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Helga Schneider

 

Heike riprende a respirare

 

2008 - Adriano Salani Editore, Milano

 

 

"Heike riprende a respirare", di Helga Schneider

 

Quante vite dopo la pace finisce la guerra?

Helga Schneider, "Heike riprende a respirare", Adriano Salani Editore.

La copertina del libro.

Andavano a zonzo per strade tranquille bordate di rovine. A un certo punto raggiunsero uno spiazzo sterrato dove si era accampata una piccola comunità di zingari. Si avvicinarono incuriosite. Un uomo grosso, tarchiato, coi capelli neri e la barba lunga e incolta, le squadrò a gambe larghe chiedendo da dove venissero.

“Dalla... scuola” rispose Heike, spaventata.

Nel frattempo erano state circondate da donne con i capelli arruffati che indossavano lunghe gonne colorate e da bambini sporchi che le fissavano a bocca aperta. C’erano tra loro due gemelle, ognuna delle quali stringeva al petto mezza bambola di celluloide: a una era toccato il pezzo dal tronco in giù, all’altra quella dalla vita in su, con le braccia, anzi, un solo braccio, e con la testa calva.

A un tratto l’uomo con la barba gridò: “Voi figlie di Hitler! Voi razziste e assassine!”

La donna gli disse: “Sono solo ragazzine...”

 

 

(dal capitolo 1)

Un sole gentile ricopriva ogni cosa di riflessi splendenti, togliendo un po’ di malinconia al volto ferito della città.

Heike camminava in preda a sentimenti opposti: ansia per l’imminente impatto con la chaise longue sulla quale aveva visto l’ultima volta la madre, e gioiosa tensione per il ritorno del padre. Nello stesso tempo si rendeva conto che avrebbe dovuto giustificare la sua fuga soprattutto con Frau Anna che sicuramente era stata in pensiero per lei. Forse era stata addirittura costretta a segnalare la sua sparizione alla polizia militare sovietica. E a scuola cosa avevano pensato? Forse l’insegnante aveva chiesto informazioni a Clara Faun e lei non era stata in grado di fornirne.

Spossata dalla crescente tensione, si fermò per riprendere fiato. Fissò il tappeto di polvere che si stendeva sulla strada, sgomberata alla meno peggio dai detriti per permettere il transito delle automobili; infine osservò i suoi sandali, nei quali intuiva piedi tutt’altro che immacolati. Malgrado la penuria di acqua, la mamma aveva insistito sull’importanza dell’igiene, non solo per mantenere intatto il senso della dignità umana, ma anche per prevenire certe malattie che trovano il terreno idoneo per diffondersi proprio nella sporcizia.

Continuava a sentirsi molto nervosa, così si sedette sulla carcassa di un veicolo militare che aveva perso i vetri e le ruote, e la cui carrozzeria era crivellata di colpi di mitragliatrice. Mentre cercava di calmarsi si tolse i sandali. Aveva i piedi molto sporchi. Doveva assolutamente trovare il modo di lavarli. Decise di raggiungere la pompa pubblica della quale lei e la madre si erano servite per procurarsi l’acqua potabile. Il posto non era lontano e ci si avviò.

Per due volte si fermò lungo il cammino, distratta dalla vista delle tombe, semplici tumuli con croci fatte di rudimentali assi su cui si leggeva il nome e l’età del defunto. Su una croce era appoggiato un elmetto da soldato. Era appartenuto a un ragazzo di nemmeno tredici anni, poco più grande di lei.

A un tratto un uccellino si posò sull’elmo, sbirciando Heike con occhietti vispi. Non sembrava impaurito dalla sua presenza.

Hallo” fece lei. Nel suo giardino era abituata a parlare con gli uccelli. La bestiola depose uno schizzo di escrementi sull’elmetto e volò via.

Sentì tossire al suo fianco e, girando il capo, vide un anziano con la faccia scarna e lo sguardo triste.

“Era mio nipote” spiegò l’uomo, accennando alla croce.

“Così giovane...” fece Heike.

“Negli ultimi tempi della guerra il glorioso capo della Germania ne aveva mandati al macello anche di più piccoli” fu l’amara risposta.

Tacquero per qualche momento, poi lo sconosciuto le pose una mano sulla spalla: “Eccoci qui, due sopravvissuti nella città dei morti. Il mondo ci deride, sai?”

“Perché”

“Per aver creduto in un ridicolo ometto privo di qualsiasi senso morale, un autentico pericolo pubblico che voleva sterminare le razze che non gli garbavano e che odiava tutto ciò che era giusto e umano.”

Sfiorò l’elmetto con un gesto di infinita tenerezza: “Era un ragazzo splendido che amava il suo Führer più della propria madre. E gli ha dato la vita.

“Mi dispiace” disse Heike con sincerità.

“Lo so, bambina” fece l’altro, “ma tu non hai colpa. Che Dio protegga le nuove generazioni” e se ne andò senza voltarsi indietro.

Heike indugiò ancora per qualche momento davanti all’elmetto, poi proseguì verso la pompa. Costeggiò qualche misera bottega che esponeva gli avvisi che questo o quello, pane, polvere di uova, il surrogato di caffè o i piselli secchi erano esauriti o non ancora arrivati. Un negozio annunciava il prossimo arrivo di cacao in polvere. “Che roba sarà?” si domandò ingenuamente.

Alla pompa c’era una piccola fila. Rammentò che la mamma si era raccomandata di non bere altra acqua se non quella della pompa pubblica, perché molti berlinesi si erano ammalati di dissenteria. In giro si vedevano cartelloni che esortavano la popolazione a bere solo acqua bollita.

Finalmente toccò a lei. Rapidamente si tolse i sandali, si lavò i piedi non trascurando le gambe e le braccia, ma quando giunse al viso, una megera dietro a lei la spinse brutalmente da parte: “Ora basta, zingarella, tornatene al tuo carrozzone!”

Un paio di donne protestarono per la maleducazione con la quale l’altra aveva trattato Heike, ma lei preferì andarsene per non causare ulteriori complicazioni.

 

Giunta al cancello, per un attimo si sentì senza respiro. Riprese fiato. Infine entrò decisa nel giardino.

Subito la gatta le venne incontro miagolando contenta. Si chinò per farle una carezza. “Ehi, Mauzi! I gattini stanno bene?” Ma ancora non riusciva a guardare verso la cantina e il pensiero della chaise longue vuota le causò momenti di profonda sofferenza.

Dopo essersi fatta forza, raggiunse il melo. Diede un colpetto al fusto e disse: “Sono tornata e non andrò più via. Sei contento?”

Come era già successo altre volte, una foglia cadde dall’albero scivolando lentamente lungo la sua guancia come una carezza.

Poi si sedette ai suoi piedi, le serviva ancora del tempo. Mauzi le si strusciò sul fianco, fece le fusa e le annusò una gamba. La punta del suo naso umido provocò a Heike un brivido familiare.

Finalmente si decise. Si alzò, scosse via la terra dal vestito, fece un profondo respiro e si diresse verso la cantina.

Per qualche attimo indugiò ancora sui gradini che conducevano di sotto, erano pieni di polvere, perché nessuno li aveva più spazzati. Mauzi l’aveva accompagnata e ora la guardava attenta con i suoi occhi gialli, quasi fosse consapevole del momento importante che stava vivendo la padroncina.

Heike le sorrise: “D’ora in poi tutto andrà bene, non sono più sola.”

E aggiunse fra sé e sé: “Ci consoleremo insieme della morte della mamma, il papà e io, vivremo come due veri amici. Io mi occuperò della casa e lui sarà di nuovo un bravo agronomo. E prima o poi farà ricostruire la casa.”

Così rincuorata scese e aprì la porta che cigolava un po’, come lo squittio dei topi. Notò subito che le tende scure, che la madre aveva messo alle due piccole finestre perché al risveglio la luce non fosse troppo forte, erano state abbassate. Poi lo vide.

Era nell’ombra, immobile, seduto sul bordo della chaise longue. Heike si avvicinò in punta di piedi: “Papà?”

Lui la contemplò in silenzio.

“Papà...” ripeté, chinandosi verso di lui per baciarlo, ma ne ebbe in cambio un gesto come a volerla respingere.

“Per favore, alza quelle tende” disse l’uomo invece, accennando a una delle finestre. Heike era rimasta raggelata, ma ubbidì.

Ritornata dal padre lo guardò, in attesa che succedesse qualcosa. “Sei cresciuta” disse lui.

Gli attimi scivolavano via lenti. Heike avrebbe voluto gettarsi al suo collo, ma non osava.

“Come hai potuto scappare via in quel modo?” lo sentì infine chiedere, dopo un lungo silenzio opprimente. Il tono era duro, severo: “E ringrazia il cielo che Frau Anna non ha segnalato la tua sparizione alla Kommandantur sovietica! Voglio sapere dove ti eri nascosta!”

“Da... certe persone” rispose lei con tono distaccato.

Quali persone? Non abbiamo parenti in questa città!”

“Non le conoscevo.”

“Ti sei nascosta da estranei?”

“Mi hanno dato da mangiare e...”

A un tratto il padre si alzò, le sembrava più basso di quanto ricordasse.

“Neanche fossi una vagabonda! E non hai pensato che avresti dovuto essere presente al funerale di tua madre?”

“Io... non potevo.”

“Non ti sembrava giusto accompagnare tua madre al cimitero? Sei la sua unica figlia.”

Heike tacque, atterrita.

Per un po’ l’uomo la fissò interdetto, poi cominciò a camminare avanti e indietro nella cantina. Lei lo osservò con un improvviso senso di stanchezza: questo non era il padre che aveva sognato.

Lui si sedette infine al tavolo e disse: “Frau Anna è stata molto in pensiero per te, ti vuole sinceramente bene. È andata a parlare con la tua insegnante. Grazie al cielo in questo mondo impazzito la morte di una madre rappresenta ancora una giustificazione valida per l’assenza della figlia. Ma domani mattina devi ritornare a scuola, siamo intesi!”

Poi balzò dalla sedia come se non trovasse pace e si diresse verso una specie di credenza che la moglie aveva costruito assemblando assi e altro materiale trovato fra le macerie della rovina. Aprì l’unico sportello e trovò la bottiglia di vodka ancora piena per un quarto. La stessa bottiglia che la donna aveva messo sul tavolo dicendo a Frau Anna di averla rubata alla signora per cui faceva le pulizie. Prese un bicchiere e si servì.

Heike aveva seguito le sue mosse, le mosse di uno sconosciuto. Non lo vedeva da circa due anni, ma non era più lo stesso uomo. Perfino la voce era cambiata, era diventata ruvida, un po’ metallica. Quasi avesse assorbito qualcosa del tono tagliente dei capi che lo avevano comandato in guerra.

Dopo essersi versato altre due volte da bere, il padre tornò a sedersi ed esortò la figlia a fare altrettanto. Ora sembrava più calmo.

“Lo sai che quasi non ti riconoscevo più?” disse, facendole un mezzo sorriso, ma lei non lo ricambiò. Non ci riusciva.

“Così siete vissute qui, tu e la mamma...” lui continuò, ma non terminò la frase.

Lei annuì.

“Mi aspettavi?”

“Sì... papà.” La parola papà le usciva a fatica.

“Ti ho deluso?”

“No...” mentì.

Ci fu una pausa.

“Ma la mamma...” abbozzò lui infine.

Heike intuì la domanda: “Io so perché lo ha fatto.”

Lui sembrò indeciso se continuare su quell’argomento o lasciar perdere.

“Ma mi ha lasciata sola!” precisò lei con improvvisa veemenza, reprimendo uno scoppio di pianto.

“Lo so” rispose il padre con un tono a un tratto più morbido, consapevole.

Tacquero per un altro poco, poi lui domandò: “E a scuola come va?”

“I russi ci danno il semolino” rispose lei, non sapendo cos’altro dire.

“Il semolino...” ripeté l’uomo con una risatina sarcastica. “È il minimo che possono fare dopo aver distrutto la nostra città!

Vuotò il bicchiere.

Frau Anna mi ha raccontato...” accennò infine, ma si arenò. Si schiarì la gola gettando alla figlia uno sguardo incerto, imbarazzato.

“Di quella cosa che i russi hanno fatto alla mamma?” fece Heike, rapida.

Il padre abbassò la testa e batté i pugni serrati sul tavolo. Poi si chiuse in un lungo silenzio. La bottiglia era quasi vuota.

“Papà...” mormorò infine Heike, accorata.

“Sono qui...” rispose lui come se stesse tornando da un’assenza fisica. “Così avete trascorso l’ultimo inverno qui dentro?

Heike cominciò a raccontare di come avevano scambiato al mercato nero l’anello di fidanzamento della mamma con una stufa economica a legna. La legna l’avevano raccolta andando in giro per rovine.

“Un prezioso diamante per una stufa economica!” esclamò l’uomo, costernato. Poi rimase di nuovo assente fissando la superficie del tavolo. Heike ne approfittò per osservarlo meglio.

Indossava una giacca grigia un poco sgualcita, almeno due taglie troppo grande, e sotto portava una maglietta di cotone verde militare. Era magro a tal punto che gli zigomi sporgevano vistosamente nel volto.

A un tratto si accorse che la figlia lo guardava e disse: “La guerra cambia le persone, Heike.”

Lei replicò gentile, intuendo che avesse voluto giustificare non solo il suo aspetto, ma anche il suo comportamento: “Non fa niente, papà. Mi basta che sei tornato. La guerra è finita e non dovrai più partire per il fronte.”

“Già” rispose il padre. “La guerra è finita e io non ho più niente.”

“Hai me, papà” disse la figlia con forza.

Tutto a un tratto lui si mise a piangere come un bambino. Pianse a lungo, arrestandosi infine con un singhiozzo, che gli uscì come se stesse soffocando.

Heike aveva aspettato il papà perché la facesse sentire protetta e al sicuro. Perché la consolasse della morte della mamma e della fame che aveva patito e del terrore dei bombardamenti e della distruzione della loro casa, mentre ora sentiva di dover essere lei a consolare il padre.

Si alzò, aggirò il tavolo e lo baciò sulla guancia.

“Non piangere” disse col tono che a volte la mamma aveva usato per darle conforto. “Non piangere, papà, tu non sei solo, hai me. E sarò brava e pulirò sempre la cantina e imparerò a preparare il pranzo e la cena e laverò i piatti e strapperò le erbacce nell’orto e tu poterai gli alberi e...

Il padre la interruppe con un gesto brusco della mano.

“Non poterò mai più un albero!” annunciò, risentito. Poi si alzò, si sdraiò sulla chaise longue e si addormentò.

 

 

(capitolo 4)

 

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Helga Schneider

Helga Schneider

Helga Schneider

 

Helga Schneider è nata in Polonia e ha vissuto in Germania e in Austria. Dal 1963 risiede in Italia. Oltre a Heike riprende a respirare, ha pubblicato Porta di Brandeburgo (Rizzoli, Milano, 1997), Il rogo di Berlino (Adelphi, Milano, 1995), Il piccolo Adolf non aveva le ciglia (Rizzoli, Milano, 1998) e Lasciami andare, madre (Adelphi, Milano, 2001).

 

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