ScuolAnticoli

Libera Scuola di Umanità diretta da Luigi Scialanca

 

Prepararsi alla Resistenza1

 

Pagine della Prima Resistenza Italiana

 

Eugenio Curiel

 

di Elio Vittorini

 

Home     Clicca qui per scaricare il testo in .pdf     Clicca qui per scaricare il testo in .doc     Indice delle Pagine della Prima Resistenza Italiana

La pagina dell'ANPI dedicata a Eugenio Curiel     Eugenio Curiel su Wikipedia

Elio Vittorini su ScuolAnticoli: I preti feroci; Il garofano rosso; Uomini e no; Conversazione in Sicilia

 

 

Clicca qui per scaricare il testo in .pdf     Clicca qui per scaricare il testo in .doc

 

I cani sanguinari che ancora battono le vie di Milano, in questi ultimi giorni della loro repubblica protetta dal Reich, possono cantare vittoria per una volta. Non per un orologio, una penna stilografica e alcune migliaia di lire di cui hanno fatto bottino. Né per il sangue in cui hanno affondato il muso. Per molto di più.

L’uomo che una loro pattuglia di militi uccise e derubò in piazzale Baracca, alle tre del pomeriggio, qui a Milano, non era uno “di nessuno”. Era “nostro”, del Partito Comunista Italiano e dell’Italia che lotta; uno dei migliori e dei capi tra i “nostri”.1

 

Chi era

 

Era Giorgio; aveva trentadue anni, il volto gentile di un ragazzo, tanto più se sorrideva nei momenti lieti, con quei suoi denti bruciati dal fumo; e tanto di più anche nei momenti duri, se porgeva ad altri la sua fiducia, la sua sicurezza, la sua forza.

Alto di statura, anzi molto alto, aveva nel modo di muoversi qualcosa di arruffato e non pronto come se avesse preferito esser piccolo. Uomo che aveva studiato scienze esatte, fanatico di cultura, intellettuale, metteva nel modo di pronunciare le parole acute una verecondia e un impaccio, come se avesse preferito essere uno dei più semplici tra gli operai, per i quali scelse un giorno di combattere.

Venne al comunismo per maturazione solitaria, individuale. Ma fu sùbito tra gli attivisti e, quando nel novembre ’43 si stabilì di nuovo a Milano, era uno che aveva terminato, da appena due mesi, di completare in carcere e al confino la preparazione di sé stesso. Ricominciò allora a lavorare come lui era capace di lavorare, anche per diciotto ore di seguito, sempre nello stesso freddo e nello stesso deserto di una camera. L’Unità, la Nostra lotta, erano, in gran parte, scritti da lui. Era suo lavoro molto di quello che nella nostra stampa, dal novembre ’43 a questo febbraio, è stato esame del nostro operato, analisi dei difetti del nostro operato, ricerca dei motivi di tali difetti e suggerimento di come occorresse fare per fare meglio. E molto era suo degli sforzi compiuti per realizzare in Italia l’idea della “democrazia progressiva”, e l’idea del “potere ai Comitati di Liberazione”; molto era suo anche nell’opera assidua colla quale il nostro Partito cerca di trasformare i propri organismi malgrado le condizioni imposte dall’attività clandestina, in organismi democratici.

Noi non intendiamo ingannare i cani che lo hanno ucciso. Accusiamo il colpo che abbiamo ricevuto, la gravità della nostra perdita, e la portata di quella che, per avercela ciecamente arrecata, essi dovranno pagare. Come se ci avessero ucciso Giovanni Roveda.2 E diciamo questo nome scoperto a tutti, per dare a loro una pietra di paragone. Perché essi sappiano che cosa ha fatto una pattuglia di loro in piazzale Baracca, alle tre del pomeriggio, il 24 febbraio, intendendo fare non di più di quello che tutti loro fanno, uccidere e derubare gli uccisi, in questi ultimi giorni loro.

 

Chi è ora

 

Per il Partito Comunista non v’è niente che sia irreparabile. Se non vi sarà un compagno che possa fare da solo tutto quello che Giorgio poteva fare da solo, vi saranno due compagni, o ve ne saranno tre, a farlo insieme. Irreparabile è per noi solo la perdita del nostro affetto.

Dov’è ora Giorgio per il nostro affetto?

Legato a quello che gli è accaduto, fermo come un orologio a quelle ore tre del pomeriggio, in quel piazzale Baracca, quel 24 febbraio. Viene da una strada diretto ad entrare in un’altra, attraversa il piazzale, nel sole che è stato di quell’ora, e una cieca scarica di piombo gli becca e trapunge le gambe. Giorgio cade ma non sa perché sia caduto. Non fanno male le ferite al momento stesso in cui le riceviamo. Giorgio vuole rialzarsi, capire che cosa sia stato, e appoggia in terra le mani, forse si siede. Cerca anche gli occhiali? Certo Giorgio, cadendo, ha perduto gli occhiali. Allora lo percuote, nell’addome, la seconda scarica che lo ferma.

E questo è ora Giorgio per noi, fermato in quel punto per sempre, e il nostro affetto, che lo vede, diventa in noi qualcosa di più: forza di più e fiducia di più, sicurezza di più che conquisteremo tutto quello in cui Giorgio credeva, una vita migliore in fondo a tutta questa lotta, libera per tutti gli uomini, felice per tutti gli uomini. Questo è ora Giorgio per noi. Fermo nell’atto in cui fu assassinato: e la sua fiducia ferma in noi, la sua sicurezza ferma in noi, donata da lui a noi pur in mezzo alla nostra perdita.

Egli non entra, come i fascisti avrebbero voluto, nel numero degli “sconosciuti”, uccisi ogni giorno su un piazzale, su un viale, per il bisogno di cani sanguinari che i fascisti hanno ogni giorno di uccidere. Al contrario: tutti gli “sconosciuti” uccisi entrano ora nel suo nome; uomini oscuri abbattuti, per “tentativo di fuga”, per “atteggiamento sospetto”, o solo per “errore”, e derubati anche dopo riconosciuto l’“errore”, privati sempre dei documenti perché restassero sconosciuti, lasciati a porgere le morte facce dalle tavole nude dell’obitorio; tanti ogni giorno, e dal settembre della “ripresa” a oggi migliaia; e tutti ora entrano, migliaia come sono, nel nome di Giorgio; tutti si chiamano Giorgio.

Li vendicheremo tutti con Giorgio? La sua faccia era gentile e sempre si irrigidiva quando sentiva parlare di rappresaglia. Egli sapeva che vendicarsi e far rappresaglia può occorrere a chi non ha niente dinanzi a sé; ai fascisti può occorrere; non a noi che abbiamo molto dinanzi a noi. A noi occorre altro: lottare per questo “molto”, e intensificare la nostra lotta, questo sì, essere più fitti tra noi, più assidui, più duri nella lotta, e ormai, ora che anche lui è caduto, affrettare con ogni mezzo la fine del dominio dei cani sanguinari. La morte, su ogni uomo, è insieme di luce e di oscurità. Su un uomo che cade come è caduto Giorgio, la morte si divide: lascia la luce di sé sul caduto, e l’oscurità cammina, copre i colpevoli e suggella l’infamia su di loro.

 

Eugenio Curiel (dal sito dell’Anpi)

 

Nato a Trieste l’11 dicembre 1912, ucciso a Milano il 24 febbraio 1945, fisico, capo del Fronte della Gioventù, Medaglia d’Oro al Valor Militare alla memoria.

Di agiata famiglia ebrea, aveva dedicato allo studio l’adolescenza, conseguendo con un anno d’anticipo la licenza liceale. Di ingegno vivacissimo, aveva frequentato, per volere del padre, il primo biennio di Ingegneria a Firenze. Si era poi iscritto al Politecnico di Milano, ma lo aveva lasciato per tornare a Firenze a seguire i corsi di Fisica. Completò questi studi a Padova, laureandosi (110/110 e lode), a soli 21 anni, con una tesi sulle disintegrazioni nucleari. Assistente del professor Laura, si diede negli anni tra il 1933 e il 1934 anche agli studi filosofici e approdò, non senza un processo critico, al marxismo. Di qui, nel 1936, la prima presa di contatto di Curiel con il Centro estero del Partito comunista, a Parigi. Nel 1937 il giovane intellettuale assume la responsabilità della pagina sindacale del , il giornale universitario di Padova. Ma quell’impegno nella “attività legale” dura poco. Nel 1938 Curiel, a seguito delle leggi razziali, è sollevato dall’insegnamento e si trasferisce a Milano. Qui prende contatti con il Centro interno socialista e con vari gruppi antifascisti, ma il 23 giugno del 1939 viene arrestato da agenti dell’Ovra. Qualche mese nel carcere di San Vittore, il processo e la condanna a cinque anni di confino a Ventotene. Nell’isola, dove arrivano operai, antifascisti, garibaldini di Spagna ― attraverso una sorta di “università proletaria” nella quale anche Curiel insegna, come dimostrano gli appunti ritrovati delle sue lezioni ― si formano i quadri che organizzeranno la Resistenza. Il 21 agosto del 1943 anche Curiel, per sofferta decisione del governo Badoglio, lascia Ventotene. Torna in Veneto, ritrova vecchi amici e collaboratori, indica loro la via della lotta armata e infine ritorna a Milano. Qui dirige, di fatto, l’Unità clandestina e la rivista comunista la Nostra lotta, tiene i contatti con gli intellettuali antifascisti, promuove tra i giovani resistenti la costituzione di un’organizzazione unitaria: il “Fronte della gioventù per l’indipendenza nazionale e per la libertà”.

Il mattino del 24 febbraio 1945, a due mesi dalla Liberazione, mentre si sta recando a un appuntamento, Eugenio Curiel viene sorpreso in piazzale Baracca da una squadra di militi repubblichini guidati da un delatore; non tentano nemmeno di fermarlo: gli sparano una raffica quasi a bruciapelo. Il giovane si rialza, si rifugia a fatica in un portone, ma qui viene raggiunto e finito dai fascisti. Il giorno dopo, sulla macchia rimasta, una donna spargerà dei garofani.

Questa la motivazione della decorazione alla memoria del giovane antifascista comunista: “Docente universitario, sicura promessa della scienza italiana, fu vecchio combattente, seppur giovane d’età, nella lotta per la libertà del popolo. Chiamò a raccolta, per primo, tutti i giovani d’Italia contro il nemico nazifascista. Attratta dalla sua fede, dal suo entusiasmo e dal suo esempio, la parte migliore della gioventù italiana rispose all’appello ed egli seppe guidarla nell’eroica lotta e organizzarla in quel potente strumento di liberazione che fu il Fronte della gioventù. Animatore impareggiabile, è sempre laddove c’è da organizzare, da combattere, da incoraggiare. Spiato, braccato dall’insidioso nemico che vedeva in lui il più pericoloso avversario, mai desisteva dalla lotta. Alla vigilia della conclusione vittoriosa degli immensi sforzi del popolo italiano cadeva in un proditorio agguato tesogli dai sicari nazifascisti. Capo ideale e glorioso esempio a tutta la gioventù italiana di eroismo, di amore per la Patria e per la Libertà”.

 

Elio Vittorini

 

Elio Vittorini nacque a Siracusa nel 1908. Figlio di un ferroviere, trascorse l’infanzia e la giovinezza in Sicilia e a diciotto anni andò a Gorizia per lavorare come assistente edile. Nel 1930 si trasferì a Firenze, dove entrò nel gruppo della rivista Solaria, tra i cui collaboratori c’erano Alessandro Bonsanti, Giacomo Debenedetti, Eugenio Montale, Umberto Saba, Sergio Solmi. Al periodo fiorentino appartengono i racconti di Piccola borghesia (1931) e il romanzo Il garofano rosso (1933-34). Nel 1938 si stabilì a Milano e nel 1941 pubblicò Conversazione in Sicilia, che per lo stile dolorosamente lirico è considerato uno dei romanzi più innovativi del nostro Novecento. A Milano intensificò anche la sua opera di traduzione di importanti autori inglesi (D.H. Lawrence, Daniel Defoe) e americani (classici come Edgar Allan Poe, ma anche autori allora nuovi, come William Faulkner, Erskine Caldwell, John Steinbeck, ecc.), svolgendo un’azione parallela a quella svolta da Cesare Pavese, che condivise con lui l’intento di sprovincializzare la cultura italiana e smuoverla dalle sue concezioni tradizionaliste. Questa attività lo portò a compilare l’antologia Americana, nella quale raccolse proprie e altrui traduzioni accompagnate da commenti critici; pubblicata per la prima volta nel 1941, ma subito censurata dal regime fascista, uscì l’anno seguente in una versione priva delle note critiche e con un’introduzione di Emilio Cecchi. Dalle sue esperienze nella Resistenza nacque Uomini e no (1945). Fondò allora Il Politecnico, periodico che aveva tra i collaboratori Giansiro Ferrata, Franco Fortini, Italo Calvino. I suoi successivi romanzi furono Il Sempione strizza l’occhio al Frejus (1947) e Le donne di Messina (1949), mentre nel 1956, insieme al rifacimento di Erica e i suoi fratelli, che era rimasto interrotto per vent’anni, pubblicò La garibaldina. Cominciò poi a farsi più fitto il suo coinvolgimento nel lavoro editoriale, e nei primi anni Sessanta diresse importanti collane per alcune case editrici, partecipando intanto attivamente al dibattito sul ruolo delle avanguardie letterarie, sull’internazionalità della cultura e sui rapporti fra letteratura e industria. Sede di questo dibattito furono le pagine del periodico Il Menabò, da lui fondato e diretto insieme a Italo Calvino. Dopo la sua morte uscì il romanzo lasciato incompiuto Le città del mondo (1969), cui lavorava già dai primi anni Cinquanta, e un’opera di saggistica, Le due tensioni (1967).

 

[1] La Resistenza nel Nord? Per me significa Eugenio Curiel, la persona a cui sono stato più vicino dall’autunno del 1943 fino al febbraio del 1945. Ma non posso fare un discorso nuovo su di lui; mi ritrovo in bocca le stesse parole che dissi quando Curiel venne ucciso. Lo scritto fu pubblicato sul numero de l’Unità clandestina in cui annunciammo la sua morte. Né fu pubblicato completo; Curiel era in mano loro, sulla tavola dell’obitorio, e si pensò di non dar loro la certezza che proprio quella salma fosse Curiel. La parte dello scritto che non venne pubblicata è qui data in corsivo. “Giorgio” era il nome di battaglia con il quale chiamavamo Curiel. (Elio Vittorini).

[2] Dal sito dell’Anpi: “Giovanni Roveda partecipa al Congresso di Lione del Partito comunista. Arrestato nel novembre 1926 per organizzazione comunista e confinato per 5 anni a Favignana. Qui viene arrestato come uno dei massimi esponenti del Partito comunista e subisce una condanna a 20 anni, 4 mesi e 5 giorni per creazione di esercito rivoluzionario, cospirazione, propaganda, istigazione di militari alla disobbedienza, istigazione alla lotta armata contro le classi borghesi e il Pnf, oltraggio, vilipendio, ecc. Reclusione a Portolongone e a Castelfranco Emilia. Rifiuta di associarsi alla domanda di grazia presentata da un familiare. “Esercita grande ascendenza sui detenuti politici e ne dirige il collettivo”. A fine pena (marzo 1937) confinato a Ventotene per 2 anni. Al termine del periodo, riassegnato per 5 anni. Evade nel corso di una licenza nel febbraio 1943 ed è tra gli animatori degli scioperi di primavera. Durante il periodo badogliano è nominato vicecommissario dei lavoratori dell’industria. Arrestato nel dicembre 1943, i partigiani lo fanno fuggire dal carcere degli Scalzi di Verona, con un’azione entrata nella leggenda, nel luglio 1944. Sindaco di Torino nel 1945-47, poi segretario generale della Fiom. Morto a Torino il 18.11.1962”.

 

Clicca qui per scaricare il testo in .pdf     Clicca qui per scaricare il testo in .doc     Indice delle Pagine della Prima Resistenza Italiana

*

Non ho rimpianti, non ho rammarichi. Faccio questo per un alto e strano senso del dovere.

 

(Da “Filippo Beltrami”, di Piero Gadda Conti).

 

Nel clima segreto della loro lotta, nell’ardore che portavano nelle loro azioni, nei disagi, nella fame, nella paura,

nel vento che soffiava, nella neve che cadeva e, più ancora, nella forza che bisognava avere per resistere a tutto ciò,

era ― incredibile a dirsi ― la loro ricompensa. Poiché essa dava loro la certezza che sotto le umiliazioni, i silenzi,

il sonno di venti anni, gli Italiani che essi volevano essere erano rimasti intatti.

 

(Alba de Céspedes)

*

1. Parlare di ciò che non si sa, e che non si riesce neanche a immaginare, è sempre stupido e violento. Ma quando si parla della Resistenza è francamente intollerabile. Quasi come il negazionismo, forse.

Non mi riferisco ai neofascisti e ai neonazisti, dichiarati o camuffati, da cui sarebbe assurdo attendersi altro che un’insensatezza micidiale, ma proprio a noi compagni. E, tra noi, ai fragili quanto ignoranti “entusiasti”. E, tra gli entusiasti, a quelli che montano in cattedra, addirittura, pretendendo di insegnare ai partigiani come debba essere... il perfetto partigiano. Come si spegne facilmente, il vostro entusiasmo, non appena scoprite che i partigiani non erano perfetti! Cioè che non erano... come voi!

Queste pagine, scritte da militanti della Resistenza negli anni 1944-1945, sono, a mio parere, un documento straordinariamente importante di come fu, davvero, esser partigiani allora. A condizione, però, che in esse tentiamo di sentire quanto sia vasto il nostro non sapere: il nostro non poter neanche immaginare, quasi, l’immensa complessità umana di un’esperienza in cui non possiamo più entrare, poiché il mondo in cui si svolse non esiste più.

Sono pagine della rivista Mercurio, che uscì in quegli anni diretta da Alba de Céspedes e che, nel dicembre ’44 e ’45, pubblicò due numeri monografici dedicati alla Resistenza nel Sud e nel Nord Italia.

Scrisse de Céspedes in quei giorni all’editore Arnoldo Mondadori: “Non si può prescindere, ormai, mi sembra dal tempo presente, dalla tremenda avventura che abbiamo vissuto. Io sono molto cambiata. La mia esperienza del passaggio delle linee, la vita dura, i disagi, tutto quello che ho visto nel Sud, il nostro paese distrutto, la nostra gente senza tetto, affamata mi ha profondamente mutato. Non sono più quella ragazza alla quale piacevano tanto le tuberose. Lavoro e sopravvivo, ormai, lottando aspramente. E tuttavia ho ancora tante cose da dire e da scrivere” (da Alba de Céspedes, Romanzi, a cura di Marina Zancan, Milano, Mondadori, 2011, p. lxxxviii). E ai primi di gennaio del ’46, a proposito di Anche l’Italia ha vinto, il volume della rivista, appena uscito, dedicato alla Resistenza nel Nord: “Da questo volume non si potrà prescindere, un giorno, per la storia d’Italia” (ibid.)

Penso anch’io che sia così, e per questo trascriverò su ScuolAnticoli molte altre di queste pagine, nei prossimi mesi. Non “solo” per la Storia d’Italia, tuttavia. Non “solo”, voglio dire, per la storia della “Prima” Resistenza Italiana. Ma anche per prepararci a quella “Seconda” Resistenza che dovrà pur iniziare, spero tra non molto, prima che la schiavitù in cui l’Italia e il mondo stanno precipitando diventi irreversibile e, a quel punto, non meno disumana dell’oppressione nazifascista.

Certo, la “Seconda” sarà una Resistenza nuova, rispetto all’altra, o non sarà affatto. Sarà, mi auguro, non violenta, e tuttavia così possente, pur nella sua necessaria spontaneità, da travolgere ogni tentativo di reazione. Ma dalla memoria della “Prima” non potrà prescindere. Anche se quella memoria dovrà essere del tutto immaginaria? No: io direi soprattutto perché dovrà essere immaginaria.

 

*

La tortura, di Renato Birolli (1944)

Dai al tedesco, di Renato Birolli (1944)

*

 

*

Torna in cima     Home     Clicca qui per scaricare il testo in .pdf     Clicca qui per scaricare il testo in .doc     Indice Pagine della Prima Resistenza Italiana