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Il Bambino Selvaggio

 

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Victor per tanti anni non si era accorto di stare in un ambiente non adatto a lui, o si era accorto ma non voleva cambiare?

(Beatrice, a.s. 2000-2001)

 

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Titolo: Il Bambino Selvaggio

Titolo originale: L’Enfant Sauvage

Regista: François Truffaut (1932-1984)

Paese di produzione: Francia

Anno di produzione: 1969

Attori principali: Jean-Pierre Cargol (Victor), François Truffaut (Dottor Itard), Françoise Seigner (Madame Guerin), Annie Miller (Madame Lemeri), Claude Miller (Monsieur Lemeri), Nathan Miller (bimbo Lemeri), Paul Villie (Remy).

Durata: 1h 23’

 

Il film

 

L’enfant sauvage (cioè Il bambino selvaggio, e non il ragazzo come lo si è intitolato in Italia) narra la storia (realmente accaduta, e della quale esiste la documentazione lasciataci da uno dei due protagonisti e da alcuni testimoni della vicenda) di un bambino selvaggio, dell’apparente età di undici o dodici anni, che il 9 gennaio 1800 entra nel giardino di un’abitazione non lontana da un villaggio dell’Aveyron, in Francia, e si lascia docilmente “catturare” da coloro che vi risiedono.

È lo stesso bambino che a partire dal 1797 è stato più volte inseguito dai cacciatori nei boschi del circondario, ma è sempre riuscito a scappare: un bambino che non indossa vestiti, non parla, non risponde alle domande, non reagisce alle voci umane. E che, a giudicare dall’orribile cicatrice che ha sul collo, deve aver perfino subìto un tentativo di omicidio.

Nel 1798 è stato anche ospitato e accudito per sette giorni da una vedova, ma poi è fuggito. Questa volta, invece, si è avvicinato a una casa spontaneamente e si è lasciato prendere senza opporre resistenza. Come mai? Con ogni probabilità, l’affetto e le cure ricevute un anno prima dalla buona donna hanno suscitato in lui, con l’intuizione di poter stare bene fra gli esseri umani, il desiderio di tornarvi.

Battezzato con il nome di Victor, in meno di ventiquattr’ore il bambino è rinchiuso in un istituto, l’asilo di Saint-Affrique, dove rimane per un mese. Di lì, dopo alcuni mesi a Rodez presso il naturalista Bonaterre, viene trasferito nell’ospedale parigino del dottor Philippe Pinel, psichiatra di fama; il quale, alla fine di quello stesso anno, formula una diagnosi di “idiozia congenita” e si dice persuaso che i genitori l’abbiano abbandonato, non da molto, proprio a causa di questa sua anormale e incurabile condizione.

A questo punto entra in scena il dottor Jean Marc Gaspard Itard (1775-1838), un allievo di Pinel che si è staccato dal maestro per dedicarsi allo studio dei sordomuti e alla ricerca di un metodo per comunicare con essi. Dopo aver minuziosamente esaminato Victor, Itard sostiene che egli sia invece un bambino normale che però, essendo stato abbandonato quand’era ancora molto piccolo e non avendo ricevuto alcuna educazione, non abbia potuto sollevarsi, dallo stato di “animale debole e poco intelligente” che è proprio di ogni essere che non goda dei “benefici della civiltà”, a una condizione pienamente umana.

Così, animato dalla duplice speranza di risarcire Victor di tutto ciò che gli è stato negato e di verificare le teorie dell’Illuminismo di cui è un convinto assertore (le quali fanno appunto derivare le caratteristiche che “renderebbero umani” i cuccioli dell’uomo dall’istruzione e dall’educazione impartite loro da adulti civilizzati) Itard si fa affidare il bambino e si dedica all’impresa di trasformarlo, dall’animale selvaggio che è rimasto per colpa di certi adulti, nell’essere umano che può ancora riuscire a diventare, egli ne è certo, con l’aiuto di un adulto come lui: civile, colto e ben intenzionato.

 

Il regista

 

François Truffaut

Il commento di Luigi Scialanca

 

È un proposito generoso, quello del dottor Itard. Ma la storia di Victor non è a lieto fine. O meglio: lo è nel bel film di Truffaut, ma non nella realtà storica. Dopo qualche successo iniziale, infatti, il “processo di umanizzazione” di Victor segna il passo, rallenta, si arresta. E il medico (rivelandosi così, malgrado la propria superiorità intellettuale, umanamente non diverso da Pinel e da chi per primo si era liberato del bambino) a questo punto lo abbandona.

 

Eppure Itard aveva ragione, contro Pinel: Victor avrebbe potuto riprendere la propria crescita interiore, la propria realizzazione, e riannodare i rapporti interumani così brutalmente interrotti. Anzi: le sue qualità (di cui aveva dato ampia prova sopravvivendo ai pericoli, al dolore fisico, alle delusioni e alla disperazione in cui era stato precipitato, e poi, nonostante ciò, cercando ancora il rapporto con gli altri) non solo erano le qualità di un essere umano, ma di un essere umano di non comune levatura. E tuttavia, proprio l’umanità di Victor fu ciò che il dottor Itard non vide: osò proporsi di recuperare, dedicandosi a lui “a tempo pieno”, un bambino che la vox populi e la scienza ufficiale, rimasticando “teorie” e comportamenti vecchi di millenni, avevano ignorato, abbandonato, tentato di uccidere e infine internato, e pertanto merita che lo si ricordi come il primo ad aver intravisto, sia pur di lontano, la possibilità di una nuova immagine del bambino e dell’essere umano; ma poi ricadde (o non fu in grado di rifiutare fino in fondo) nel medesimo errore che di quelle “teorie” e di quei comportamenti era alla base: credette, cioè, che Victor potesse solo diventare umano, ma che per il momento, come tutti i bambini, non lo fosse ancora. E il suo rapporto con il piccolo, di conseguenza, non poté essere quello di un essere umano adulto con un essere umano bambino (che all’adulto si affida non per dimostrare teorie e nemmeno per “salvarsi”, ma per umano desiderio d’amore, d’interesse, di comprensione, di saggezza ed esperienza); al contrario, fu solo il rapporto di un artigiano (anche se di prim’ordine) con la materia inerte a cui si ripromette di dar forma: con qualcosa che si oppone ai suoi sforzi, cioè, e la cui resistenza egli deve vincere, ma che non può davvero amare, né riconoscere come umano, finché non è divenuto ciò che egli vuol farne.

 

Victor dovette sentirlo; la sua delusione, questa volta, fu micidiale e definitiva; ed egli lasciò la mano che per qualche tempo aveva tenuto la sua, ma che mai l’aveva stretta come un bambino ha il diritto di desiderare, e come un adulto può gioire di fare.

 

Itard, del resto, insieme a un’impressionante testimonianza del suo insuccesso, ci ha lasciato anche un’involontario riconoscimento delle cause di esso: “Andai a sedermi all’estremità della stanza,” racconta nel suo libro, “e intanto pensavo con amarezza a questo essere sfortunato, che la bizzaria della sorte avrebbe ridotto (...) ad essere relegato, come un vero idiota, in qualcuno dei nostri ospizi (...). «Sventuratogli dissi, rivolgendomi a lui come se potesse capirmi e provando davvero una stretta al cuore, «poiché le mie fatiche sono sciupate e i tuoi sforzi inutili, riprendi la strada delle foreste e il gusto della vita primitiva; oppure, se i tuoi nuovi bisogni ti costringono a dipendere dalla società, espia la disgrazia di esserle inutile andando a morire di miseria e di malinconia tra le mura di Bicetre.» Se non avessi conosciuto i limiti dell’intelligenza del mio allievo, avrei potuto credere che mi avesse pienamente compreso, perché, appena ebbi finito di pronunciare queste parole, il suo petto fu sollevato da un fremito, come gli suole accadere nei momenti di più accorato dolore, i suoi occhi si chiusero e attraverso le palpebre corse giù un torrente di lacrime.” Parole terribili, la cui insensibilità e stoltezza si commentano da sole.

 

Il bambino umano (reso “selvaggio” non da un’inesistente sua “natura” non umana, ma dall’abbandono) era uscito dal bosco e aveva cercato un adulto, che fosse almeno altrettanto umano di lui, con il quale riannodare il rapporto che altri adulti, essi sì disumani, avevano selvaggiamente troncato. Aveva creduto di averlo trovato nel dottor Itard, e l’aveva ricompensato con un amore profondo, che in poco tempo lo aveva reso capace (lui, che il 9 gennaio 1800 era ridotto al punto di non reagire al suono della voce umana) di comprendere pienamente i sentimenti del suo maestro pur senza capirne le parole. E tuttavia non era stato ricambiato. Accudito, educato, istruito certamente sì, e con un’abnegazione di cui ben pochi insegnanti sono capaci; ma non amato. E invece è l’amore, nel rapporto con i bambini umani, che fa la prima e fondamentale differenza tra il successo e il fallimento. Tutto il resto, dal sapere alla competenza alla passione, benché senz’altro necessario, non è sufficiente.

 

Ma si può amare un bambino, se non lo si crede umano? A ciò che non è umano (a un cucciolo, a una collezione, a un bell’oggetto) si può, certamente, affezionarsi. Si può volergli bene. Ma amarlo no.

 

Eppure il momento, benché né Victor né altri bambini potessero saperlo, sembrava favorevole (per la prima volta nella Storia) al riconoscimento dell’umanità dei piccoli umani: dichiarazioni d’indipendenza e costituzioni, fondate su almeno quattro secoli di riscoperta e di approfondimento del valore intrinseco dell’essere umano, avevano appena proclamato, da una parte e dall’altra dell’Atlantico, i diritti dell’uomo in quanto tale. Si poteva dunque sperare che l’aggettivo “umano” venisse finalmente accordato, a partire dal suo venire alla luce, a ogni essere che fosse nato di donna. E invece no. Nessuno degli Illuministi, che pure avevano forgiato le idee e le parole dei rivoluzionari che si battevano per quei diritti, capì che la nascita umana, di per sé, è già sufficiente a fare un essere umano. Pensarono e proclamarono che nessuno nasce schiavo o servo, questo sì, e cioè che tutti nascono uguali. Ma umani no, assolutamente no: umani, anche dopo gli Illuministi, si continuò a dover “diventare”.

 

E il paradosso non potrebbe essere più bizzarro: poiché, se le cose stessero davvero così, la nostra uguaglianza non si fonderebbe sulla nostra identica natura umana (che ci accomunerebbe a dispetto delle differenze sociali, economiche e culturali) ma sul fatto diametralmente opposto che tutti, dal Re di Francia fino all’ultimo Ottentotto, nasceremmo non umani! E che il Re di Francia, dunque, se dopo la nascita non ci si fosse occupati di lui, non sarebbe diventato meno selvaggio dell’ultimo Ottentotto.

 

Alla nascita, scrivevano infatti gli Illuministi, tutti noi non siamo che statue dotate di sensi, o bestiole, o tutt’al più piccoli selvaggi. Ma tutti, ciò nonostante, possiamo diventare umani, purché coloro che lo sono già (vale a dire gli adulti civilizzati) ci elargiscano e impongano l’educazione e l’istruzione che rendono tali, e che pertanto, proprio perché nessuno ha maggior titolo di altri a riceverle, non possono e non devono esser negate ad alcuno. E auspicavano, quindi, che mediante una rivoluzione o una serie di riforme fossero resi umani in primo luogo la Società e lo Stato, affinché cessassero, a loro volta, di riconoscere solo ai bambini privilegiati il diritto di elevarsi.

 

Nessun Illuminista, nel chinarsi benevolmente verso un bambino o un popolo, vide mai dinanzi a sé uno o più esseri umani. Vide materia grezza da plasmare, e su di essa si mise all’opera con grande zelo e fervore. Di conseguenza, poiché si ispirava a una fantasticheria che non aveva alcun nesso con la realtà dell’oggetto del rapporto, la sua opera non poté che fallire. E quando la colpa del fallimento, più o meno consapevolmente, fu attribuita dai rivoluzionari al popolo stesso e dal dottor Itard al bambino, la “soluzione” fu il Terrore giacobino per l’uno e l’abbandono per l’altro.

 

Anche dopo il 1776 e il 1789, dunque, i piccoli dell’uomo continuarono a sparire nelle tenebre della foresta non appena venivano alla luce. Hänsel e Gretel, più sfortunati, continuarono a essere abbandonati e uccisi; mentre le “bestioline” e i “mostriciattoli”, più o meno sopportabili a seconda di quanto era appannata la vista dei grandi che toccavano loro in sorte, continuarono a essere sottoposti ai più vari trattamenti “umanizzanti”. Non di rado così severi da rasentare la ferocia.

 

Ma l’anno 1800 non trascorse invano, in fondo, poiché vide l’apparire sulla scena della Storia, nella persona del dottor Jean Marc Gaspard Itard, di un tipo di adulto che ancora non si era mai visto (o che non si era più visto da tempo immemorabile): un adulto che, pur continuando pervicacemente a non riconoscere l’umanità dei bambini, tuttavia li considera degni d’interesse.

 

La vicenda del bambino selvaggio dell’Aveyron, al di là di come andò nella realtà e di quanto Truffaut sia riuscito a capirla e a raccontarla, ci permette una scoperta fondamentale...

 

Noi dobbiamo stare con gli altri, continua a gridare Victor a due secoli dalla sua uscita dalla foresta, per sviluppare e realizzare la nostra umanità. Non ce la possiamo fare da soli. Però non sono gli altri che ci fanno diventare umani. Lo siamo dal momento in cui veniamo al mondo. Tant’è vero che, anche se abbandonati alla nascita, privati di ogni rapporto e precipitati nella più infelice delle condizioni, rimaniamo sempre capaci, purché troviamo qualcuno che ci ami, di riprendere il cammino interrotto.

 

Fin qui, però, la scoperta regalataci da Victor, anche se importantissima da un punto di vista scientifico, può sembrare un po’ astratta, lontana da noi che siamo sempre stati circondati dall’affetto dei nostri cari. Ma questa impressione si dissolve non appena ci accorgiamo, pensandoci un po’ meglio, che nessuno, invece, può affermare con sicurezza di non essere mai stato un bambino selvaggio.

 

Chi può dire di aver avuto sempre il meglio dalla vita e dagli altri? Chi non ha mai conosciuto, neanche per un attimo, l’abbandono, l’incomprensione, la delusione, lo smarrimento? Chi può giurare di non essersi mai trovato, neanche per un istante, sperduto in una buia foresta come il piccolo Victor?

 

In questo senso si può ben dire che, quantunque alla nascita siamo tutti pienamente umani, poi qualcosa di “selvaggio” si forma a poco a poco in ognuno di noi. Ma attenzione: questo qualcosa di “selvaggio” non ci condanna a diventar selvaggi davvero. E non ci giustifica se lo diventiamo.

 

Non ci condanna perché il mondo non è mai del tutto buio e deserto, e perciò possiamo sempre trovarvi qualcuno con cui curarci, come Victor con Itard (o meglio con l’Itard di Truffaut) di quel tanto d’insensibilità e d’ignoranza che le nostre esperienze “selvagge” hanno depositato in noi.

 

Non ci giustifica perché, per quante possiamo averne passate, se poi ci rassegniamo e non speriamo e non cerchiamo più qualcosa di meglio, vuol dire che la vera foresta buia e deserta in cui ci aggiriamo siamo noi stessi, e che perciò non possiamo dar la colpa che a noi, se non ne veniamo mai fuori.

 

Quel ch’è certo è che non è vero che le sofferenze e le privazioni rendano forti. Le sofferenze e le privazioni, in realtà, rendono selvaggi e insensibili: cioè forti tutt’al più come animali, ma debolissimi come animali umani. Eppure sono molti, nonostante tutto, quelli che riescono a rimanere umani, e che possono compensare i “selvaggi” dagli abbandoni subìti. Per trovarli, basta guardarsi intorno.

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Le migliori domande dei bambini sul film

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(Le schede di Spiegare un film a un bambino sono per bambini e ragazzi di Quinta elementare, Prima, Seconda e Terza media.

Sono scritte, perciò, il più semplicemente possibile. Ma non sono affatto... semplicistiche.

Vuoi servirtene? Fai pure. Ma non spezzettarle, non alterarle e non dimenticare di citarne l’autore!)

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