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Ricordi Immaginari - Spiegare un Film a un Bambino

 

Il verdetto

 

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Titolo: Il verdetto.

Titolo originale: The verdict.

Regista: Sidney Lumet.

Scrittore: Barry Reed.

Sceneggiatore: David Mamet.

Paese di produzione: U.S.A..

Anno di produzione: 1982.

Attori principali: Paul Newman (Frank Galvin), Charlotte Rampling (Laura Fischer), Jack Warden (Mickey Morrissey), James Mason (Edward Concannon), Milo O’Shea (giudice Hoyle), Lindsay Crouse (Kaitlin Costello Price), Ed Binns (vescovo Brophy), Julie Bovasso (Maureen Rooney), Roxanne Hart (Sally Doneghy), James Handy (Dick Doneghy), Wesley Addy (dottor Robert Towler), Joe Seneca (dottor Lionel Thompson), Lewis J. Stadlen (dottor David Gruber).

Durata: 2h 09’.

 

Il regista

 

Sidney Lumet

 

Il film

 

Frank Galvin è un avvocato che si è dato all’alcol da quando è stato calunniosamente coinvolto in un caso di corruzione. Si è ridotto a correr dietro alle cause di risarcimento per incidenti automobilistici (è diventato, cioè, quello che negli Stati Uniti chiamano un “cacciatore di ambulanze”) e non ha più rispetto per sé stesso: la sua antica immagine di difensore dei deboli e degli accusati ingiustamente è distrutta, cancellata dal fango che gli hanno gettato addosso e dalle troppe volte che anche lui l’ha sporcata per disperazione o per fame. Ma ecco che un vecchio collega gli offre una possibilità: la difesa di una povera ragazza, in coma da quattro anni per la disattenzione degli anestesisti di un ospedale cattolico.

 

L’arcivescovo di Boston, proprietario della clinica, per evitare lo scandalo offre ai parenti della vittima duecentomila dollari. Ma Galvin, recatosi all’ospedale per scattare alla donna qualche foto che lo aiuti a tirare sul prezzo, scorge attraverso l’obiettivo della macchina fotografica ciò che i suoi occhi non riuscivano più a vedere da molto tempo: un altro essere umano. E per lui, a partire da quel momento, niente è più come prima: non solo perché è costretto da ciò che ha visto a rammentarsi che un essere umano non lo si può né comprare né vendere, e quel che si fa in suo nome non può dunque avere altro obiettivo che la trasformazione in meglio della sua esistenza e del mondo; ma anche perché si rende conto che la vita non gli concederà altre occasioni di ritrovare sé stesso, se sprecherà anche questa. Costi quel che costi, egli dev’essere all’altezza di ciò che ha intuito: perché quella ragazza, in un certo senso, è lui stesso; e lo stato in cui l’hanno ridotta non è diverso da quello in cui hanno messo lui.

 

Regista non sempre all’altezza del capolavoro (La parola ai giurati) con cui esordì nel 1957, Sidney Lumet toccò con Il verdetto l’apice della carriera. Merito anche del romanzo di Barry Reed da cui il film è tratto, della sceneggiatura di David Mamet, e di attori perfetti per i loro ruoli e uno più bravo dell’altro: da Paul Newman, intenso interprete del protagonista, a Charlotte Rampling, bellissima e inquietante, a James Mason, cinico avvocato della difesa, a Jack Warden, amico fedele, a Milo O’Shea, giudice indegno, fino all’ultimo caratterista: ognuno si impegna nel film, indipendentemente dall’importanza della sua parte, con la stessa passione con cui Frank Galvin difende la sua assistita.

Il commento di Luigi Scialanca

 

Non è una lotta ad armi pari, quella di Frank Galvin contro l’arcivescovato di Boston e il suo ospedale: è una battaglia fra un essere umano e un’organizzazione. Fra un uomo libero, dotato “solo” d’immaginazione, generosità e intelligenza, e un’istituzione molto ben provvista di mezzi finanziari, di un’immagine pubblica prestigiosa, di influenti amicizie... e di un’arma quasi imbattibile: l’anaffettività.

 

Un’istituzione (nel senso negativo del termine) è un’associazione di individui (il cui numero può variare da due a milioni) il cui fine principale (quale che sia, e anche se benefico) non è la felicità di chi ne fa parte ― né quella delle donne, degli uomini e dei bambini all’esterno di essa ― ma tutt’altro.

 

Un essere umano, infatti, non può mai essere considerato un mezzo per arrivare a qualcos’altro. Un essere umano non può essere che il fine di un’azione. Un essere umano, cioè, non possiamo usarlo. Neanche per scopi positivi. Che egli (e noi con lui) siamo felici e stiamo bene da esseri umani, che la sua (e la nostra) umanità siano incoraggiate e rafforzate da quel che facciamo insieme, e che la sua (e la nostra) vita ne siano quindi migliorate, sono i primi e principali obiettivi di ogni azione da noi intrapresa con lui. Altrimenti, pur valide azioni avranno effetti rovinosi, nobili obiettivi risulteranno impossibili da raggiungere e i nostri rapporti ne saranno danneggiati e forse perfino distrutti, o comunque non riusciranno mai a essere felici, ricchi e creativi quanto possono esserlo i rapporto interumani.

 

Ma cosa significa che un essere umano non può essere usato? Forse che un bambino non dovrebbe “usare” i genitori per aver di che vivere e vestirsi, e magari anche per ottenerne una “paghetta” settimanale? O che un imprenditore non dovrebbe impiegare uomini e donne per produrre merci e realizzare profitti? No. Vuol dire che la paghetta e i profitti non sono il primo scopo di quei rapporti umani, ma tutt’al più il secondo. Che il primo fine di un bambino, quando va a chiedere la paghetta al papà, è quello di trascorrere con lui qualche bel momento, che ad entrambi renda più piacevole la giornata; che il primo fine del rapporto fra un imprenditore e i dipendenti (e di tutti loro verso di noi) è che sia felice la parte delle loro vite che passeranno insieme, impegnati in quella cosa importantissima (ma meno importante del rapporto che la rende possibile) che è la produzione di beni e servizi per le vite degli altri.

 

Quando due o più esseri umani si uniscono per far qualcosa, dunque, lo fanno per star bene insieme, per essere felici facendola, e per avere un buon rapporto anche con ogni altro che entrerà in contatto con la loro (provvisoria o permanente) associazione. È questo il fine principale. Gli altri vengono dopo. E saranno raggiunti tanto più e tanto meglio quanto più sarà stato perseguito e realizzato il primo.

 

Se, invece, due o più si uniscono per far qualcosa e lo mettono prima e al di sopra dello star bene insieme, ciò che ne risulta, più che un rapporto interumano, è un’istituzione: un oggetto inanimato, privo d’immaginazione e di generosità, ma dotato di forza e intelligenza umane, che procede sulla sua strada come un carro armato soffocando chi vi si chiude dentro e schiacciando chi incontra fuori.

 

Vale per due bambini che giocano: lo fanno per divertirsi. Vale per un uomo e una donna: stanno insieme per essere felici, prima di tutto, e poi per far figli, metter sù un’azienda o magari formare una fantastica coppia di ballerini di tango. Vale per la Scuola: la si fa perché quelli che la frequentano facciano esperienza di un insieme ricco e appagante di relazioni umane, e poi perché imparino certe cose e si procurino un titolo di studio. Vale per ogni azione che voglia restare umana. E vale, naturalmente (per tornare a Il verdetto, a Frank Galvin e all’arcivescovato di Boston) anche per un ospedale.

 

Un ospedale si costruisce e si manda avanti perché stia bene chi ci lavora e chi vi si reca. Per farli stare bene, tutti, nel corpo e nella mente. Chi lavora in un ospedale, perciò (quale che sia il suo ruolo) dovrebbe uscirne, la sera, stanco per il duro lavoro, talvolta addolorato per le sofferenze a cui ha assistito o che non è riuscito a fra cessare, ma sempre felice e sempre migliore per aver fatto parte di un insieme di uomini e donne impegnati ad agire da esseri umani, fra loro e verso gli altri. Se invece ne esce in altro modo, o è colpa sua (che non sa, forse, come si sta e si lavora con i propri simili) oppure è colpa dell’ospedale, che in tutto o in parte pone altri obiettivi prima e al di sopra di quello.

 

Questo sogna, desidera e si propone chi si prepara a essere medico o infermiere. O a svolgere qualsiasi altro compito nella Società. E questo ha il diritto di aspettarsi un essere umano entrando in un ospedale per essere curato o in qualsiasi altro luogo perché ci si occupi di lui e dei suoi problemi.

 

L’ospedale dell’arcivescovato di Boston (ma anche molti altri, temo) non è, quindi, una società del tutto umana. È un’istituzione (nel senso negativo del termine). E qual è, allora, il suo fine principale? Arricchire gli azionisti? Garantire ai medici una buona carriera e un lucroso stipendio? Un grande prestigio professionale e scientifico? O forse è quello di continuare semplicemente a esistere? Di sopravvivere e basta, come una belva che si ciba di esseri umani? Non lo so. È quasi impossibile appurarlo con certezza, e in fondo non è importante. Poiché, perfino se il suo obiettivo fosse proprio quello di curare gli ammalati, l’ospedale sarebbe comunque condannato a schiacciarli, se vedesse e perseguisse solo o soprattutto la cura, e non, invece, la felicità di chi viene lì a riceverla e di chi collabora a prestargliela.

 

Come l’ospedale, sono istituzioni anche l’arcivescovato e il grande studio legale che ne cura gli interessi. Perfino la sorella e il cognato della povera ragazza che l’ospedale ha ridotto in coma per negligenza, perfino il loro piccolo rapporto a due è in parte un’istituzione e si comporta come tale, quando aggrediscono Galvin perché non ha accettato i duecentomila dollari che l’ospedale offriva loro per metterli a tacere. Poiché anche una famiglia, come ogni altro rapporto, può cadere nella trappola di mettere qualcos’altro al di sopra dell’umanità e della felicità dei suoi componenti.

 

Ma torniamo all’avvocato Galvin. La sua, dicevo, è la lotta di un uomo libero contro un’istituzione. Ma non lo è fin dal primo momento. All’inizio, infatti, Galvin è pronto ad accettare i duecentomila dollari e a rinunciare alla causa. È pronto, cioè, a entrare a far parte dell’istituzione. A lasciarsi fagocitare da essa. A venderle la libertà e l’umanità, e a tramutarsi nella rotella di un ingranaggio.

 

(Perché? Un uomo non può fare la rotella in un ingranaggio? Sì. Ma soltanto se è una rotella umana, trattata come tale da altre rotelle umane, e in un ingranaggio il cui primo scopo sia di far stare umanamente sia le “rotelle” che tutti quelli in cui s’imbatte. Altrimenti, meglio restarne fuori. Anzi: se l’ingranaggio è gravemente disumano, perfino esserne schiacciati è meglio che farne parte).

 

Galvin, infatti, ha pagato duramente per aver osato sfidare un’istituzione. Forse perché era troppo giovane, quando tentò di farlo, e non ancora padrone dell’esperienza e del metodo senza i quali non si vincono battaglie così impari. L’hanno licenziato con una falsa accusa. Nessuno studio legale ha più voluto assumerlo. L’hanno ridotto a fare il “cacciatore di ambulanze”. Ed egli non è riuscito a resistere: si è disperato, ha ceduto dentro, ha creduto di essere davvero l’individuo spregevole che gli altri insinuavano che fosse (il Don Chisciotte pazzo, il “pollo” che non ha capito il mondo, il fallito che ha sbagliato tutto, o addirittura il malvagio che vuol far sentire in colpa gli altri: sono tante le calunnie che colpiscono chi tenta di restare umano e libero) e ha cominciato a trattare sé stesso come se fosse tale.

 

Ma non è riuscito a distruggersi. È ancora in tempo, può ancora ritrovare sé stesso. Ed è ciò che accade quando si reca all’ospedale per fotografare la ragazza in coma.

 

Cosa succede, in quel momento? Cosa cambia?

 

È il momento centrale del film. Fino a ora, Frank Galvin ha pensato e guardato quella ragazza come pensa e guarda sé stesso da anni: senza rendersi conto di pensare a un essere umano, senza rammentare cosa un essere umano significa davvero. Anche adesso, seduto davanti al suo letto in ospedale, egli la osserva con attenzione, certo, ma non la vede. E poi, invece, quando la guarda attraverso il mirino della macchina fotografica, ecco che Frank Galvin, a un tratto, la vede davvero.

 

Allora tutto cambia, per lui: quando vede e sente cos’è, davvero, non un essere umano qualsiasi, di cui si legge in un libro o in un giornale, o che si vede in tv, o del quale si spunta il nome sul registro di un’istituzione, ma quello lì in carne e ossa, che è dinanzi a lui ora, e che a un tratto gli riempie la mente gridando: “Vedi? Senti? Mi hanno ridotto così male, che non sarò mai più un essere umano! Ho solo te, al mondo! Solo tu vedi e senti! Nessun altro! Se mi annulli, ti ridurrai come hanno ridotto me!”

 

Ma le istituzioni sono più forti degli uomini liberi che le sfidano. I liberi, infatti, non possono fare tutto contro le istituzioni, poiché i loro atti sono sempre del tutto umani. Altrimenti i liberi non sarebbero più tali: diverrebbero identici alle istituzioni che si proponevano di combattere. E allora, anche se vincessero, niente cambierebbe: sarebbe come se fossero stati sconfitti. E l’istituzione, con qualche rotella in più, continuerebbe a esistere per sempre, come l’Overlook Hotel, e a fare quello che ha sempre fatto.

 

Gli uomini liberi combattono contro l’istituzione “con una mano legata”: non possono, cioè, comportarsi in modo disumano. Mentre l’istituzione, cieca all’umanità di chi è in essa e di chi è fuori, si è tramutata in uno “schiacciasassi”: non vede più gli esseri umani come fini della sua azione, ma come mezzi per ottenere ciò che vuole. E dunque può combattere con ambo le mani, coi piedi, con le unghie e coi denti: può fare ciò che vuole. E spesso, forte di una falsa ma convincente immagine di sé, riesce addirittura a “mettersi l’anima in pace” opponendo, a chi la guarda e la rimprovera inorridito, l’anaffettività camuffata da calma, la rigidezza travestita da dignità, e la faccia da scemo, spacciata per onesta e in buona fede, di chi è persuaso di fare il proprio dovere. È questa, l’arma segreta delle istituzioni.

 

Le istituzioni sono più forti, sì, e vincono spesso. Ma non sono imbattibili. Hanno anch’esse un tallone d’Achille: sono fatte di esseri umani, non di robot. Non di rotelline metalliche, ma di uomini e donne in carne ed ossa. Ed essi, a volte, fingono di essere e di comportarsi come l’istituzione vuole, ma poi, in segreto, quando nessun controllore li osserva e son sicuri di farla franca, si comportano invece come gli esseri umani che sono ancora: “pèrdono” un po’ di tempo a trattare con gentilezza un paziente; “sprecano” un po’ di denaro pubblico perché abbia la cura giusta e più valida, invece di quella per la quale sono state pagate “tangenti”; si trattano reciprocamente con onestà, anziché sorvegliarsi a vicenda in attesa del momento buono per giocarsi un brutto tiro e far carriera gli uni sulla pelle degli altri. E tutto questo (attenzione) non lo fanno per sacrificarsi, perché altruisti e missionari, perché amano il prossimo o perché l’ha detto Gesù (poiché, se lo facessero per motivi simili, ancora una volta metterebbero al primo posto qualcosa di diverso dall’umana gioia) ma solo per star bene con sé stessi e con gli altri, per vivere almeno qualche minuto, durante le ore di lavoro, non come in una prigione da cui scappare al più presto, ma da esseri umani. Poiché il vero “bene”, l’unico che funziona e che ha davvero buoni effetti su chi lo riceve, è quello che si fa perché ci si diverte, si sta bene e si è felici facendolo.

 

Quando nelle istituzioni ci sono ancora donne e uomini così, le istituzioni possono essere sconfitte. E Frank Galvin, proprio nel momento in cui la battaglia contro l’ospedale dell’arcivescovato di Boston, lo studio legale Concannon e il giudice Hoyle sembra perduta, ha questa fortuna: incontra un essere umano che è rimasto tale: una giovane donna “che desiderava diventare un’infermiera”, e che invece è stata costretta a rinunciarvi dalla disonestà e dalla prepotenza dell’ospedale.

 

Era lei l’addetta all’accettazione, la sera in cui fu ricoverata la ragazza che poi entrò in coma. E lei, che amava il suo lavoro e quindi lo faceva bene, correttamente scrisse sull’apposito modulo che la ragazza aveva mangiato da poco. Ma i medici non se ne accorsero, e somministrarono alla paziente una dose di anestetico che in quelle condizioni le fu fatale. Commisero, cioè, un errore che non si può commettere né in un ospedale né in alcun altro luogo: inflissero a un essere umano un danno che lo privò dell’umanità. E poi, per non assumersi la responsabilità del crimine (per non fare, cioè, la sola cosa che poteva curarli dalle conseguenze psichiche di averlo commesso) ne distrussero l’unica prova costringendo la giovane donna “che desiderava diventare un’infermiera” a correggere il modulo d’accettazione da lei compilato. Fecero di lei una loro complice, si tramutarono in ganasce dell’istituzione e la azzannarono e divorarono. Non solo per sfuggire alla giustizia, ma per agire come sempre agisce l’uomo istituzionale contro chi non lo è: tentando di fargli perdere l’umanità e verità sue, e di farne una copia di sé stesso.

 

Se ci fossero riusciti, la giovane donna sarebbe stata per tutta la vita una rotella come tante altre dell’ingranaggio massacratore di quell’ospedale. Ma le cose andarono diversamente, poiché la giovane donna conservò il modulo alterato nonostante fosse ormai una prova anche contro di lei. Al contrario dei medici, cioè, ella volle ricordare, soffrire e pagare per il crimine commesso, e così facendo rimase umana. Infelice, è vero, ma ancora umana. E pronta, perciò (a differenza dei suoi oppressori) a riprendere posto fra gli umani se mai le si fosse offerta l’occasione di rimediare a ciò che aveva fatto.

 

E l’occasione arriva: gliela offre l’avvocato Galvin. Che forse si riconosce, in quella giovane donna, vedendola piangere nel dire che “desiderava solo essere un’infermiera”. Che forse riconosce in lei una sorella del giovane uomo che aveva desiderato essere un avvocato, e che invece era stato spinto fin sull’orlo dell’autodistruzione da individui come quelli che l’avevano fatto a lei. Da chi non desidera più (o forse non ha mai desiderato) essere medico o avvocato o qualsiasi altra cosa, ma solo una rotella.

 

Con l’aiuto della giovane donna “che desiderava essere un’infermiera”, Frank Galvin, uomo libero e armato solo di fantasia, generosità e intelligenza, vince la battaglia contro l’istituzione. E vince senza diventare come l’istituzione e senza lasciarsi fagocitare da essa, ma restando umano. Poiché il fine principale della sua azione contro l’ospedale e l’arcivescovato non è il risarcimento dei danni (come se fosse possibile risarcire danni di quel genere) e neppure la vittoria della giustizia, ma il “desiderio di essere un avvocato”: il puro e semplice piacere, la gioia di sentire, “dentro” di sé, l’umana e bella immagine che ha in mente e nel cuore chi difende i deboli e gli oppressi dai prepotenti.

 

Un’altra giovane donna, Laura Fischer, non lo crede possibile. Crede che l’istituzione non possa essere sconfitta. Crede che lui, Frank, non sia che un Don Chisciotte pazzo, un “pollo” che non ha capito il mondo, un fallito che ha sbagliato tutto, o addirittura un malvagio invidioso che vuol far sentire in colpa chi è arrivato più in alto di lui. Crede che lei, se restasse dalla sua parte, farebbe la stessa “fine”. Crede a stupide e feroci banalità come queste, la poveretta, anziché alla splendida intuizione che in un primo momento l’ha spinta fra le sue braccia. E perciò lo tradisce.

 

Giustamente, quindi, dopo la vittoria, Frank non risponde al telefono, quando Laura lo chiama. Se l’azione da lei compiuta non ha causato una catastrofe, infatti, è solo per un colpo di fortuna (grazie, cioè, all’esistenza della giovane donna che “desiderava essere un’infermiera” e al fatto che Galvin l’ha trovata) e non può, dunque, esserle perdonata: come il crimine commesso dai medici contro la paziente che si era affidata a loro, l’azione di Laura avrebbe potuto ricacciare Frank Galvin, e questa volta per sempre, nel “coma” della disperazione da cui stava riuscendo finalmente a riemergere.

 

Ma è proprio vero che non la si può perdonare? Su Laura, Il verdetto... non pronuncia alcun verdetto: possiamo immaginare quel che più ci piace, circa il futuro del suo rapporto con Frank Galvin.

 

Anche l’amico di Galvin, Mickey Morissey, che lo ha sempre sostenuto e per un lungo periodo è stato l’unico che gli sia rimasto accanto, a un certo momento è lì lì per cedere:

 

“Coraggio...” gli dice, quando tutto sembra perduto. “Ci saranno altre cause!”

 

Se Galvin gli desse retta, la frase “affettuosa” dell’amico e la sua accondiscendenza verso di essa si tramuterebbero in reciproche colpe irrimediabili: anche il loro rapporto diverrebbe un’istituzione, ed entrambi andrebbero incontro alla rovina. Ma Galvin gli resiste:

 

“Non ci sono altre cause!” esclama. “C’è questa causa.” E lo ripete, come per impedirsi di pensare ogni altra cosa: “Non ci sono altre cause. C’è questa causa. Non ci sono altre cause. C’è questa causa...”

 

Come per dire a sé stesso: “Non è domani che devo farcela. È ora”.

 

Il passato, infatti, non si può più cambiare. E il futuro non c’è ancora. Solo ora, dunque, esistiamo e possiamo agire. Solo ora possiamo essere come è bello essere.

 

(P.S.: Le battaglie contro le istituzioni non si possono combattere che umanamente. Ogni altro modo di affrontarle, infatti, si ritorce contro l’umanità di chi lo adotta. Ma questo implica, di necessità, che la giustizia, cioè gli uomini e le donne che la amministrano, devono essere del tutto liberi da ogni altro potere, e non sottoposti che alla legge. Cosa che non è affatto, ne Il verdetto, il giudice Hoyle).

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(Le schede di Spiegare un film a un bambino sono per bambini e ragazzi di Quinta elementare, Prima, Seconda e Terza media.

Sono scritte, perciò, il più semplicemente possibile. Ma non sono affatto... semplicistiche.

Vuoi servirtene? Fai pure. Ma non spezzettarle, non alterarle e non dimenticare di citarne l’autore!)

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