenti del 1997: la maggior flessibilità del lavoro che veniva introdotta era pur sempre inserita nei contratti nazionali di categoria. I lavori flessibili venivano considerati come eccezione rispetto all’orario a tempo pieno e all’impiego di durata indeterminata che costituivano la norma per la categoria. Inoltre, erano soggetti ai cosiddetti limiti di contenimento: in altre parole, un’impresa poteva usare il lavoro temporaneo o il lavoro a tempo parziale (regolato anch’esso dall’art. 13) entro una quota limite che poteva andare dal 5 al 10 per cento o poco più del totale dei dipendenti, a seconda della localizzazione dell’azienda (con il Mezzogiorno si era un po’ più elastici), del periodo dell’anno e delle esigenze produttive. Vi era dunque un limite quantitativo, previsto dai contratti, alla possibilità di impiegare lavori flessibili.

Un salto netto verso la moltiplicazione dei lavori flessibili si è verificato con il decreto legislativo 6 settembre 2001 n. 368, che muovendo da una direttiva europea ha di fatto liberalizzato i contratti di lavoro a termine. Pilastro di questo decreto è l’art. 1, che stabilisce: “È consentita l’apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro subordinato a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo”. Qualunque imprenditore o dirigente d’azienda che non sia del tutto incapace è in grado, in qualunque circostanza, e quale che sia la situazione dell’impresa, di esibire una miriade di ragioni di tal genere. Ma l’aspetto peggiore non è qui il contratto che si stipula con una data di scadenza predefìnita; è piuttosto la ripetibilità senza fine, a carico della stessa persona, dei contratti a termine, a condizione che il datore di lavoro badi, come prevede il decreto, a far trascorrere almeno venti giorni tra la fine del precedente e la stipula del susseguente. Con il contributo di tale decreto, i dipendenti assunti con un contratto a termine sono saliti in un decennio di circa 600.000 unità, da 1,5 milioni nel 1996 a 2,1 milioni a inizio 2007. In particolare, i diversi tipi di contratto di dipendente a termine (li abbiamo visti supra, al cap. 1), insieme con i contratti da parasubordinati che recano infallibilmente una data di scadenza come le collaborazioni continuative e il lavoro a progetto, sono diventati il tipo di contratto offerto in oltre la metà dei casiche in numerose regioni diventano due terzi ― ai giovani in cerca di prima occupazione.

 

(cap. 4: Il ruolo della legislazione sul lavoro, pp 68 – 69)

 

 

 

I lavori flessibili comportano rilevanti costi personali e sociali, a carico dell’individuo, della famiglia, della comunità. Ciò avviene perché tali lavori non sono soltanto un modo diverso di lavorare, coerente con le esigenze della nuova economia. Sono un modo di lavorare che rispetto al lavoro “normale”che indubbiamente aveva e ha i suoi costi per le personeimpone oneri di natura insolita, in gran parte ancora inesplorati. Simili costi non si possono sottacere, o dar per scontato che non esistano, adducendo a motivo che un numero crescente di persone, in specie giovani, sembra ormai accettare senza drammi di svolgerli, o anzi dichiara di gradirli. Anzitutto ci sono tanti altri, giovani e non giovani, per i quali i contratti a termine, le collaborazioni dette continuative ma in realtà discontinue, il lavoro intermittente, a chiamata, on the road o semplicemente occasionale, oppure in neroabbiamo visto quanti siano i nomi della flessibilitàsono percepiti, alla lunga, come una ferita dell’esistenza, una fonte immeritata di ansia, una diminuzione di diritti di cittadinanza che si solevano dare per scontati.

In secondo luogo, il lavoro che si fa oggi è capace di presentare i conti anche tra dieci o vent’anni: quando la giovinezza sarà passata, e le lacune di formazione, i progetti di vita rinviati e mai realizzati, le esperienze professionali frammentarie che caratterizzano i lavori flessibili protratti per lungo tempo comporranno un curriculum dinanzi al quale un responsabile dopo l’altro delle “risorse umane” (espressione ingrata da applicare a persone, giacché le definisce come mezzi) scuoterà mestamente il capo.

Il maggior costo umano dei lavori flessibili è riassumibile nell’idea di precarietà. Essa prende forma e sostanza, per una persona, attraverso l’inserimento in una lunga sequenza di contratti lavorativi di durata determinatamediamente di pochi mesisenza alcuna certezza di riuscire a stipulare un nuovo contratto prima della fine di quello in corso o subito dopo; oppure di ottenere, scontando un’attesa magari lunga e però misurabile, un contratto di lavoro di durata indeterminata. Il termine “precarietà” non connota dunque la natura del singolo contratto atipico, bensì la condizione sociale e umana che deriva da una sequenza di essi nonché la probabilità, progressivamente più elevata a mano a mano che la sequenza si allunga, di non arrivare mai a uscirne. Nessun settore dell’economia e del mercato del lavoro sfugge a tale regola. La precarietà oggi è dappertutto, scriveva già tempo addietro, lungimirante, Pierre Bourdieu.

Di conseguenza, precarietà implica primariamente insicurezza oggettiva e soggettiva. Insicurezza che muovendo dalle condizioni di lavoro diventa insicurezza delle condizioni di vita, generata dal fatto che il lavoro, e con esso il reddito, è revocabile a discrezione del soggettol’impresa, il datore di lavoroche lo ha concesso. L’etimo di “precario” è precisamente questo: qualcosa che si può fare solamente in base a un’autorizzazione revocabile, poiché è stato ottenuto non già per diritto, bensì tramite una preghiera. Per quanto attiene al mondo della vita dei lavoratori, una simile situazione della persona che cerca un’occupazione, o vorrebbe mantenerla, pareva definitivamente superata dalla modernizzazione; il lavoro precario ha provveduto a riportare indietro di generazioni le condizioni di quel mondo.

Al proposito qualcuno ha giustamente scritto che con la diffusione dei contratti precarizzanti, a danno dei contratti di lavoro di durata indeterminata fino a qualche tempo fa considerati normali, è stata la stessa normalità del lavoro e della vita a venire revocata. Una condizione che col tempo finisce per investire e modificare anche la mente, il foro interiore. Coloro che trascorrono nella precarietà lunghi periodi finiscono con il percepire se stessi in modo diverso dagli altri. Sviluppano nuovi atteggiamenti e linguaggi. Magari si difendono dalla disperazione con l’ironia, rivolta al mondo delle imprese che trasferiscono i propri rischi economici ai lavoratori offrendo lavori precari, ma anche a loro stessi. Un aspetto che non si trova nelle ricerche, ma è testimoniato dalla crescente letteratura sulla precarietà.

La precarietà oggettiva, soggettivamente esperita, presenta vari aspetti. Il primo va visto nella limitata o nulla possibilità di formulare previsioni e progetti sia di lunga sia di breve portata riguardo al futuroquello professionale, ma spesso anche quello esistenziale e familiare. Per chiunque abbia un’occupazione flessibile, simile limitazione della possibilità di progettarsi l’esistenza può arrivare per due vie: a) quando il soggetto sa che la sua occupazione è a termine, in forza di dispositivi contrattuali o d’una pendente liceità dell’impresa a deciderlo, non importa che codesta occupazione sia lunga alcuni giorni o qualche anno; b) quando il lavoro è esposto a variazioni temporali contingenti, ossia imprevedibili per il soggetto. Capita inoltre, in casi non infrequenti, che le due vie arrivino a combinarsi, di modo che la possibilità di costruirsi e perseguire progetti di vita viene pressoché vanificata.

Un aspetto della precarietà collegabile al precedente, al pari di esso derivante dall’eccessiva esposizione a lavori flessibili, eppur diverso, è il senso che la propria vita, il proprio destino, il futuro subiscono quotidianamente l’impatto di fattori puramente contingenti. Procedono in una certa direzione, ma questa può mutare all’improvviso per cause che non dipendono in alcuna misura dal modo in cui il soggetto agisce. Sembrano dipendere dall’istante e dal luogo, ambedue casuali, in cui capita di varcare una certa porta, come nel film Sliding Doors (Porte scorrevoli), o dall’impresa dove al momento capita di avere un posto di lavoro in Emilia o in Basilicata, le maestranze della quale vengono improvvisamente a sapere che chiuderà entro pochi mesi o sarà delocalizzata in Transilvania. E al fine di riprendere il controllo delle direzioni in cui sembra girovagare la propria vita non serve affidarsi ad altri. Sotto questo aspetto la precarietà delle vite flessibili è un efficace alimento dell’antipolitica, dell’astensionismo elettorale, della resa all’esistente che si compendia in battute della serie “sono tutti uguali” o “la tal cosa non è né di destra né di sinistra”. Che in tali battute indulgano anche amministratori pubblici, e perfino politici di professione, attesta soltanto in qual misura essi hanno interiorizzato la precarietà della vita dei loro amministrati ed elettori.

Un altro aspetto ancora della precarietà va visto nel fatto che, al di fuori delle professioni comportanti qualifiche molto elevate, che sono sempre spendibili agevolmente sul mercato del lavoro, la maggior parte dei lavori flessibili non consente di accumulare alcuna significativa esperienza professionale, trasferibile con successo da un datore di lavoro all’altro. Detto altrimenti, essi non permettono all’individuo né di costruirsi una carriera, né un’identità lavorativa. Ma quest’ultima non è un elemento supplementare o accessorio dell’identità personale e sociale: è il suo fondamento stesso. Dell’essere umano è costitutivo il bisogno di poter dare una risposta definita sia alla domanda interiore “chi sono?”, sia alla domanda pubblica “chi sei?”. Dalla risposta alla domanda interiore dipende l’idea che un soggetto ha di se stesso, l’atteggiamento che reca verso il proprio sé. Dalla risposta alla domanda pubblica dipende l’idea e l’atteggiamento che gli altri, quasi tutti coloro con cui viene in contatto, avranno verso di lei o verso di lui. Nel complicato percorso tra l’adolescenza e l’età adulta, tra la giovinezza e la maturità, per la maggior parte delle persone lo strumento più efficace per costruirsi una risposta ai due quesiti rimane il lavoro che si fa, o meglio che per lungo tempo si è fatto. Non arrivare a costruirla perché si sono fatti troppi lavori differenti, discontinui, cento volte interrotti in un luogo e ripresi altrove, è per molti una sofferenza, un costo umano in nessun modo computabile, e nondimeno greve a portare.

Alla base dei vari aspetti della precarietà testé richiamati v’è un processo ben determinato: la moltiplicazione dei lavori flessibili tende a erodere la maggior parte delle forme di sicurezza che l’Organizzazione internazionale del Lavoro ha proposto tempo addietro per definire il cosiddetto “lavoro decente” o “dignitoso”. Nel 1999 si svolse a Ginevra l’assemblea annuale dell’Organizzazione e il rapporto del direttore generale s’intitolava appunto Pour un travail décent. In questo rapporto venivano delineate sette forme base di sicurezza economica e sociale che dovrebbero venire assicurate a tutti i lavoratori. Mi limiterò a ricordarne alcune, con qualche adattamento e un’aggiunta rispetto al testo originale.

Sicurezza dell’occupazione, che significa non solo protezione contro i licenziamenti abusivi, ovvero senza causa, ma anche stabilità dell’occupazione compatibile con un’economia dinamica.

Sicurezza professionale, che implica la possibilità di valorizzare la propria professione accrescendo via via le competenze tramite il lavoro e formandosi una riconoscibile e stabile identità professionale.

Sicurezza sui luoghi di lavoro, che comprende la protezione contro gli incidenti e le malattie professionali grazie a un’adeguata regolazione in tema di salute e sicurezza, che preveda anche limiti agli orari e agli straordinari, nonché la riduzione dello stress sul lavoro.

Sicurezza del reddito, ovvero creazione e mantenimento d’un reddito adeguato, in grado di assicurare al lavoratore e ai suoi familiari la copertura dei “costi dell’uomo” a fronte d’un dato livello di sviluppo sociale.

Sicurezza di rappresentanza, che rinvia alla garanzia offerta dalla possibilità di espressione collettiva sul mercato del lavoro grazie a organizzazioni sindacali libere e indipendenti, nonché ad altri organismi capaci di rappresentare gli interessi dei lavoratori.

Sicurezza previdenziale, ovvero possibilità di assicurarsi attraverso il lavoro un reddito che permetta di mantenere, dopo l’uscita dal lavoro, un livello di vita comparabile a quello precedente. Questa forma di sicurezza non compare nell’elenco originale dell’Organizzazione internazionale del lavoro.

La moltiplicazione dei lavori flessibili erode una parte notevole delle citate sicurezze. Riduce, per definizione, quella relativa alla stabilità dell’occupazione, mentre la formazione e la valorizzazione della professionalità e dell’identità lavorativa, come si è già notato, sono rese difficili dalla varietà di ambienti lavorativi, esperienze tecniche, modelli di organizzazione del lavoro cui è esposto il lavoratore flessibile.

La sicurezza nei luoghi di lavoro ― che in questo caso si riferisce alla sicurezza fisica, alla saluteè compromessa dai lavori flessibili, in specie quelli implicanti contratti di breve durata, perché le imprese non hanno alcun incentivo a investire nella formazione alla sicurezza di lavoratori che nel volgere di poche settimane o mesi non saranno più alle loro dipendenze. Quanto ai lavoratori, essi non hanno né il tempo per apprendere i codici della sicurezza nell’impresa dove saranno occupati per breve tempo né la motivazione a farlo. Un altro aspetto è stato ripetutamente richiamato da ricerche svolte in diversi paesi. Chi lavora con un contratto atipico inclina a ridurre le attenzioni per la propria salute. Pospone, ad esempio, l’opportunità di sottoporsi a una visita medica alla necessità di essere presente sul posto di lavoro, sperando così di accrescere, o almeno non diminuire, la probabilità di vedersi rinnovato il contratto che sta per scadere. Sottovalutare il proprio stato di stress, o trascurare una visita per recarsi al lavoro, o recarsi al lavoro sebbene indisposti, incide alla lunga sullo stato di salute.

Il lavoro flessibile intacca fortemente la sicurezza e il livello di reddito. Per quanto riguarda le due categorie più ampie di lavoratori atipici, i dipendenti a tempo determinato e i collaboratori coordinati o a progetto, che sono formalmente degli autonomi, le ricerche confermano che essi hanno un reddito netto annuo notevolmente inferiore sia a quello dei dipendenti con un contratto standard, sia a quello dei veri autonomi. Una vasta rilevazione condotta nel 2005 indica che i dipendenti a tempo determinato guadagnano in media solo l’80 per cento della retribuzione netta di quelli a tempo indeterminato; la percentuale scende al 66 per cento per i collaboratori. Ne risulta la seguente scala: 15.324 euro netti all’anno (1.279 al mese) per i dipendenti a tempo indeterminato; 12.438 euro all’anno (1.037 al mese) per i dipendenti a termine; 10.191 euro (849 al mese) per i collaboratori. Al confronto dei “veri” autonomi, questi ultimi stanno anche peggio: infatti il loro reddito netto tocca appena il 43 per cento dei primi.

La causa principale di simili dislivelli è evidente. I suddetti contratti atipici comportano in molti casi, talora per anni di seguito, non i normali 12 mesi di lavoro, o meglio 11 mesi di lavoro più uno di ferie retribuite, più la tredicesima, arrecanti al lavoratore 13 mensilità effettive di retribuzione. Possono voler dire piuttosto 89 mesi di lavoro, quindi non più di tanti di retribuzione piena. Questo accade ovviamente quando chi appartiene a tali categorie vede scadere un contratto a termine, non importa se da dipendente o da collaboratore, e non ne trova un altro se non dopo settimane o mesi. Ma succede anche, con peggiori effetti, per altre categorie di atipici; ad esempio quando uno è assunto a tempo indeterminato da un’impresa utilizzatrice, perché alla retribuzione piena egli avrà diritto soltanto quando si è chiamati da un utilizzatore. Va ricordato infatti che nel decreto attuativo della legge 30/2003 è previsto che le imprese di somministrazione corrispondano il salario intero e i relativi contributi di legge dovuti quando il lavoratore trova effettiva occupazione presso un utilizzatore, mentre nel periodo tra un’occupazione e l’altra al lavoratore spetta solamente un’indennità di disponibilità, divisibile, si noti, in quote orarie, sì da renderla proporzionale ai tempi di constatata inattività. Nei decreti del ministero del Lavoro essa è stata indicata, a partire dal 2003, in 350 euro mensili per il lavoro in somministrazione, con incrementi minimi di anno in anno. Nel caso del lavoro intermittente l’indennità scende al 20 per cento del salario medio (corrispondente a circa 250 euro) dei dipendenti dell’utilizzatore. In tutti questi casi i contributi sono corrisposti in proporzione ai periodi effettivamente lavorati.

Fatto riguardo a sua volta alla sicurezza della rappresentanza sindacale, a diminuirla drasticamente provvedono, in mutevoli combinazioni, vari fattori connessi alla flessibilità del lavoro: la mobilità dei lavoratori flessibili da un posto all’altro; la separazione del lavoratore dall’impresa in cui presta la sua attività, che è insita nel lavoro in affitto o in somministrazione; l’individualizzazione dei rapporti di lavoro promossa dalle riforme del mercato del lavoro; i trasferimenti di rami d’azienda da una regione all’altra oppure all’estero.

In parallelo alla riduzione delle sicurezze attinenti all’occupazione, al reddito e all’ammontare dei relativi contributi, si riduce inevitabilmente anche la sicurezza previdenziale. Secondo calcoli recenti, chi ha cominciato a lavorare con contratti di collaborazione coordinata e continuativa fin dal momento della moltiplicazione di questi, verso la metà degli anni Novanta, quando avrà raggiunto i 60 anni e al tempo stessocaso assai improbabilele 35 annualità contributive piene, potrà contare al massimo su pensioni corrispondenti al 37 per cento della sua retribuzione, che come s’è visto sopra è in media assai più bassa di quella dei lavoratori dipendenti. Per farsi un’idea realistica della pensione cui vanno incontro questi soggetti basta moltiplicare 849 (il reddito mensile medio rilevato di questi soggetti) per 0,37: fa 314 (euro).

L’elenco delle sicurezze relative a occupazione, reddito, rappresentanza sindacale e altro elaborato dall’Organizzazione internazionale del lavoro non rappresenta semplicemente una sorta di carta dei diritti morali dei lavoratori. La stessa Organizzazione, attraverso un suo programma specifico, ha avviato infatti delle ricerche in numerose imprese dell’Unione Europea e di altri paesi. A tale fine le suddette sicurezze sono state “operazionalizzate”, ossia trasformate in parametri misurabili, che si possono applicare sia a livello di impresa, sia a livello nazionale. Si comincia pertanto a disporre di basi di dati globali sulle varie forme di sicurezza che distinguono, in misura variabile, il lavoro decente da quello che non può dirsi tale.

Anche gli effetti di tipo psicologico o psicosociale della flessibilità sono da tempo oggetto di studi mirati. La precarietà del lavoro tende, alla lunga, a venire interiorizzata dalle persone, non solo nel senso generale sopra richiamato, ma anche sotto uno specifico profilo clinico, suscettibile di differire da un soggetto all’altro. Può favorire in determinati casi lo sviluppo di processi che incidono negativamente sulla struttura della personalità e quindi del comportamento. Laddove l’incertezza diventa una norma, essa può avere tra i suoi effetti anche la fragilizzazione dei “puntelli” che la persona ha bisogno di trovare in famiglia e nella collettività. Psicologi e sociologi francesi hanno prodotto studi inquietanti su ciò che avviene a individui, famiglie e anche ragazzi e giovanissimi in presenza d’una marcata e prolungata insicurezza.

A tale proposito si comincia a parlare di “figli della precarietà”, i quali peraltro potrebbero anche esser chiamati “figli della globalizzazione”. Sono i giovanissimi che crescono entro famiglie dove ambedue i genitori sperimentano da lungo tempo un’insicurezza lavorativa pronunciata, non necessariamente correlata a un reddito basso, ma con l’assillo continuo di trovare un altro lavoro allorché quello in corso terminerà. Questi giovani manifestano disturbi della personalità rilevanti, relativi a una formazione incompleta o inadeguata della stessa, da cui tendenze comportamentali che oscillano tra la resa e la rivolta senza scopo, tra il rinchiudersi in se stessi e il ricorso alla violenza. I giovani che scelgono la prima soluzione sono socialmente poco visibili, se non forse alle assistenti sociali, agli operatori di comunità, alle organizzazioni caritative. Quelli che scelgono la seconda contribuiscono invece visibilmente alla cronaca nella scuola, negli stadi, nelle periferie, in Italia come in Francia o in Germania.

 

(cap 5: Dalla flessibilità del lavoro alla precarietà della vita, pp 75 – 85)

 

 

 

Infine, v’è la questione delle cosiddette società intermedie. L’integrazione dell’individuo nella società non può avvenire, se non parzialmente, in modo diretto. All’integrazione totale e diretta degli individui con i vertici del potere puntano solamente le società autoritarie. In una società democratica matura occorre invece che l’individuo sia primariamente integrato nella famiglia, nella comunità locale, in vari generi di associazione; dopodiché sarà un’adeguata integrazione di queste nello spazio pubblico ad assicurare all’individuo i benefici dell’ordine sociale, come pure a tutelarlo dalle sue deviazioni. La società flessibile, di là dal velo ideologico che vorrebbe ritrarne le veritiere fattezze nel mentre di fatto le maschera, non sembra particolarmente amica di nessuna di queste società intermedie. Non lo è di fatto, perché la variabilità degli orari e dei luoghi di lavoro, di istruzione, di tempo libero dei diversi componenti della famiglia e della comunità locale porta inevitabilmente a erodere il legame sociale tra di essi. Non lo è nemmeno dal punto di vista teorico, perché essa codifica e legittima le delocalizzazioni dell’impresa come della famiglia, il lavoro senza luogo, l’abolizione del radicamento territoriale di ogni attività sociale.

Quanto alle associazioni, il progetto di società flessibilequale in concreto ci viene presentato dal discorso politico-economico dominantetrae in concreto giovamento dalla crisi della più antica di esse, la Chiesa, nel mentre teorizza e persegue l’indebolimento, se non anzi l’annullamento, della principale tra quelle che rimangono, il sindacato. Per il modello della società flessibile, il sindacato è l’epitome di tutti i suoi contrari: la rigidità burocratica; la difesa dei diritti acquisiti per ascrizione e non per merito; una delle maggiori barriere che si oppongono all’innovazione permanente di tutte le modalità dell’agire sociale. Esso deve essere oggetto sia d’un reciso contrasto ideologico, siacome sta avvenendo in Italiadi provvedimenti legislativi mirati a rimuovere quest’ultimo ostacolo a che l’individuo sia inserito direttamente, senza mediazioni, nella rete delle reti. Affinché esso divenga, con le parole di Niklas Luhmann, unicamente un nodo passivo dei flussi di comunicazione, inconsapevole del senso reale dei messaggi che esso riceve e ritrasmette, ad essi totalmente alieno.

La dialettica reale tra lavoro flessibile e società flessibile, quale emerge dalle ricerche sul campo, non pare dunque condurre nessuno dei due elementi verso esiti particolarmente promettenti per la qualità della vita e dell’organizzazione sociale. L’uno e l’altra incorporano sicuramente elementi del progetto modernoun progetto largamente incompiutoai quali non vorremmo rinunciare. Nondimeno, gli elementi che in essi appaiono predominare al presente, esaltati negli ultimi decenni tanto dall’ideologia e dall’economia neoliberali quanto dalla pratica politica delle socialdemocrazie, ci sembrano comportare un prezzo troppo elevato per poter accogliere insieme questi e quelli. Chi scrive pensa che dinanzi a tale situazione ambivalente si debba essere, al tempo stesso, discriminanti quanto esigenti. Dobbiamo saper distinguere i costi umani della flessibilità del lavoro e della società flessibile dai loro eventuali benefici, quanto esigere che i primi non vengano, come si suole, ignorati o sottovalutati in nome dei secondi.

Un compito arduo che tuttavia, se non vogliamo arrenderci al credo interessato per cui la realtà del mondo globalizzato persegue comunque, ad onta dei nostri sforzi, un suo indefettibile cammino, occorre affrontare combinando la tenacia del ricercatore con la passione che ogni cittadino dovrebbe portare alla difesa d’un bene comune essenziale. Un bene qual è una società in cui la molteplicità degli interessi, delle culture, delle condizioni di lavoro e di esistenza trova una composizione armonica in forza di alcuni ideali irriducibili di giustizia sociale, di uguaglianza, di diritti delle persone. Un insieme di elementi costati all’Europa troppe fatiche, e troppe sofferenze, per pensare che si possano o si debbano agevolmente alienare in nome di nuove forme di funzionamento del sistema economico, pur nel riconoscimento che queste richiedono appropriate riforme dell’organizzazione sociale.

 

(cap 8: Società flessibile e integrazione sociale, pp 115 – 117)

 

 

 

Ma in Italia tre quarti delle forze politiche del centrosinistra hanno una concezione meramente adattativa delle politiche del lavoro, che si distingue da quella del centrodestra solo perché orientata a una certa maggior disponibilità quando si tratta di curare gli effetti della flessibilità mediante “ammortizzatori sociali”.

 

(cap. 10: Contro la precarietà, una politica del lavoro globale, p. 162)

 

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Luciano Gallino

Luciano Gallino

 

Luciano Gallino è professore emerito di Sociologia all’Università di Torino. Ha pubblicato, tra l’altro, Se tre milioni vi sembran pochi (Torino, 1998); L’impresa responsabile. Un’intervista su Adriano Olivetti (a cura di P. Ceri, Torino, 2001); La scomparsa dell’Italia industriale (Torino, 2003); Dizionario di Sociologia (Torino, 20043); L’impresa irresponsabile (Torino, 2005) e Tecnologia e democrazia (Torino, 2007). Per gli editori Laterza, Disuguaglianze ed equità in Europa (1993); Il costo umano della flessibilità (20055); Globalizzazione e disuguaglianze (200711); e Italia in frantumi (n.e., 2007).

 

(dal risvolto di copertina)

 

 

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