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Ricordi Immaginari - Spiegare un Film a un Bambino

 

Il Cucciolo

 

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Ma come faceva Jody ad avere tutta quella grinta in ogni cosa? (Sara, a.s. 2009-2010)

 

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Titolo: Il Cucciolo (The Yearling)

Regista: Clarence Brown.

Scrittrice: Marjorie Kinnan Rawlings

Paese di produzione: U.S.A..

Anno di produzione: 1946

Attori principali: Gregory Peck (Ezra Penny Baxter), Jane Wyman (Orry Baxter), Claude Jarman Jr (Jody Baxter), Donn Gift (Icaro Forrester), Forrest Tucker (Lem Forrester), Chill Wills (Buck Forrester), Arthur Hohl (Arch Forrester), George Mann (Pack Forrester), Dan White (Ruotadimulino Forrester), Matt Willis (Gabby Forrester), Clem Bevans (Papà Forrester), Margaret Wycherly (Mamma Forrester), Henry Travers (Mr Boyles), June Lockhart (Rosa Weatherby), Joan Wells (Eulalia Boyles), Chick York (Dottor Wilson), Jeff York (Oliver Hutto).

Durata: 2 h.

 

Il film

 

Il successo de Il Cucciolo, negli anni tra il 1939 e i ’60, fu immenso. Non c’era famiglia, in America e in Europa, in cui il papà o la mamma (o entrambi) non lo proponessero ai figli maschi per sollecitarli a “diventare uomini” alla maniera del protagonista o, nella migliore delle ipotesi, perché perdonassero la loro scarsa capacità di aiutarli a diventarlo altrimenti. E ai ragazzi Il Cucciolo piaceva: non, naturalmente, per la sorte a cui costringe a rassegnarsi lo sfortunato eroe della vicenda, ma perché, nel perseguire questo fine (nell’interminabile, accuratissimo e straziante “prender la mira” sul personaggio di Jody per non lasciargli alcuna speranza di salvezza, che è la vera ragion d’essere del romanzo) l’autrice è costretta, pur di individuare con precisione il piccolo bersaglio umano che vuol colpire, non solo a riconoscerne l’esistenza, ma anche a dipingerne un meraviglioso ritratto.

È la storia di un bambino di undici anni, Jody Baxter (unico figlio superstite di Ezra “Penny” Baxter e di una donna, Ma’, di cui nel libro non viene mai fatto il nome e che nel film è chiamata Orry ) che agli inizi del ’900 risiede con i suoi in una landa selvaggia della Florida. Una piccola fattoria, continuamente minacciata dalle calamità naturali e dalle incursioni delle belve, è l’unica fonte di sopravvivenza della famigliola, e Jody (il cui solo insegnante è il babbo, poiché il paese e la scuola più vicini sono a due giorni di viaggio) aiuta come può i genitori a mandarla avanti. Ma è pur sempre un bambino, anche se sgobba quasi come un grande nei campi e nella stalla, e si sente molto solo. Perciò, quando il babbo uccide una cerva, Jody chiede e ottiene di “adottarne” il piccolo (che in seguito sarà battezzato Flag, bandiera, per il suo modo di agitare il codino ― nel film Fiocco) e di farne il proprio compagno di giochi.

Finché il cerbiatto è piccolo, tutto procede bene: lui e Jody sono inseparabili, il bambino è felice e perfino la perenne mutria di Ma’ Baxter (che si era opposta all’adozione di Flag, ma aveva dovuto piegarsi alla volontà del marito) è talvolta attenuata da qualcosa di simile a un sorriso, di fronte ai giochi e alle manifestazioni di reciproco affetto dei due cuccioli. Ma quando Flag diventa adulto, i Baxter scoprono che difendere i raccolti dalle sue incursioni è impossibile. Non lo ferma il tenerlo legato o prigioniero, perché si dibatte fino a ferirsi; e non serve neanche recintare le seminagioni, perché riesce a scavalcare qualsiasi barriera. E così, poiché il cerbiatto mette in pericolo la sopravvivenza della famiglia, padre e madre (per una volta d’accordo) costringono Jody a sparargli.

Il film di Clarence Brown, girato quando l’autrice de Il Cucciolo era ancora in vita e godeva di fama mondiale, non si concede molte libertà nei confronti di questa storia terribile, ma quelle poche sono tutte a favore della madre di Jody: in primo luogo perché ne affida l’interpretazione a un’attrice giovane e graziosa come Jane Wyman (mentre la “vera” Ma’ Baxter era corpulenta e sgraziata), poi perché fa sparire “nonna” Hutto (la mamma di Oliver, tramutato nel film in un nipote di Mr Boyles) che nel romanzo è la sola figura femminile positiva: una donna che malgrado l’età è ancora seducente (tanto che Ma’ la detesta) e che soprattutto sa far sentire Jody e il padre così a loro agio, quando vanno a trovarla in paese, da indurli quasi a desiderare (e a vergognarsene) di non tornare a casa per un po’. Ma, per tutto il resto, il film di Brown è assai fedele all’opera: gli interpreti principali sono ben scelti, i momenti più emozionanti della vicenda sono trasposti in immagini con rispetto e bravura, perfino il cerbiatto fa bene la sua parte. Tanto che lo spettatore (che già da piccolo lettore chiuse il libro sentendo confusamente di averne subìto una violenza non meno brutale di quella inflitta a Jody) al termine del film non può fare a meno di chiedersi, asciugandosi le lacrime, perché sia andato a cercarsela per la seconda volta.

 

La scrittrice

 

Marjorie Kinnan Rawlings (1896-1953) trascorse l’intera esistenza in una remota località rurale della Florida, e i temi e gli scenari dei suoi romanzi rispecchiano l’ambiente in cui furono concepiti. La sua opera più famosa è proprio Il Cucciolo, con il quale vinse nel 1939 il Premio Pulitzer per la narrativa. Nata a Washington l’8 Agosto 1896, frequentò l’Università del Wisconsin, si laureò in Inglese nel 1918 e poco dopo sposò Charles Rawlings, anch’egli scrittore. Stabilitisi a Rochester, nello stato di New York, lavorarono entrambi come giornalisti per vari quotidiani. Ma nel 1928 acquistarono vicino a Hawthorne, in Florida, tra i Laghi Orange e Lochloosa, una proprietà di 72 acri chiamata Cross Creek, e Marjorie fu sùbito affascinata da quei luoghi ancora selvaggi e dal semplice modo di vivere dei suoi abitanti, che dopo un’iniziale diffidenza a poco a poco cominciarono a raccontarle le loro storie. Ascoltandole, la giovane scrittrice riempì numerosi quaderni di appunti, e nel 1933 pubblicò il suo primo romanzo, Sotto la Luna del Sud. Lo stesso anno divorziò dal marito. Un secondo romanzo, Le mele d’oro, ottenne un buon successo nel 1935. Ma la vera fama, nazionale e mondiale, arrivò nel 1938 con Il Cucciolo. Negli anni successivi, mentre continuava a pubblicare e a insegnare scrittura creativa, Marjorie divenne una paladina dei diritti umani nel mondo, ma nonostante ciò non riuscì mai a non pensare ai neri come a una razza inferiore. Morì di emorragia cerebrale il 13 dicembre 1953.

 

Il regista

 

Nato nel Massachusetts nel 1890 e morto nel 1987, Clarence Brown si laureò in ingegneria e lavorò in una fabbrica di motori fino al 1915. Entrò nel mondo del cinema facendo l’assistente alla regia per Maurice Tourneur, e per sette anni rimase con lui come montatore, scrittore di titoli e organizzatore delle riprese in esterni. Il suo debutto come regista avvenne nel 1920, e fino al 1952 realizzò 52 film. Amava gli effetti pittorici (come è evidente ne Il Cucciolo), aveva un buon rapporto con gli attori (tanto che girò ben sette film con Greta Garbo, di cui tutto si poteva dire meno che fosse una persona facile) e i suoi film erano ricchi di sentimento. Da ricordare La carne e il diavolo (1927), Anna Christie (1930), Anna Karenina (1935) e Maria Walewska (1937).

Il commento di Luigi Scialanca

 

La trama de Il Cucciolo, benché dia un’idea dell’abisso di dolore e disperazione in cui il piccolo protagonista viene alla fine precipitato, non rende giustizia alla perfetta macchina narrativa messa in funzione dall’autrice per sospingere il bambino fin sull’orlo di esso senza lasciargli scampo. Dalla prima all’ultima pagina, tutta l’opera è studiata per rendere impraticabile qualsiasi alternativa all’uccisione di Flag: non c’è nessuno a cui affidarlo, poiché nel corso della vicenda è stato fatto morire o partire chi avrebbe potuto accoglierlo; non lo si può portare in uno zoo, poiché la più vicina città è troppo lontana perché Jody possa raggiungerla da solo, e il babbo non può lasciare la fattoria; non v’è modo, come s’è detto, d’impedirgli di falcidiare il raccolto, e d’altronde i Baxter sono stati ridotti così a mal partito da una serie di avversità che non possono privarsi neanche di un filo d’erba; e non si può nemmeno restituirgli la libertà, perché la bestiola è così affezionata al suo padroncino che ritrova sempre la via di casa.

 

Il Cucciolo, insomma, è stato concepito e scritto a un unico scopo: l’uccisione del cucciolo. Questo è l’obiettivo che l’autrice ha sempre in mente, pagina dopo pagina: mostrare che la trasformazione del “cucciolo” umano in un essere umano adulto non è una trasformazione, ma un’operazione chirurgica. Cioè che non è una crescita, uno sviluppo del bambino quale egli è già attualmente (e dunque un processo che gli adulti possono e devono limitarsi a favorire, incoraggiare e sostenere) ma l’amputazione, nel bambino, del quid (quale che sia) che lo contraddistingue come bambino, sì, ma che non dev’essere tollerato a lungo, in lui (proprio come non si tollera una malattia nel suo corpo) se non si vuole avviarne l’esistenza al fallimento. Il cerbiatto, e l’affetto che suscita in Jody, rappresentano, manifestano e in qualche modo sono questo quid: entrambi, pertanto, devono essere estirpati dalla sua vita e dalla sua mente.

 

Ma c’è di peggio, ne Il Cucciolo: due invenzioni così odiose, da far pensare a una sorta di accanimento della Rawlings contro la sua creatura letteraria.

 

La prima è rappresentata dall’evoluzione di Penny Baxter, il papà di Jody. Per quattro quinti del romanzo, è una figura straordinariamente positiva di padre: l’unico che capisce il bambino, che lo risarcisce dell’indifferenza della madre per la sua realtà interiore e che tenta di conservare alla sua vita (al di là della lotta per la sopravvivenza, che da sola non la distinguerebbe da quella degli animali e che invece è l’unica dimensione che la donna conosca) anche qualche caratteristica umana. Ma quando si arriva al dunque, e tutte queste qualità si rivelano impotenti a salvare il cerbiatto, allora appare evidente che esse sono state attribuite al babbo al solo scopo di rendere più amara e catastrofica, cioè più ammonitrice, la disillusione di Jody: se neanche un uomo perfetto come tuo padre trova una soluzione, dice la Rawlings al bambino, vuol dire che la soluzione non esiste, e che il cucciolo non può che morire.

 

La seconda è l’introduzione nella vicenda di un altro bambino, Icaro (nell’originale Fodderwing, “ala di paglia”, soprannome che allude alle fragili ali con cui un giorno tentò di spiccare il volo dal tetto del granaio, infortunandosi gravemente) al quale Jody vuole molto bene. Ma Icaro, che comunque abita troppo lontano per poter alleviare la solitudine del protagonista, vien fatto morire quasi sùbito di malattia. Perché? Com’è intuibile, egli deve morire, altrimenti Jody avrebbe qualcuno a cui affidare Flag (e i Forrester, i sei fratelli grandi di Icaro, una masnada di bruti che i Baxter chiamano gli orchi, non avrebbero difficoltà ad accoglierlo, dato che non coltivano la terra...). Ma allora, a che scopo è stato creato?

 

La risposta è tragica: Icaro, che non vive che per le sue ingenue fantasie e per il piacere disinteressato di allevare animaletti di nessuna utilità pratica, è messo al mondo del romanzo solo per essere ucciso: per mostrare, cioè, con ogni aspetto della sua misera esistenza (l’incomprensione da parte degli orchi, il suo non essere di alcun aiuto agli altri, la salute sempre cagionevole, la menomazione provocatagli dal tentativo di volare, e infine la morte) che nel mondo reale gli spazi e i tempi concessi all’immaginazione, agli affetti e ai giochi devono essere minimi, poiché vi si trascura la lotta per la vita; che tentare di ampliarli è da pazzi, o appunto da bambini che dei pericoli non si avvedono; che l’infanzia, essendo l’età che più è attratta da ciò che non è materialmente utile, sarebbe l’età in cui son più a rischio non solo i bambini, ma la sopravvivenza dell’intera nostra specie, se dall’immaginazione, dagli affetti e dai giochi non ci affrancassimo il più possibile; e che dell’infanzia, insomma, si deve essere curati e guarirne.

 

Jody, rassegnandosi all’uccisione di Flag, “guarisce” dai sogni, dalle fantasticherie, dai desideri e dalla testardaggine umana di voler a ogni costo cercare, entro la dura scorza del lavoro, la polpa saporita che lo distingue dalla fatica insensata e bestiale: il gioco. Mentre Icaro, l’irriducibile, non può che morire.

 

Non esiste altra opera letteraria, che io sappia, in cui sia così impressa la teoria che ha dato forma al rapporto dell’adulto contro il bambino fin quasi ai giorni nostri: la teoria, intendo, per la quale certe caratteristiche dell’essere umano come la Natura lo mette al mondo, cioè dell’essere umano bambino (tra le quali soprattutto l’immaginazione e l’affettività con cui “sentiamo” la realtà esterna e interna, umana e non umana, come non solo materiale) lo renderebbero pericoloso a sé e agli altri, alla stregua di ogni altro essere o elemento della Natura non addomesticato e irregimentato; e sarebbero perciò caratteristiche che l’adulto, divenuto tale eliminandole da sé, dovrebbe estirpare anche dal bambino per sottrarlo allo stato di Natura e per farne, a sua volta, un adulto compiutamente umano.

 

Con il paradossale corollario (se fosse vera questa teoria che umani non si nasce ma si diventa) che il piccolo umano, evidentemente... non sarebbe umano. E che, pertanto, se ciò che lo trattiene al di qua della condizione umana sono l’immaginazione e l’affettività, esse non sarebbero qualità umane (le qualità umane) ma caratteristiche animalesche: una sorta di epifenomeni, ingigantiti dalle dimensioni del nostro cervello, dell’irrazionalità che tipicamente distinguerebbe i bruti da noi.

 

Ebbene: se ora torniamo all’amicizia fra Jody e Flag, grazie alla Rawlings e alla sua operosa follia possiamo capire come mai, tra le alleanze con cui i bambini si difendono dai grandi, quella che li lega ai cuccioli sia così stretta e tenace. Quale affinità i nostri piccoli percepiscano o immaginino, fra sé e i piccoli d’altre specie, per arrivare a sentirsi, talvolta, più vicini a loro che a noi.

 

Ovviamente è un’affinità immaginaria. Che però, come ogni creazione della mente, produce forti e durature conseguenze nella realtà.

 

La sua natura è duplice: da un lato, come ho chiarito poc’anzi, è l’affinità fantasticata dall’adulto, che con tenerezza o insofferenza (a seconda dei momenti più o meno felici a cui va incontro il rapporto col bambino, e soprattutto dell’ampiezza e profondità delle risonanze che la teoria di cui sopra suscita nella sua mente) vede il bambino come una bestiolina da umanizzare; dall’altro è l’affinità vagheggiata dal bambino, che accetta l’identificazione con il cucciolo non umano e ne trae motivo per intrecciare con esso relazioni che durano a volte per tutta la vita di entrambi.

 

Poiché il bambino, identificandosi con il cucciolo, spera di condividerne la sorte: di poter come lui rimanere sé stesso (dato che l’animale, non potendo diventare umano, è lasciato libero di restare qual è) e forse di trovare, sfuggendo con lui agli allevatori e ai cacciatori, definitiva salvezza nella foresta.

 

È per questa duplice affinità che i genitori ammonivano i bambini a star lontani dai boschi e narravano loro cupe storie di lupi, di streghe e di gnomi: perché li intuivano tentati di cercare scampo con la fuga dal mondo degli adulti, e per allontanare da sé il dubbio angoscioso d’aver qualcosa in comune, nel fondo della mente, con la matrigna di Hänsel e Gretel.

 

E nelle foreste, reali e immaginarie, il bambino fuggito e il bambino abbandonato finivano con l’assomigliarsi come due gocce d’acqua e con l’apparire, entrambi, ancor più simili a bestiole: il primo perché sfuggiva gli umani, come fanno gli animali selvatici, e il secondo perché dagli umani era scacciato, come accade ai cuccioli domestici quando son di troppo. Il destino che li attendeva era quasi sempre la morte, e solo talvolta di essere riacciuffati o riaccolti dalle proprie o da altrui famiglie. Ma si fantasticava invece che certi animali (i lupi o le scimmie, per esempio, come nei casi celeberrimi di Mowgli e di Tarzan), riconoscendoli come simili, li adottassero e li allevassero insieme ai propri piccoli. E che i bambini, dopo aver imparato a capirne e a parlarne il linguaggio e a vivere come loro, ne diventassero i più forti alleati e difensori e fossero, chissà!, più felici così di quanto lo sarebbero stati con noi.

 

Del resto, che il “cucciolo” della donna e dell’uomo non sia umano è un delirio che lucidamente crede di dimostrarsi osservando il bambino stesso: “sapendo” (ma in realtà fantasticando) che gli esseri umani sarebbero tali in quanto dotati (a differenza delle bestie) di ragione, linguaggio e della capacità di fabbricare strumenti e di servirsene, e “constatando” che il neonato invece non ragiona, non parla, non fabbrica strumenti ed è del tutto inetto a servirsene, l’uomo e la donna “deducono” che egli non sia ancora umano. E l’idea dell’anima (“principio attivo” d’origine divina, insufflato nella fangosa e animalesca corporeità, che a poco a poco dev’essere sottratto al predominio degli istinti, imparare a controllarli e costantemente difendersi, finché vive, dal pericolo d’essere asservito dal proprio involucro terreno) “conferma” questa pretesa “osservazione della realtà” dell’uomo e della donna e finisce di convincerli che rendere umana la bestiolina che hanno messo al mondo sia il loro compito precipuo, e che la loro maggiore o minore capacità di assolvere a esso sia il metro con cui debbono valutarsi come genitori.

 

Esser capaci di far di un animale non umano un essere umano! Per fortuna, come a tutte le fantasticherie deliranti, anche a questa non si crede quasi mai fino in fondo. Altrimenti, all’idea di doversi cimentare in una tale impresa, quante donne (e uomini) eviterebbero di cadere in depressione, o di abbandonare l’incomprensibile esserino urlante nella foresta perché si ricongiunga ai suoi simili, o addirittura di tentar di sopprimere in lui la propria inadeguatezza?

 

Di quando in quando è ciò che accade, purtroppo. Mentre, negli altri casi, chi viene soppresso o abbandonato, o quanto meno trascurato, è “solo” il bambino umano. Cioè l’essere umano del bambino. Verso il quale si perde, in tutto o in parte, la capacità di rapporto: di “sentirlo”, di amarlo, di giocare con lui, di parlargli, di ascoltarlo. Il bambino umano sparisce (per qualche ora, per qualche giorno o per sempre); al suo posto, stringendo i denti, ci si tiene malinconicamente il “cucciolo”, il “bambino tutto nero”, “portato dalle streghe”; e su di lui s’intraprende (con minacciosa intransigenza o con pietosa indulgenza) l’opera annosa di farne un adulto razionale e “umano”.

 

Il bambino ne soffre doppiamente: perché, in tutto o in parte, non viene riconosciuto per il bambino umano che è (tranne che dagli altri bambini, con i quali stabilisce infatti i rapporti di maggior accettazione reciproca che gli sia dato di godere, ma il cui riconoscimento, con l’andar del tempo, si fa anch’esso sempre meno saldo) e perché viene sottoposto a un’educazione tanto più tormentosa quanto più è basata sulla pretesa di rendere umana la bestiola che egli per l’appunto non è, ma che allucinatoriamente si vuol per forza vedere in lui. E così, a poco a poco (essendo permeabile, come tutti gli esseri umani, alle fantasticherie dei suoi simili, ed essendolo ancora di più a quelle dei suoi cari) egli arriva a far propria l’immagine di sé come di un cucciolo, e la conseguente alleanza con gli altri cuccioli, ricavandone in compenso la speranza di condividerne la sorte: cioè, come dicevo, d’esser lasciato finalmente in pace (poiché agli animali non si chiede di diventare umani) e magari di trovare insieme a loro, sfuggendo agli allevatori e ai cacciatori, definitiva salvezza nella foresta.

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Le migliori domande dei bambini sul film

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(Le schede di Spiegare un film a un bambino sono per bambini e ragazzi di Quinta elementare, Prima, Seconda e Terza media.

Sono scritte, perciò, il più semplicemente possibile. Ma non sono affatto... semplicistiche.

Vuoi servirtene? Fai pure. Ma non spezzettarle, non alterarle e non dimenticare di citarne l’autore!)

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