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Francis Scott Fitzgerald

 

28 Racconti

 

Traduzione di Bruno Oddera

 

1960 - Arnoldo Mondadori Editore

 

 

Francis Scott Fitzgerald, "28 Racconti" - "Babilonia rivisitata" - "L'assoluzione", traduzione di Bruno Oddera, Milano, 1960, Arnoldo Mondadori Editore

 

Spreco e violenza hanno in comune l’annullamento degli esseri umani.

 

Francis Scott Fitzgerald, "28 Racconti" - "Babilonia rivisitata" - "L'assoluzione", traduzione di Bruno Oddera, Milano, 1960, Arnoldo Mondadori Editore

La copertina del libro.

Babilonia rivisitata

 

Rovinato dalla crisi economica, Charlie Wales, di trentacinque anni e “piacevole aspetto” ma con “una ruga profonda tra gli occhi” (ai bei tempi uno dei masters of the Universe della Borsa di New York: “una specie di clan reale, quasi infallibile, circondato da un che di magico”) si sta piano piano riprendendo: è di nuovo “in affari”, questa volta nell’Europa dell’Est, dove gli hanno affidato la rappresentanza di “un paio di ditte” (“laggiù non mi conoscono”, dice: sa che altrimenti non si fiderebbero) e comincia a rivedere un po’ di denaro: non ancora la ricchezza fuor di misura dei giorni delle “banconote da mille regalate a orchestre per aver suonato un singolo pezzo” o delle “banconote da cento messe nelle mani di un portiere per aver chiamato un tassì” ― niente a che vedere con quegli “anni pazzi”, per il momento ― ma abbastanza soldi per sentire “le porte del mondo di nuovo spalancate”.

Per questo ha la forza, dopo tre anni, di tornare a Parigi, dove “ai tempi delle quotazioni in rialzo” si era “ritirato” a sperperare i milioni accumulati in America: perché da un anno e mezzo non beve (“solo un whisky ogni pomeriggio, non una goccia di più”, e anche quello “volutamente, per impedire che la fantasia attribuisca un’importanza esagerata all’idea dell’alcool”); perché “gli affari vanno a gonfie vele”; perché, insomma, “le cose sono cambiate, sono cambiate radicalmente”; e soprattutto perché Charlie ― un uomo nuovo: che ha sofferto e fatto soffrire, ma sente di essersi riscattato dalla pazzia di quegli anni ― vuole ritrovare l’unica persona “che per lui abbia importanza”, l’unica che gli è rimasta: Honoria, una bambina di nove anni che non lo vede da quando ne aveva sei. Da quando Charlie si diede alla fuga, dopo la morte della moglie, lasciando la figlia agli zii materni.

Anche Parigi è cambiata, da prima della crisi. Locali quasi deserti, pullman turistici semivuoti, la notte buia perfino a Montmartre, maître che al passaggio di Charlie si fanno sulla porta a invitarlo dentro, gli “amici” di un tempo scomparsi ― chi gravemente malato, chi dileguatosi seminando assegni a vuoto, chi tornato in America a cercare di rifarsi una vita... Nei ritrovi, solo “giovani donne dalla voce stridula”: “Niente le tocca,” pensa Charlie. “Le azioni salgono o crollano, la gente ozia o lavora, ma loro continuano, imperterrite, come sempre”. Lui invece, che “non ha mai mangiato in un ristorante realmente economico di Parigi”, ora “per qualche strano motivo vorrebbe averlo fatto”.

Ed è ora, nel rammaricarsi di essere tra quelli che non sanno cos’è un ristorante economico, che Charlie comprende, sentendo l’“improvviso provincialismo” della città, (“ora che ci sono così pochi americani in giro”, dirà Marion, la cognata che da tre anni fa da mamma a Honoria, “almeno puoi entrare nei negozi senza che ti credano milionario”) che quello che non c’è più non se n’è solo andato: è stato sprecato. E non per caso, non per il gusto di sprecare, ma perché sprecare significava “annullare”: tutto quel denaro “non è stato dato via per niente; è stato dato, anche la somma sperperata nel modo più pazzo, come un’offerta al destino, perché a Charlie fosse concesso di dimenticare le cose più degne di essere ricordate, le cose che adesso ricorderà sempre... la bambina tolta alla sua autorità di padre, la moglie rifugiatasi in una tomba del Vermont”. Comprende, insomma, con disperato orrore, di “averla guastata lui, per sé, quella città: non se n’era accorto, mentre i giorni si susseguivano gli uni agli altri, e poi, a un tratto, ecco che se n’erano andati due anni: ecco che tutto se n’era andato, compreso lui”.

Ma è proprio così? Charlie e gli altri (i “padroni dell’Universo” degli “anni pazzi”, quelli che “in ultimo”, con la crisi ormai incombente, “non lavoravi neppure e non facevi che arricchire sempre di più”, arricchire e sperperare) davvero le hanno guastate soltanto per sé, le città e le nazioni, o anche e soprattutto per i milioni di donne e di uomini e di bambini che con sé hanno trascinato nella rovina?

Chissà: forse, in un certo senso, è così. Poiché gli altri, le vittime, non solo sono sopravvissuti, ma in qualche modo stanno meglio di lui. Anche ora che Charlie si è ripreso, e già guadagna “il doppio di loro”, gli altri, quelli che ricchi non sono mai stati e nella crisi “hanno tirato avanti risparmiando il centesimo” ― la cognata “dagli occhi preoccupati”, che ha perduto la “bellezza fresca” di prima; suo marito, Lincoln, per tutta la vita un impiegatuccio (o almeno così pare a Charlie, che “si domanda se non possa far qualcosa per toglierlo alla routine della banca”); i due figli, che a scuola non vanno bene: possibile che Marion e Lincoln li abbiano trascurati per Honoria, orfana e abbandonata per colpa del padre? ― tuttavia in qualche modo stanno meglio di Charlie. Poiché da loro “fa caldo, è una casa, persone vicine accanto al fuoco”. I bambini, anziché trascurati, “si sentono molto al sicuro e importanti; la madre e il padre sono seri, vigili. Hanno da fare, per i figli, cose più importanti della sua visita. Non che siano persone insignificanti e noiose, ma si trovano nella morsa della vita e delle circostanze”. E in quella “morsa” non solo “la vita”, non solo “le circostanze”: tutto, a parte la “bellezza fresca”, è più difficile sprecare e annullare. Ecco perché stanno meglio di Charlie, quelli che non hanno mai neanche immaginato di poter essere ricchi come lo è stato lui, e come forse sarà di nuovo ora che la crisi sta forse passando.

Non tutti, però. Stanno bene, pur nella “morsa”, quelli che come Marion (e in parte suo marito) hanno sempre diffidato, sempre rinfocolato l’antipatia che fin dall’inizio li ha divisi da Charlie e da quelli come lui (“le persone di quel genere la sconvolgono fisicamente”, dice Lincoln della moglie, e certo non si riferisce a Charlie... ma in fondo sì, si riferisce anche a lui). Quelli che hanno sempre odiato Charlie e gli altri masters of the Universe, e contro di loro “hanno eretto un muro”. Mentre Helen, la sorella di Marion, che di Charlie s’innamorò perdutamente, e lo sposò, e fece una figlia con lui, e alla fine per lui è morta ― “era malata di cuore”, dice Charlie, poiché sa bene che è morta di crepacuore ― Helen e quelli come Helen non stanno meglio, non sono sopravvissuti: sono morti. Di chi stava con Charlie e gli voleva bene, si è salvata solo sua figlia, che ancora lo ama malgrado tutto. Ma solo perché Lincoln e Marion l’hanno presa con sé, nella “morsa”, togliendola a Charlie e a quelli come lui. Quelli che dalla “morsa” erano “liberi”. “Liberi” di sperperare, di disperdere, di non ricordare. Di annullare.

Ora Charlie ha capito. E rivorrebbe Honoria con sé ― finché ancora è in tempo, per i pochi anni che mancano a quando Honoria “crescerà e conoscerà qualcuno della sua età, e lo sposerà, e dimenticherà di aver avuto un papà” ― rivorrebbe la figliola da lui abbandonata e resa orfana (“non potrò mai dimenticare, finché vivrò”, lo rimprovera Marion, “la mattina in cui Helen venne a bussare alla porta di casa mia, bagnata fino alle ossa e tremante di freddo, e disse che tu l’avevi chiusa fuori”. E Charlie, che ora sa, e ricorda, e forse ha finito di sperperare, non può non riconoscere che sì, è vero, prima della crisi lui e quelli come lui “chiudevano fuori nella neve le mogli” poiché la neve degli anni pazzi “non era neve reale: se non si voleva che fosse vera neve, bastava sborsare un po’ di denaro” e andarsene, “liberi” dalla “morsa” delle mogli e dei figli, col gran codazzo appresso di quelli che come cani seguivano i “padroni dell’Universo”: “le persone incapaci di fare una somma o di mettere insieme una frase coerente; l’ometto con cui Helen aveva accettato di ballare alla festa a bordo del transatlantico, e che l’aveva offesa a tre metri dal tavolo; le donne e le ragazze trascinate fuori dai locali pubblici, strillanti nell’ebbrezza dell’alcool e degli stupefacenti... gli uomini che chiudevano fuori nella neve le mogli...”) poiché, ora che tutto questo è sparito, cosa è rimasto a Charlie del mondo che un tempo spendeva e sprecava come se ne fosse il padrone? Solo Honoria, solo sua figlia. È lei “the Universe”, adesso, ma lui non ne è il padrone. È lei, è l’amore di sua figlia ― salvata da Marion e Lincoln, gente comune, di quelli che hanno sempre “tirato avanti risparmiando il centesimo” ― è il rapporto con Honoria il solo mondo in cui l’ex “padrone dell’Universo” esiste ancora, ancora può fare, ancora è un essere umano, non “un fantasma improvvisamente emerso dal passato”. Poiché l’amore del padre per la figlia non è come l’amore della figlia per il padre. Non lo è mai, non può esserlo, ma in particolare non lo è per questi due: ché l’amore di Honoria è l’amore gratuito di una bambina che ha già tutto poiché non ha ancora cominciato ad annullare e forse mai comincerà (benché il padre si dica certo che “crescerà e conoscerà qualcuno della sua età, e lo sposerà, e dimenticherà di aver avuto un papà”), mentre quello di Charlie per lei è l’amore disperato di chi ha sperperato e annullato tutto, letteralmente tutto ― ha tramutato il mondo in denaro e l’ha speso ― ma per un’inconcepibile, immeritata fortuna ha riavuto salva la figlia, nonostante lui, grazie a due di quelli che ha sempre disprezzato: un uomo e una donna “qualsiasi”, una “qualsiasi” mamma, un “qualsiasi” lavoratore.

Riuscirà Charles J. Wales, di Praga ― uomo forse nuovo, che forse ha più niente a che fare coi Charlie Wales di Wall Street e di Parigi, non beve più, non sperpera, forse non annulla, e “nella bianca, morbida luce che si diffonde all’alba su chi è in bilico tra il sonno e la veglia si sorprende a parlare di nuovo” alla moglie che abbandonò nella neve ― riuscirà a riavere la figlia, a metter sù casa con lei, a “far venire la sorella dall’America” perché lo aiuti, a “non soffocare in alcun modo la personalità” della bambina, a “non amarla troppo”, “con un attaccamento eccessivo”, a “proteggerla” (“si sentiva travolto da un’ondata possente di desiderio di protezione”), a “immettere in lei una piccola parte di sé prima che ella si cristallizzi del tutto”, e però anche ad “aver fede nella sua personalità in quanto elemento eternamente valido”?... Sì, sono belle le immagini, belli i pensieri di Charlie sull’unica realtà al mondo, sua figlia, nella quale egli ancora esiste dopo aver “guastato, per sé,” tutto il resto. Ma egli riavrà Honoria soltanto se riuscirà a render belle le immagini, belli i pensieri su di lui degli altri, di coloro che hanno il potere di restituirgliela o no. E se vi riuscirà o meno vogliamo che sia il lettore di queste righe a scoprirlo da sé, leggendo questo meraviglioso racconto che narra la crisi economica, e ne comprende per intero l’immensa complessità, e la spiega, come nessun altro scrittore ha mai fatto.

 

Lo storico, naturalmente, ne parla in modo diverso...

“In questo clima psicologico e politico, nel pieno di una prosperità in cui alcuni punti d’ombra parevano trascurabili (zone di disoccupazione, eccessi nelle speculazioni finanziarie, aumento della criminalità) viene trionfalmente eletto alla presidenza degli Stati Uniti un repubblicano. [...] Non è facile individuare con esattezza tutte le cause della crisi che, partita dall’America, coinvolse quasi immediatamente i paesi europei e investì con ondate successive il resto del mondo. Le interpretazioni «ufficiali» mettono l’accento sulla folle corsa alle speculazioni finanziarie e borsistiche e sullo spirito d’avventura di improvvisati uomini d’affari statunitensi, (...) che certamente contribuirono ad accelerare i tempi della crisi; ma la sua forza distruttiva e le sue estese ripercussioni risulterebbero in parte inspiegabili se non si tenesse conto: 1, del carattere «subalterno» al capitale americano del capitale europeo, latino-americano, asiatico; 2, delle tendenze economiche prevalenti nel decennio precedente la crisi: scarsi investimenti nei maggiori settori produttivi (...), scarso o fittizio incremento del potere d’acquisto (scarsità camuffata dall’esplosione delle vendite rateali), permanere di una estesa disoccupazione o sottoccupazione, politica di bassi salari; 3, della quasi totale assenza, negli USA come in Europa, di un efficace controllo da parte dello Stato sul sistema bancario privato (ciò che permise alle banche di impegnarsi in iniziative imprenditoriali utilizzando il denaro dei risparmiatori e di manovrare i titoli azionari di cui erano in possesso lanciandosi in imprese speculative azzardate). Solo in questo quadro, che è tuttavia lungi dall’essere completo, possono valutarsi le premesse della crisi” che privò del lavoro decine di milioni di persone in tutto il mondo, spinse sull’orlo del fallimento decine di migliaia di imprenditori e falcidiò le economie di milioni di risparmiatori”.

Ricostruzione esatta, valida, interessante. Ma lo storico non dice tutto, e lo ammette. Manca quel di più che per vederlo, o quanto meno intuirlo, si ha da essere anche “artisti”. Non aver troppo intorbidato, cioè, il “fondo” immaginoso e creativo che è per nascita in ognuno di noi. E poter scorgere, così, o almeno intuire, anche la “neve” in cui i Charlie Wales (poiché tanto “non è neve reale: se non si vuole che sia vera neve, basta sborsare un po’ di denaro”) abbandonano le mogli, le figlie, e milioni di Marion e di Lincoln che “tirano avanti risparmiando il centesimo”. Credendosi, i Charlie Wales, i padroni del mondo. Mentre un mondo, anche se piccolo, può averlo e serbarlo soltanto chi non si fida di loro.

P.s.: Il lettore si sarà reso conto fin dalle prime righe, naturalmente, che la crisi di cui si parla è quella ― cosiddetta ― del ‘29 (che in realtà durò dieci anni e permise al fascismo italiano di dilagare nel nazismo tedesco, e al nazismo di gettare il mondo nella guerra mondiale e nella Shoah). E che i testi citati sono Babilonia rivisitata, bellissimo racconto di Francis Scott Fitzgerald del 1931 (Francis Scott Fitzgerald, 28 racconti, traduzione di Bruno Oddera, Milano, 1960, Arnoldo Mondadori editore) e la Storia contemporanea di Rosario Villari (Rosario Villari, Storia contemporanea per le scuole medie superiori, Bari, 1970, Editori Laterza). Un “manuale” su cui studiarono molti ragazzi della mia generazione. Un manuale ormai “superato”, certo, come no. Anzi: “rottamato”. Da quelli che delirano che perfino la Storia “non sia Storia reale: se non si vuole che sia vera, basta sborsare un po’ di denaro” e andarsene, “liberi” dalla “morsa”, col gran codazzo appresso di quelli che come cani seguono i “padroni dell’Universo”.

 

*

 

Il sacerdote e il ragazzino

 

C’era una volta... ― comincia così, come una fiaba, il racconto Assoluzione che Francis Scott Fitzgerald scrisse nel 1924 a ventotto anni: C’era una volta un sacerdote dagli occhi freddi e umidi che, nel silenzio della notte, versava fredde lacrime. E c’era un ragazzino bellissimo e molto vivace, dell’età di undici anni, che un pomeriggio entrò nella sua stanza stregata...

“Padre” Schwartz (così si chiama il sacerdote dagli occhi freddi: dal tedesco schwarz, nero, come del resto lo sono tutti) esce il meno possibile dalla stanzetta in cui cerca una piena unione mistica con Nostro Signore. Ma in estate ― è estate, infatti, per sua disgrazia ― dalle quattro del pomeriggio al crepuscolo una calda follia lo raggiunge anche lì: un profumo di saponette a buon mercato, un fruscio di fanciulle svedesi sul sentiero accanto alla sua finestra, la terribile dissonanza delle loro risa argentine, il terribile frumento del Dakota che gremisce la valle del Fiume Rosso... “Padre” Schwartz, allora, prega a voce alta affinché scenda presto il crepuscolo. E poiché la preghiera non ha effetto, angosciato ― è la vita che lo angoscia, e nella vita soprattutto i segni insopprimibili della presenza umana ― abbassa lo sguardo sul disegno del tappeto e porta la sua mente a cupe meditazioni in labirinti grotteschi.

Finché, un pomeriggio, alla porta della stanzetta ― che è stregata dal cupo meditare del “padre” l’unione con Dio e il perdersi dei rapporti umani in labirinti grotteschi ― bussa un ragazzino bellissimo e molto vivace di undici anni, a nome Rudolph Miller.

Perché bellissimo?, non possiamo non domandarci, sùbito inquieti. Non c’è che “padre” Schwartz nella stanzetta, dunque è per lui che Rudolph è bellissimo. Lo sarebbe anche per noi, ché i bambini sono tutti bellissimi. Ma poiché lo è, invece, soltanto negli occhi freddi del “padre” (dove non dovrebbe, poiché il “padre” è angosciato da quel che è umano e bello) come non spaventarci? Dato che qui, in questo mondo, c’è “padre” Schwartz, la bellezza di Rudolph non può più essere una delle infinite umane bellezze delle quali noi, i lettori, siamo felici come del frumento maturo del Dakota o della dissonanza delle risa delle fanciulle: in un mondo in cui a trovarlo bellissimo ci sono gli occhi freddi di un “padre” Schwartz, la bellezza di Rudolph ci fa temere per lui.

Entra dunque nello studio del “padre” un ragazzino bellissimo e molto vivace, e il “padre”, sorprendendosi a fissare i suoi occhi accesi da puntini splendenti di luce color cobalto, è spaventato dalla loro espressione. Ma poi si accorge che il piccolo visitatore è in uno stato di abietta paura, e questo ― che in noi accresce l’inquietudine ― nel prete ha un effetto tranquillizzante: nel mondo capovolto di “padre” Schwartz, la bellezza di un ragazzino è angosciosa e spaventosa, la sua abietta paura rassicurante.

Qualche tempo prima, entrato in un granaio, Rudolph aveva udito un tale e una ragazza dirsi cose impure e li aveva ascoltati sentendosi pulsare forte i polsi per una strana, romantica eccitazione. Per un mese, dopo, era riuscito a non andare a confessarsi. Ma un sabato suo padre lo aveva agguantato per il collo mentre giocava: “Vacci subito” aveva detto. “Non tornare finché non ti sarai confessato.” E Rudolph aveva dovuto ubbidire, poiché non ci sono vie di fuga per un bambino, quando i genitori sono dalla parte delle ombre nere: si era recato in chiesa, era entrato nella grande bara collocata perpendicolarmente del confessionale, dove “padre” Schwartz lo attendeva sotto forma di smorta ombra immobile dietro la grata, e aveva confessato per primi i “peccati” più lievi, i più facili da ammettere. Poi quello di non credere di essere il figlio dei suoi genitori ― “Hai pensato, vuoi dire, di valere troppo per poter essere il figlio dei tuoi genitori?” aveva domandato il “padre” ― e infine, con uno sforzo, l’episodio del granaio. Ma dei polsi che pulsavano forte non era riuscito a parlare. E nondimeno, quando “padre” Schwartz alla fine gli aveva chiesto se non avesse detto bugie, Rudolph aveva risposto: “Oh, no, padre, non dico mai bugie.” Ma non era vero: non aveva parlato dell’eccitazione che lo aveva pervaso; e perciò, negando di aver detto bugie, si era macchiato di un peccato terribile: aveva mentito in confessione.

Sul momento, tornando a casa di suo padre (non a casa sua: di suo padre) sollevato di essere passato dalla chiesa opprimente a un aperto mondo di campi di frumento e di cielo ― lo stesso frumento del Dakota che per “padre” Schwartz è terribile ― Rudolph aveva rinviato la piena consapevolezza di ciò che aveva fatto. Poi, riempiendosi i polmoni d’aria pungente, aveva ripreso il proprio vero nome, Blatchford Sarnemington ― il nome di un bambino che vale troppo per poter essere Rudolph Miller, figlio dei suoi genitori ― e come Blatchford era entrato nell’angoletto segreto della sua mente in cui era al sicuro da Dio, in cui architettava i sotterfugi con i quali, non di rado, truffava Dio; e celato in quell’angoletto aveva riflettuto sul modo per meglio evitare le conseguenze della bugia. E lo aveva trovato: il giorno dopo, avendo sulla “coscienza” il “peccato” di aver “mentito” in confessione, doveva a tutti i costi evitare la comunione. Troppo grande sarebbe stato il rischio a cui si sarebbe esposto se avesse fatto infuriare Dio fino a quel punto: la comunione fatta senza essersi purificata l’anima gli si sarebbe tramutata in bocca in veleno ed egli avrebbe dovuto allontanarsi insozzato e dannato per sempre dalla balaustra dell’altare. Bisognava, dunque, che l’indomani mattina bevesse acqua “per sbaglio”, ponendosi così, secondo le leggi della Chiesa, nell’impossibilità di ricevere quel giorno la comunione.

(Da bambini non si può non imbrogliare Dio, se si ha cuore sé stessi, la salute mentale, la sopravvivenza psichica e talvolta anche fisica. Ma come imbrogliare, bambini, il sentimento di bassezza insinuato fin dai primi anni dall’idea di Dio? Sia la schiavitù, che sembra alleviarlo, sia la ribellione, che sembra liberarne, invece lo accrescono: senza il genio dell’immaginazione, senza un atto creativo più potente dell’onnipotente ― Dio non c’è, nel mondo che è il mio ― dal labirinto non si esce).

Suo padre, però, lo aveva scoperto. Carl Miller ― un uomo che due cose legavano alla vita: la fede nella Chiesa Cattolica Romana e una mistica adorazione per James J. Hill, il costruttore dell’Empire; non il figlio, no, né un qualsiasi altro animale umano o non umano realmente esistente: per vent’anni egli aveva vissuto solo con il nome di Hill e con Dio, e per tutta la vita non aveva fatto che rielaborare decisioni prese da tempo da altri: mai aveva saggiato nelle proprie mani l’equilibrio di una sola cosa ― Carl Miller aveva udito un suono furtivo giungergli dalla cucina, era stato in ascolto, la leggerezza dei passi gli aveva detto che non si trattava di sua moglie, e allora, con la bocca lievemente socchiusa ― immagine del godimento di chi ha scoperto, prima o poi, che colpire e ferire e uccidere almeno col pensiero nel nome di Dio è l’unico sollievo possibile dal sentimento della propria bassezza, se non si esce dal labirinto ― si era precipitato giù per le scale e aveva spalancato la porta della cucina.

Sorpreso col bicchiere in mano, Rudolph, tradito, come ogni innocente dinanzi all’aguzzino, dalla sincerità della propria immaginazione, aveva commesso uno sbaglio: aveva detto di essersi dimenticato di dover fare la comunione ― e questa, come sappiamo, era una bugia ― ma che non aveva ancora bevuto neanche una goccia d’acqua: e questa era la verità ma lo costringeva a comunicarsi, cioè a indurre in tentazione i fulmini ricevendo il Corpo e il Sangue del Cristo con il sacrilegio nell’anima. E così era stato aspramente redarguito per una negligenza di cui non era colpevole ― Se sei così smemorato da non ricordare la tua religione, aveva detto suo padre, bisognerà fare qualcosa di drastico al riguardo. Cominci col trascurare la tua religione e sùbito dopo diventi un bugiardo e un ladro, e allora ti aspetta il riformatorio! ― mentre per la sincerità la sua situazione non era migliorata in alcun modo. Sincerità incompleta, certo ― irrisoria, anzi: non aveva bevuto, solo questo aveva detto a suo padre di tutto ciò che gli era accaduto e lo tormentava, solo questo minuscolo pegno era riuscito a pagare alla sincerità di cui il rapporto tra un padre e un figlio (come potrebbe essere) era colmo nella sua immaginazione ― ma come avrebbe potuto dire tutto, come essere così pazzo da fare come se non fosse vero Dio e fosse vero il padre ideale che non esisteva che nella sua immaginazione? Sarebbero state percosse feroci, lo sapeva, e ― ciò che più paventava ― sarebbe stata la ferocia selvaggia, sfogo dell’uomo incapace (cioè dell’uomo reso impotente dal disprezzo religioso per sé stesso) che dietro le percosse si sarebbe celata.

Eppure la lealtà di Rudolph verso il padre era stata totale, alla fine, anche se solo entro i confini del rapporto con lui, quando un’enfasi non voluta nel tono di voce di quest’ultimo ― E in chiesa, prima di fare la comunione faresti bene a inginocchiarti e a chiedere a Dio di perdonare la tua sbadataggine ― aveva agito come una sostanza catalizzatrice con la confusione e con il terrore del bambino: un’ira sfrenata e orgogliosa si era gonfiata in lui, egli non l’aveva nascosta (così manifestando al padre con piena sincerità quel che sentiva) e con rabbia aveva scagliato il bicchiere nel lavandino.

Era stato brutalmente picchiato, per aver per un attimo creduto più in suo padre che in Dio: il tonfo sordo di un pugno sul lato della testa, trascinato o sollevato quando istintivamente si avvinghiava a un braccio, conscio del vivo dolore di colpi e torsioni. Aveva respinto la madre, disprezzandone la nervosa impotenza, quando ella aveva tentato di applicargli sul collo la tintura d’arnica. E poi, in chiesa, prima della comunione, lo aveva colmato una lagrimosa esultanza. Mai più sarebbe riuscito a porre con facilità un’astrazione di fronte alle esigenze della sua quiete e del suo orgoglio. Un confine invisibile era stato oltrepassato, ed egli era divenuto consapevole del proprio isolamento... conscio del fatto che esso si applicava non solo ai momenti in cui era Blatchford Sarnemington, ma anche a tutta la sua vita interiore. Fino a quel momento, fenomeni come le “folli” ambizioni, i meschini pudori e timori, altro non erano stati se non riserve private, non riconosciute dinanzi al trono della sua anima ufficiale. In quel momento capì inconsciamente che le sue riserve private si identificavano con lui stesso: la pressione dell’ambiente lo aveva spinto sulla strada solitaria e segreta dell’adolescenza.

Così ― mentre suo padre (troppo tardi per non pensare, noi lettori, che non sia che un fatuo ghiribizzo da demente) guardandolo inginocchiarsi dinanzi all’altare si sentiva orgoglioso di lui e incominciava a essere sinceramente, e non solo formalmente, dispiaciuto di quel che aveva fatto ― Rudolph rabbrividiva udendo la campanella della comunione. Non c’era motivo per cui Dio non dovesse fermargli il cuore, aveva pensato. Nelle ultime dodici ore aveva commesso una serie di peccati mortali, uno più grave dell’altro, e stava ora per coronarli con un empio sacrilegio. “Domine, non sum dignus...”

Ma ormai era Blatchford Sarnemington per sempre, il ragazzino che valeva troppo per esser figlio di Carl Miller, e la sua vera identità era il suo isolamento: aveva preso la comunione e poi, solo con sé stesso, madido di sudore, immerso fino al collo nel peccato mortale, tornando al banco aveva udito il picchiare secco dei suoi zoccoli biforcuti risuonare forte sul pavimento e aveva saputo che era il nero veleno chiuso nel suo cuore.

Domine, non sum dignus... Il ragazzino Rudolph Miller ― il ragazzino Blatchford Sarnemington ― porta fino in fondo la ribellione comunicandosi immerso fino al collo nel peccato mortale ma... non la porta fino in fondo. Non osa il Non est Dominus, sum dignus, l’atto creativo più potente dell’onnipotente ― Dio non c’è, nel mondo che è il mio ― non osa disconoscere la creazione del mondo ricreandolo per sé senza Dio, e dal labirinto non esce. E nel labirinto dove si può andare a finire se non nelle fauci del Minotauro ― dell’uomo che la volontà di unirsi a Nostro Signore ha separato dall’essere umano ― e cioè nella stanzetta stregata di “padre” Schwartz? Dio abbandona ai “padri” i figli che i padri abbandonano a Dio, se i figli non riescono a farsi padri di sé stessi e creatori del proprio mondo.

E Rudolph infatti è lì, ora: il bellissimo ragazzino dagli occhi di smalto celeste, dalle ciglia che si aprono intorno a quegli occhi come petali di fiori, ha confessato a “padre” Schwartz il proprio peccato. [...] I gelidi, umidi occhi di “padre” Schwartz sono fissi sul disegno del tappeto [...] e dalla brutta stanza [...] si alza una rigida monotonia frantumata di tanto in tanto dai riverberi nell’aria secca del picchiare di un lontano martello. I nervi del sacerdote sono tesi fino al punto di rottura e i chicchi del suo rosario strisciano e si contorcono come serpenti sul panno verde che riveste la scrivania. Il sacerdote non riesce a ricordare cosa dovrebbe dire. Tra tutte le cose esistenti nella sperduta cittadina svedese, egli è soprattutto conscio degli occhi di quel ragazzino... gli occhi bellissimi con le ciglia che se ne staccano con riluttanza incurvandosi all’indietro come per riunirsi di nuovo a essi...

Non vi dirò cosa accade dopo. Lascerò “padre” Schwartz lì dov’è ― mi piacerebbe che il lettore di queste righe senta, ora (come ho sentito io leggendo Assoluzione) che non si può non accorrere a difesa, padre o non padre che si sia, là dove un “padre” e un bambino sono soli l’uno dinanzi all’altro, e che senza perdere un istante corra a continuare da sé queste pagine ― e aggiungerò, con Francis Scott Fitzgerald, solo che Rudolph, qualsiasi cosa accada nella stanzetta stregata, sente che le proprie intime convinzioni sono state confermate: esiste in qualche luogo qualcosa di ineffabilmente splendido, e questo qualcosa non ha niente a che vedere con Dio. E intanto, fuori della finestra, lo scirocco turchino tremola sul frumento, e fanciulle dai capelli gialli camminano con sensualità lungo strade che annodano i campi, gridando cose innocenti, eccitanti, ai giovani che lavorano nei solchi tra il frumento. Gambe si delineano sotto la cotonina non inamidata e le vesti sono calde e umide sull’orlo delle scollature. Per cinque ore la vita ardente e fertile ha bruciato nel pomeriggio. Di qui a tre ore scenderà la notte, e in tutta la regione quelle bionde fanciulle nordiche e quegli alti giovani delle fattorie andranno a coricarsi accanto al frumento, sotto la luna.

 

Vincent Van Gogh, "La Méridienne" o "La Sieste", 1890, particolare; olio su tela, 73 x 91 cm, Paris, Musée d’Orsay.

Vincent Van Gogh, La Méridienne o La Sieste, 1890, particolare; olio su tela, 73 x 91 cm, Paris, Musée d’Orsay.

 

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Francis Scott Fitzgerald

Francis, Scottie e Zelda

 

Francis Scott Fitzgerald nacque il 24 settembre 1896 a St. Paul, nel Minnesota, e morì a Hollywood nel 1940. Nato da genitori piccolo-borghesi, irlandesi e cattolici, ebbe nome dal compositore dell’inno nazionale americano. Appare chiaro, da quanto scrisse ― e da quanto nascose ― che qualche oscura e intima ferita psichica dovette farlo soffrire nei primi anni della sua vita; ma, stando a ogni apparenza, visse la “consueta” fanciullezza di un ragazzo del Middlewest cresciuto in un rispettabile mondo piccolo-borghese. Nessun ambiente avrebbe potuto opporre maggiore resistenza alle esigenze d’una intelligenza letteraria, e nessuna intelligenza sarebbe potuta essere più “letteraria” ― nel peggiore come nel miglior senso del termine ― di quella di Fitzgerald, che, nonostante ciò, profondamente appartenne a quell’ambiente. La roccia del mondo fu per lui, come per Gatsby, solidamente poggiata sulle ali di una fata. E i più sanguinosi assalti dell’esperienza non distrussero mai del tutto la fondamentale innocenza del suo cuore.

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Con due precoci romanzi ― Di qua dal Paradiso, del 1920, e Belli e dannati, del 1922 ― e due volumi di racconti, il giovane Fitzgerald, incantevole, simpatico e bello, si fece acclamare come l’interprete della giovane generazione postbellica dell’età del jazz. Approvazioni d’altro genere ― che riconobbero in lui un artista importante ― accolsero nel 1925 il suo capolavoro, Il grande Gatsby, nel quale Fitzgerald riuscì a realizzare una perfetta, ironica, trasmutazione del mondo contemporaneo, e del suo stesso spirito, nella favola poetica. Ma sul trionfante Fitzgerald, come su Gatsby, aleggiava l’ombra oscura della morte. Anni di “lussuose” dissolutezze in Riviera e al Ritz, e di infelicità coniugali ― la pazzia della moglie Zelda, che concluse la sua vita in un manicomio ― rese tanto più terribili dall’ardore febbrile del suo amore, furono seguiti da un tracollo psicologico, da un tuffo nell’alcool, nella disperazione, nei più profondi abissi degli studi cinematografici di Hollywood, nelle tenebre dell’oblio e dell’autocompatimento. Sùbito prima del naufragio, tuttavia, nel 1934, Fitzgerald riuscì a produrre un’opera lunga, tormentata, meravigliosa ma imperfetta, Tenera è la notte, nella quale il favolista si infranse la testa e il cuore contro gli elementi grezzi della sua vita che dalla favola non si lasciavano redimere.

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Poco prima della fine, cominciò a riconquistare alcune delle sue capacità e nel mondo delle luminose fiabe che lo circondava trovò il tema perfetto: L’ultimo magnate, un romanzo su Hollywood, sarebbe potuto essere il suo più bel libro; ma rimase incompiuto quando, nel 1940, la morte si impadronì di Fitzgerald fra lo stupore del pubblico, che lo credeva scomparso da anni.

 

(Dizionario biografico Bompiani degli Autori di tutti i tempi.

Stanley Geist, Francis Scott Fitzgerald)

 

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