ScuolAnticoli

Libera Scuola di Umanità diretta da Luigi Scialanca

 

Ricordi Immaginari - Spiegare un Film a un Bambino

 

La morte corre sul fiume

 

Home     Torna all’indice generale dei film

 

 

Clicca qui per scaricare la scheda in formato pdf

Clicca qui per scaricare la scheda in formato Word

 

Titolo: La morte corre sul fiume.

Titolo originale: The night of the hunter.

Regista: Charles Laughton.

Paese di produzione: U.S.A..

Anno di produzione: 1955.

Attori principali: Robert Mitchum (reverendo Harry Powell), Shelley Winters (Willa Harper), Sally Jane Bruce (Pearl Harper, figlia di Willa), Billy Chapin (John Harper, figlio di Willa), Peter Graves (Ben Harper, padre di John e Pearl), Lillian Gish (Rachel Cooper).

Durata: 1h 33’.

 

Il regista

 

Charles Laughton

 

Il film

 

Il reverendo Harry Powell, predicatore itinerante, si è tatuato le nocche della mano destra con le lettere che compongono la parola love, amore, e quelle della sinistra con la parola hate, odio; ha creato egli stesso, parlandone in privato con Dio, la propria religione (così simile a quella cristiana che egli riesce facilmente a farsi credere un prete come tutti gli altri); e l’ha dotata di un undicesimo comandamento che Powell si guarda bene, però, dal comunicare alle sue sciagurate “pecorelle”: “Combatti con ogni mezzo la sessualità umana e uccidi ogni donna che commette il tremendo peccato di piacere agli uomini”.

 

D’altra parte, poiché di sola fede non si campa, la religione del reverendo Powell lo autorizza, quando la peccatrice da eliminare è una danarosa vedova, a sposarla e a impadronirsi di tutti i suoi beni, prima di spedirla all’Inferno e rimanere vedovo anche lui. Ed egli lo fa ogni volta che può (e in maniera scrupolosa, tanto che nessun sospetto l’ha mai sfiorato) unendo così la devozione al tornaconto.

 

Solo che Powell, oltre che un assassino, è un truffatore e un ladro. E poiché, nel commettere tali delitti “minori”, è meno accurato o ha meno fortuna di quando uccide per ubbidire al suo Dio, ecco che un bel giorno la sua carriera criminale viene interrotta da una condanna a qualche anno di galera.

 

Ma in cella il reverendo Powell non se ne sta con le mani in mano: conosce Ben Harper, condannato a morte per un omicidio commesso nel corso di una rapina, e riesce a farlo parlare quel tanto che basta per capire che il bottino mai ritrovato di quell’impresa (diecimila dollari) dev’essere nelle mani della moglie di Ben, Willa, o nascosto da qualche parte in casa sua.

 

Quando Harper viene giustiziato, Powell, che intanto ha finito di scontare la pena, si precipita da Willa, scopre che è una seducente sciocchina sola al mondo (proprio il tipo di donna che egli si fa un dovere di castigare senza pietà) e in pochi giorni la induce a sposarlo a forza di chiacchiere e gentilezze tanto pie quanto untuose (e con l’aiuto di una vecchia beghina, direttrice spirituale della piccola comunità di provincia a cui Willa appartiene, che Powell persuade facilmente di essere un santo inviato da Dio).

 

Willa, però, dei soldi non sa niente: sono i suoi figlioletti, John e Pearl, a custodirne il segreto; e Powell, dopo aver invano tentato di guadagnarsi la loro fiducia, uccide la donna (più per punirla d’aver cercato di far l’amore con lui che per essere stato da lei sorpreso mentre li interrogava), ne fa sparire il cadavere ancorandolo sul fondo di un fiume e torna dai bambini per costringerli a parlare.

 

Ma John e Pearl riescono a sfuggirgli saltando su una barchetta abbandonata che un buon vecchio ha riparato per loro; e sùbito una quieta corrente, la stessa che a qualche metro di profondità dona una parvenza di vita ai capelli della loro povera madre, li sospinge, braccati dal mostruoso reverendo Powell, verso un mondo naturale e umano di cui non immaginavano l’esistenza: un mondo magico, possente, generoso, al centro del quale una misteriosa vecchina attende i bimbi sperduti come John e Pearl...

Il commento di Luigi Scialanca

 

Può sembrare, a una prima analisi del film, che il movente delle orribili azioni del reverendo Harry Powell sia la bramosia di denaro: la volontà d’impadronirsi a ogni costo dei diecimila dollari che il defunto Ben Harper, bandito di poca fortuna, ha affidato ai figlioli un istante prima di essere arrestato. Ma non è così. Poiché Powell (diversamente da Harper, che era diventato un rapinatore nella folle illusione di uscire con la violenza dalla miseria, ma che avrebbe anche potuto imboccare altre strade) non ha possibilità di scelta: è costretto alla rapina perché non è capace di rivolgersi agli altri se non per assassinarli, e dunque non può procurarsi il denaro per vivere altrimenti che truffando, rubando e uccidendo.

 

Un uomo come Harper può cadere dal mondo del lavoro in quello del crimine per i motivi più diversi (in genere, per un intreccio di fattori personali e sociali che a un certo momento lo sprofondano in una crisi gravissima, dalla quale non ha speranza di uscire senza un aiuto che di solito non trova, e che spesso non sa neanche cercare) ma in nessun caso finisce col delinquere perché non può lavorare con gli altri e per gli altri. Quasi sempre, anzi, oltre a commettere crimini, saltuariamente lavora; e poi ha parenti e amici, non di rado è fidanzato o sposato, talora (come Ben Harper) è padre: rapporti e situazioni più o meno disastrati, certo, ma che testimoniano della sua perdurante (benché deteriorata) umanità.

 

Un uomo come il reverendo Powell, invece, per non morire di fame deve delinquere perché non può lavorare. E non può lavorare non perché non ne sia capace, o perché non ne abbia voglia, o perché tenti più o meno consapevolmente di ribellarsi a questa costrizione, ma solo perché non è in grado di stabilire alcun rapporto reale, neanche minimo, con un altro essere umano.

 

Poiché non esiste lavoro, per quanto umile, semplice e solitario, che non richieda come conditio sine qua non una situazione di rapporto con almeno un altro essere umano. Un artista, per esempio, anche se si isola dal mondo per creare, si rivolge pur sempre a un pubblico, reale o potenziale, al quale offrirà prima o poi l’opera compiuta. Un contadino o un pescatore, soli in una campagna deserta o in mezzo al mare, hanno in mente i propri cari e lavorano per loro, o magari per la speranza di farsi un giorno una famiglia, o per il ricordo, grazie al quale riescono a tirare avanti, di quella che avevano un tempo e che hanno perduto. Nemmeno Robinson Crusoe avrebbe trovato la forza di darsi da fare, sulla sua isola deserta, se in lui, insieme al cosiddetto istinto di sopravvivenza (e alla fede in Dio di cui si compiaceva a ogni pie’ sospinto) non fosse rimasto forte anche e soprattutto il legame affettivo con i suoi simili.

 

Il reverendo Powell, invece, da molto tempo non ha più alcun rapporto con esseri umani reali, neanche sotto forma di ricordo o di speranza. Eppure va tra la gente, frequenta uomini e donne, vive e parla con loro. Ma è una recita, poiché in realtà se ne sta sempre chiuso dentro di sé come in un’orrenda segreta senza porte né finestre. Eppure i suoi sensi e la sua ragione funzionano, ed egli è perfettamente in grado di vedere, di udire, di interagire con gli altri. Ma non ha più alcuna comunicazione affettiva con loro, né vi è più, in lui, alcuna speranza di averne in futuro e alcun ricordo di averne avuta in passato. È sempre con sé che il reverendo Powell parla, quando parla con gli altri. I quali, per lui, non si distinguono dagli oggetti inanimati e non hanno, quindi, alcuna possibilità di movimentare i suoi sentimenti, ma solo quella di “indossare”, come nudi manichini senza vita, l’odio e la rabbia che egli nutre per loro non in quanto esseri umani in carne e ossa, ma in quanto fantasmi da lui creati che popolano la sua mente.

 

È vero che la realtà si fonde con l’immaginazione in tutte le menti umane. Ma non in tutti allo stesso modo. Quanto più l’immaginazione è sedotta dalla realtà, come l’amante dall’amata, tanto più il suo rapporto con essa è valido, pieno di significato, profondo e creativo. Quanto più, invece, l’immaginazione si distacca e si aliena dalla realtà, tanto più diviene mostruosa, insensata, delirante e nociva.

 

È ciò che è accaduto al reverendo Powell: c’è solo repulsione, in lui, per la realtà umana. E benché egli, materialmente, la veda com’è, e parli, risponda e agisca appropriatamente, i suoi affetti, invece (che non sono hate e love, odio e amore, come proclamano le nocche delle sue dita, ma rabbia, che lui chiama amore, e volontà omicida, che chiama odio) vedono e ascoltano solo il suo delirio.

 

Come può lavorare, uno così? Come può trarre da vivere onestamente da una realtà che per lui non è popolata che da ombre indistinte e mostri ripugnanti? Dove può attingere la passione, la forza, la costanza e la resistenza per operare nel mondo con quel minimo di armonia che è necessaria per non impedire agli altri di fare lo stesso, se i suoi affetti per loro oscillano tra la rabbia e l’odio, e a nessuno egli permette di arrivare al suo cuore per modificarli? No, il reverendo Powell non può che delinquere per vivere, poiché non dispone di alcun altro modo di agire, e perciò non può trovarlo innaturale più di quanto un ragno possa giudicare strano il proprio acquattarsi in cima alla tela in attesa di una preda.

 

Eppure, per quanto il reverendo Powell odi tutti i pupazzi (da lui creati) che gli si agitano intorno come ombre incomprensibili su un muro, alcuni li odia così tanto che deve cancellarli dalla faccia della terra: le donne che riescono talvolta, magari senza volerlo né accorgersene, ad aprire uno spiraglio nei bastioni di idee deliranti che imprigionano la sua mente precludendole qualsiasi contatto con l’esterno.

 

Le donne, infatti, sono talvolta così belle e appassionate da intaccare anche la più gelida insensibilità. È per questo, per l’intensa seduzione esercitata dai loro sorrisi pieni di luce, dai loro movimenti aggraziati, dalle loro voci melodiose, che esse, oltre che molto amate dagli uomini, nel corso dei millenni sono state viste come nemici mortali da tutte le religioni, piene d’odio per la sessualità umana, che sempre hanno tentato di demonizzarle chiamandole peccatrici e streghe, di spegnerne la vitalità e la fantasia con la violenza fisica o morale e di costringerle a chiudersi in casa e a imbruttirsi. Ed è per questo che anche il reverendo Harry Powell le odia con tutte le sue forze: la bellezza di una donna, il suo fascino, il desiderio che ella può suscitare in un uomo di “uscire da sé” per entrare in rapporto con lei (vale a dire la cosa più bella che a un uomo possa accadere, l’evento che più di ogni altro può restituire alla sua immaginazione quella sintonia con la realtà che fu perfetta solo agli albori della sua esistenza) per un individuo come Powell è invece quanto di più pericoloso possa capitargli. Poiché il suo mondo fantastico è ormai così intriso, permeato, “materiato” di repulsione e odio, che anche il minimo fremito di desiderio potrebbe scardinarlo, farlo implodere, distruggerlo. E ridurre lui a poco più di un vegetale.

 

L’esistenza stessa delle donne, soprattutto se belle, libere, seduttive, è un attentato continuo al delirio che mantiene in funzione la mente del reverendo Powell. Che ne sarebbe della sua religione (cioè del suo mondo di angeli asessuati e demoni ributtanti) e che ne sarebbe del creatore di tale mondo (cioè di Powell in persona) se il fascino di una donna riuscisse a penetrarvi? No, per il reverendo Powell le donne sono le streghe più infide e potenti. Ed egli, perciò, quando non gli riesce la “magia” di renderle per lui inesistenti, per far sì che non ci siano non può che ucciderle. Per tramutarle da “oggetti” di desiderio in oggetti d’orrore e per punirle del “peccato” da loro commesso contro di lui e contro la sua fede.

 

È per questo che uccide Willa: non perché ella l’abbia sorpreso mentre interrogava i bambini o perché possa impedirgli di impadronirsi del denaro, ma perché la donna, la prima notte di nozze, ha tentato di suscitare il suo desiderio. Ed è ancora per questo, con ogni probabilità, che il reverendo Powell tenta di assassinare i bambini: non per i diecimila dollari, ma perché John e Pearl sono riusciti per un istante ad accendere in lui un minuscolo bagliore d’affettuoso interesse, e quindi devono morire prima che esso si trasformi in un’esplosione di luce che lo accecherebbe. Poichè il bambino è la verità dell’essere umano. E Powell, della verità umana, non può più sostenere la vista senza disgregarsi.

 

Ma John e Pearl fuggono. Per aver salva la vita? Certo. Ma non solo. Poiché nessun bambino vivrebbe neanche un giorno, se la sua volontà di vivere non fosse anche speranza, così John e Pearl senza speranza non si salverebberro: consapevolmente o meno, si lascerebbero prendere dall’uomo nero.

 

Invece riescono a sfuggirgli, e questo successo (questo riuscire a “tuffarsi” nel mondo prima che gli artigli del reverendo si chiudano sui loro fragili corpi) dimostra che essi, al contrario di Powell, con la realtà hanno mantenuto un rapporto affettivo: amano il mondo, hanno ancora fiducia in esso, e gli permettono di entrare nelle loro menti e di fondersi con la loro immaginazione.

 

La fuga di John e Pearl, infatti, è la parte più affascinante del film. Nel corso di essa (con l’aiuto della straordinaria fotografia di Stanley Cortez e delle fiabesche scenografie di Hilyard Brown, elementi che non a caso, dall’inizio alla fine, sono tenuti come sospesi tra fantasia e realtà) il regista Charles Laughton ci fa vedere il mondo non come esso appare agli adulti, o peggio nei deliri del reverendo Powell, ma come lo vedono i bambini ancora piccoli, in tutta la sua incantevole, accogliente, ingenua magia. E implicitamente, così facendo, ci pone un quesito cruciale: il vostro mondo, domanda a noi spettatori, a quale dei tre assomiglia di più? Al mondo a cui John e Pearl si abbandonano con fiducia? Al mondo gelido, insensato e feroce in cui il reverendo Powell si muove come un ragno sulla tela, appeso al filo del proprio delirio? O al mondo sempre insicuro in cui vivono i tanti che credono ai tipi come Powell, che si fidano di essi, e che affidano loro, senza un briciolo d’amore né un lampo di saggezza, le donne e i figli?

 

Dopo il capitolo sul reverendo e quello su John e Pearl, infatti, un altro importante “discorso” de La morte corre sul fiume è quello su coloro che si schierano dalla parte dei Powell, e in tal modo, più o meno consapevolmente, li aiutano a imperversare sugli altri. La più impressionante è la vecchia beghina che nella prima parte del film spinge la povera Willa Harper fra le braccia del reverendo, e che poi, quando le malefatte di Powell la costringono ad aprire gli occhi su di lui, aizza e si mette alla guida del furibondo corteo che va in cerca dell’assassino per linciarlo. Ma i suoi compaesani non sono, in fondo, migliori di lei: tutti ciechi, prima, nella loro stupida infatuazione per il lupo travestito da agnello, e tutti ciechi, anche dopo, nel furore che sta per trasformarli in altrettanti assassini: ciechi e stupidi sempre. E cosa sono, del resto, cecità e stupidità, se non conseguenze dirette dell’assuefazione all’anaffettività?

 

Meno del reverendo Powell, ma solo per essersi messi con minor decisione sulla strada che egli ha percorso fino in fondo a passi da gigante, anche i compaesani di John e Pearl hanno fuorviato la propria immaginazione: l’hanno portata molto lontano dal mondo magico dei bambini, con mille scuse menzognere l’hanno condotta nella nera foresta delle streghe e degli orchi, e laggiù l’hanno abbandonata.

 

Ma ecco che appare la signora Rachel Cooper, la buona vecchina venuta a offrire ai bambini accoglienza e protezione; ed ecco che la sua severa bontà e la sua dolcezza un po’ malinconica riscattano gli adulti dalla condanna senza appello che stava per colpirli. Eppure vive sola in una casetta lontano dal paese! Eppure cattura i bimbi sperduti e abbandonati, i poveri Hänsel e Gretel che sorprende mentre vagano nel bosco impauriti e tremanti! Non sembra proprio una strega? Non dovrebbe essere una strega?

 

No. Poiché le streghe e gli orchi non si allontanano dagli esseri umani per salvare il proprio amore per loro rifiutandosi di condividere ciò che essi fanno di disumano. E non debbono duramente faticare dapprima per essere ascoltati, poi per essere capiti, infine per essere creduti, e talvolta già addirittura per essere semplicemente visti. No, orchi e streghe vanno sicuri tra la gente come fa il reverendo Powell, ostentando cortesia e amabilità, sorridendo sempre e spacciando a tutti con incredibile improntitudine le bugie più insensate, rozze e malvagie; e la gente, spesso, corre ammirata ad ascoltarli, crede fermamente alle balle che raccontano e li segue fino alla morte (in genere, quella degli altri).

 

Perfino i bambini, talora, si lasciano ingannare dagli orchi e dalle streghe travestiti da agnelli e da fatine. Ne La morte corre sul fiume, per esempio (film così sincero da rischiare di diventare sgradevole) è ciò che vediamo accadere alla piccola Pearl. Ed è una vista alla quale, lì per lì, non riusciamo a credere: com’è possibile, ci vien fatto di domandarci, che sia anche lei già così sciocca come la madre, o addirittura insensata come la vecchia balorda che induce la madre a sposare il reverendo Powell?

 

Ma poi, riflettendo, ci rendiamo conto che il modo in cui si lascia ingannare un bambino non ha niente a che vedere con quello in cui si fa ingannare un adulto: poiché il bambino, se cade talvolta in trappola, è perché si attende che il mondo umano sia come lui, umano davvero; mentre l’adulto, al contrario, soltanto perché ha dimenticato e non vuol più sapere come il mondo umano dovrebbe essere.

*

(Le schede di Spiegare un film a un bambino sono per bambini e ragazzi di Quinta elementare, Prima, Seconda e Terza media.

Sono scritte, perciò, il più semplicemente possibile. Ma non sono affatto... semplicistiche.

Vuoi servirtene? Fai pure. Ma non spezzettarle, non alterarle e non dimenticare di citarne l’autore!)

*

 

*

Torna in cima alla pagina                    Home