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Alessandro Placidi

 

Divise forate

Un dossier minuzioso sulle vittime in divisa dimenticate dalla Storia

 

2016

 

David and Matthaus

 

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Alessandro Placidi, "Divise forate - un dossier minuzioso sulle vittime in divisa dimenticate dalla Storia", David and Matthaus, 2016.

 

Vittime laiche degli Anni dei sacrifici Umani

 

 

Alessandro Placidi, "Divise forate - un dossier minuzioso sulle vittime in divisa dimenticate dalla Storia", David and Matthaus, 2016.

La copertina del libro.

Vittime laiche degli Anni dei sacrifici Umani

di Luigi Scialanca

 

Si vorrebbe chiamarli belve, i terroristi. Ma le belve non hanno Dei. E non avendone, non sacrificano agli Dei i propri simili. Per darsi un Dio occorre un’immaginazione che gli animali non umani, per quel che ne sappiamo, non hanno ancora evoluto. E senza Dei, a chi sacrificarsi l’un l’altro?

Gli Dei, non esistendo, non chiedono sacrifici. Eppure ogni Dio ne ottiene: chi si fa creatore di Dei, immaginandoli infinitamente superiori a sé, non può testimoniare la sua infinita inferiorità a essi se non con il proprio e l’altrui sacrificio. Se non disprezzando e odiando, e umiliando, e talvolta uccidendo, sui loro altari, ciò che vi è di più prezioso sulla Terra: gli Esseri Umani.

Non siamo ancora riusciti a essere davvero quelli che siamo. Non ci siamo curati abbastanza, non siamo del tutto guariti. Le nostre fantasticherie, non ancora del tutto risanate, seguitano a creare Dei, a umiliarci e stravolgerci ai piedi delle nostre creazioni, a sacrificare loro noi stessi e gli altri. Ma almeno un Dio lo abbiamo cancellato, di una religione ci siamo liberati: il Comunismo.

Non è facile, per chi non crea Dei, accorgersi che in un altro, che sembra lì con lui, c’è un Dio che egli non vede perché non lo immagina. Non vi è che un modo: sentire, soffrire ― talvolta morendo ― che l’altro con cui abbiamo a che fare ci sta sacrificando. Sentire, soffrire, che l’altro con cui abbiamo a che fare non è lì con noi poiché si è messo in mente un Dio dinanzi al quale noi (e con noi perfino essi stessi, perfino i loro umani affetti) dobbiamo sparire, sacrificarci, non esistere più perché Egli sia. Sentire, come Isacco, che l’altro con cui abbiamo a che fare è Abramo, e che Abramo non è più padre né figlio, né fratello né marito, poiché non ha altro modo ― per far di sé il niente che egli vuol essere affinché il Dio sia tutto ― che render niente l’altro che per lui è tutto.

Così capimmo che il Comunismo era Dio, i suoi partiti Chiese, i leader papi, e noi, suoi adepti, umili fedeli intenti ad annullarci davanti a Lui: capendo che esso, benché inesistente e impossibile, perché sembrasse esistente e possibile era immaginato pretendere sacrifici umani. Non di tutti: i nemici erano rispettati, ché l’anticomunismo attestava l’esistenza del Comunismo come il Diavolo quella di Dio. E non tutti con eguale ferocia: milioni di Donne, di Uomini, di Bambini, ci si “accontentava” che si sacrificassero inchinandosi alla Suprema necessità storica incarnata nel partito. Ma i Non credenti e i Laici dovevano essere colpiti senza pietà: con la scomunica, l’ostracismo, l’isolamento, là dove il Dio si credeva civile, tollerante, democratico. Con la morte, là dove il potere lo svelava per quello che era.

Niente può trattenere dai sacrifici umani i possessori di insensibili Verità, una volta che abbiano ottenuto un pur minimo potere. I terroristi rossi avevano ambedue: il Comunismo, Verità rivelata in dogmi indiscutibili, e il potere delle armi che il Dio imponeva loro di usare contro chi non doveva esistere affinché non esistesse che Lui. Solo la selezione delle Vittime sembrava loro “libera”, tanto che ogni volta dovevano, razionalmente quanto delirantemente, “giustificarla” a forza di “processi” e di “verbali d’interrogatorio”. Sembrava libera, ma non lo era: i Sacrificati al Dio non potevano che essere laici, cioè Servitori dello Stato. Carabinieri, Poliziotti, Guardie di finanza, Agenti di custodia, Magistrati: esseri umani il cui agire pubblico, nella Collettività e per la Collettività, non si basa su una fede (non c’è religione di Stato né dello Stato nella Democrazia che essi servono: entrambe sono espressamente vietate dalla Costituzione) ma sulla realtà del rapporto con noi. Con noi che da essi, per una passione che si fa lavoro e professione, siamo difesi e aiutati. Esseri umani che d’impulso, non per ubbidire a un Dio, rischiano la vita per noi, che siamo inermi dinanzi a chi ci minaccia: questo sono i Servitori dello Stato. Perciò li chiamo laici. E, perciò, proprio loro erano selezionati come Vittime dai terroristi.

Non tutti i Servitori dello Stato sono così? È un’immagine idealizzata, la mia? Certo. Ma quei Servitori dello Stato ― quelli di cui Alessandro Placidi, in questo libro pieno d’amore, testimonia con appassionata semplicità le vite “normali”, da uomini che d’impulso avevano trovato posto nel mondo legandosi agli altri profondamente ― non per caso erano invece proprio così, non per caso corrispondevano in pieno a questa immagine e perfino la arricchivano: non per caso, ma poiché i sacrificatori, malgrado le raffinate quanto deliranti “motivazioni” che in precedenza o in seguito elaboravano, selezionavano proprio loro nell’attimo in cui intuivano (e sùbito annullavano) come essi erano. Poiché le Vittime sono sempre i migliori, anche se chi li uccide si convince razionalmente che siano nulla poiché devono esserlo. E chi è migliore di chi fa quel che sente per gli Altri, anziché ciò che crede di dovere a un Dio?

Non per niente i Maya sacrificavano i Bambini.

Il discorso non cambia se noi ― che fummo comunisti e ne siamo fieri, poiché lo fummo per un impulso generoso, anche se quell’impulso ci sacrificò a far di noi stessi il gregge che i nostri pastori chiamavano partito ― giustamente ricordiamo però che non tutti i terroristi erano rossi. C’erano i neri, adepti di una fede, la fascista e nazista, che è peggiore della comunista poiché è anche consapevole del proprio odio contro l’Umanità, e lo celebra. E c’erano i fratelli Savi ― narrati da Alessandro Placidi in uno dei capitoli più lancinanti di questo libro appassionato ― “geniali” anticipatori che a Mussolini e Hitler affiancavano quel Dio Denaro a cui, negli anni ’90, i suoi “insospettabili” adepti nelle tirannie finanziarie globali già iniziavano a sacrificare (a morte o alla miseria o alla schiavitù, fra le tre c’è differenza ma non tanta) centinaia di milioni di persone in tutto il pianeta. Poiché i sacrificatori umani sono molti, anche se sono una minoranza, e se chi ammazza a mano armata è una minoranza nella minoranza. E molte, e apparentemente diverse, sono le fedi di cui si fanno sicari. Ma la spietatezza ― che è odio contro l’Umano anche quando si fa chiamare efficienza e vuol farsi credere migliorista della convivenza umana ― è la stessa per tutti loro, ed è da essa che li riconosciamo.

Come identiche sono le vittime: sempre laiche, uomini e donne che come noi vogliono “solo” vivere e realizzare al meglio, gli uni in rapporto con gli altri, la comune umanità. Non per una fede. Non per un Dio. Ma poiché ci piacciamo, siamo attratti gli uni verso gli altri, sentiamo che solo insieme possiamo fare le nostre vite migliori, cioè le più umane possibili. Vittime laiche, a decine, a centinaia, a migliaia, a milioni, ieri di fedi “politiche”, oggi e da millenni di religioni, e oggi anche di un’idolatria del Denaro che è la peggiore di tutte poiché tutte le contiene, poiché le rende più forti con la potenza devastante di una ricchezza mostruosa, poiché è addirittura capace di estinguere la nostra specie, e poiché ai suoi impassibili quanto implacabili adepti appaiono laici, cioè Vittime “predestinate”, tutti gli Esseri umani (il 99%, si è detto non a caso) ai quali è sufficiente la quantità di denaro che laicamente non è che un mezzo per vivere senza preoccupazioni quel che davvero conta: restare insieme restando umani.

Ancora una volta però, nei piani deliranti della criminalità organizzata globale che sono la verità oscura dei piani deliranti delle tirannie finanziarie globali, i primi da sacrificare sono i Servitori dello Stato, gli Uomini e le Donne che fanno sì che tutti possiamo vivere e realizzare al meglio, col minimo possibile di condizionamenti negativi, lo stare insieme che davvero conta: per le mafie i Carabinieri, i Poliziotti, le Guardie di finanza, gli Agenti di custodia, i Magistrati; per le tirannie finanziarie, i Lavoratori. Ancora una volta sono i nostri Difensori le prime Vittime, per i fanatici di tutte le fedi che nell’adorazione del Denaro hanno trovato il monoteismo vero che unifica tutti gli Dei. E noi, perciò, ancora una volta dobbiamo difendere loro, per salvare con loro noi stessi. E quando non ci riusciamo, quando, contro ogni nostra resistenza, essi vengono ancora una volta sacrificati, allora dobbiamo darci anche noi una “religione”, l’unica laica, l’unica umana: la Religione della Memoria, del Ricordo delle Vittime.

Per questo la Memoria della Shoah è fatta di ogni minimo resto, di ogni stanghetta d’occhiale, di ogni ciocca di capelli, di ogni pezzetto di carta appartenuti alle Vittime: nessuna Vittima umana (a morte o alla miseria o alla schiavitù, fra le tre c’è differenza ma non tanta) può essere dimenticata. E di chi lo è stato dobbiamo almeno, per mezzo di un oggetto, di un luogo, di una lapide, ricordare che tuttavia esistette. E di chi non sappiamo neanche se esistette dobbiamo almeno poter immaginare l’esistenza e la vita come se davvero siano state: è il solo modo che abbiamo, la Memoria incondizionata, al limite addirittura “immaginaria”, per attestare che perfino una stanghetta d’occhiale, una ciocca di capelli, un pezzo di carta bruciacchiato, che perfino il “niente”, in quanto niente umano, è infinitamente più degli Dei inesistenti, quali che siano, a cui quelle Donne, quegli Uomini, quei Bambini furono sacrificati.

Alessandro Placidi, nel suo bellissimo Divise forate ― un titolo appassionatamente semplice, “normale”, che ha pudore perfino di nominarlo, l’Umano per Natura che appassionatamente difende ― ha fatto proprio questo: Religione della Memoria di Uomini che siamo noi, poiché se essi sparissero anche in noi, neanche noi saremmo più. Perciò lo ringrazio: per avermi restituito, con loro, una parte di me.

 

(Anticoli Corrado, 2-4 gennaio 2012 e 27 gennaio 2016)

 

 

 

Alessandro Placidi

Divise forate

Storie di vittime dimenticate delle Forze dell’ordine

 

Dall’Introduzione...

 

C’è chi ricorda a memoria le formazioni delle squadre di calcio, le formule chimiche oppure gli articoli delle leggi. Io ricordo senza fatica i particolari legati a un crimine: i nomi delle vittime e dei carnefici, i luoghi, le indagini, le condanne. I fattacci di cronaca nera mi hanno sempre appassionato e non saprei spiegarne il motivo. O forse sì. Ho vissuto gli anni cruciali della mia formazione, quelli dell’adolescenza, in un periodo particolare della storia recente del nostro Paese, nella città dove sono nato e ancora risiedo, Roma. Che è un teatro a cielo aperto in cui la vita offre, ogni giorno, il meglio e il peggio: c’è chi sostiene che i romani siano indolenti e indifferenti proprio per questo motivo, perché ne hanno viste talmente tante da non stupirsi più di nulla.

 

Tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta, i fumi della contestazione si stavano ormai diradando ma l’aria che si respirava era comunque intrisa di violenza. A farne le spese erano soprattutto giovani impegnati politicamente su entrambi gli schieramenti e dai quali, nella maggior parte dei casi, mi separavano soltanto pochi anni. Io ne avevo tredici quando Francesco Cecchin, militante del Fronte della gioventù, fu scaraventato giù da un muro. Lo trovarono agonizzante, in mano stringeva ancora le chiavi di casa. Morì diciannove giorni dopo, a soli diciotto anni, il 16 giugno 1979. Tuttora non si sa chi l’abbia ucciso. Passarono otto mesi e, a poca distanza dal luogo dove avvenne l’agguato a Cecchin, alcune persone si introdussero nella casa di un attivista di sinistra, immobilizzarono i genitori e attesero il suo ritorno, quindi lo assassinarono a sangue freddo a colpi di pistola. Si chiamava Valerio Verbano: era il 22 febbraio 1980, tre giorni dopo avrebbe compiuto diciannove anni. Tuttora non si sa chi l’abbia ucciso.

 

 

 

Notizie come queste erano sempre nell’aria, ti piovevano addosso mentre giocavi a pallone in cortile; mentre cominciavi a scoprire le ragazzine a una festa con gli amici, di quelle con il mangiadischi che proponeva a più non posso Figli delle stelle di Alan Sorrenti; mentre eri seduto sui banchi di scuola. Era il 16 marzo 1978, frequentavo la terza media, quando dalla finestra vedemmo dei blindati della polizia che imboccavano la tangenziale e si dirigevano verso Monte Mario, in via Mario Fani. Ho ancora impresso negli occhi, come se fosse passato soltanto qualche giorno, il volto preoccupato del professore. Che fece di tutto per rassicurarci e dopo un po’ riprese la lezione, ma non riuscì a nasconderci la gravità di quanto era accaduto. Ne fui ancora più certo tornando a casa e osservando le espressioni dei miei genitori davanti alla televisione, mentre un’edizione straordinaria del telegiornale ― all’epoca le notizie viaggiavano più lentamente e sembravano avere maggiore “peso specifico” ― stava informando l’Italia che il presidente democristiano Aldo Moro era stato rapito. Le immagini dell’eccidio della sua scorta, senza nessun filtro, riprendevano tutto l’orrore di quel teatro di sangue. Le macchine scure con gli sportelli aperti, crivellate di colpi, all’interno i corpi senza vita di chi era al volante, le facce deformate dalla sorpresa e dal dolore per una morte che era arrivata improvvisa, inaspettata e crudele. Uno degli uomini a difesa di Moro era anche riuscito a scendere ma era immediatamente caduto sotto la pioggia di colpi e ora era lì, sdraiato, al centro della strada, le braccia aperte come un Cristo senza croce. Cinque vittime in tutto, carabinieri e poliziotti.

 

Pestaggi, sparatorie, manifestazioni e lacrimogeni, violenza che entrava prepotentemente nella quotidianità, ovunque ti trovassi, qualunque fosse il tuo ruolo nella società. E io, che ero un ragazzino, non avevo modo di mettere a fuoco e valutare fino in fondo questi episodi di ordinaria follia, benché ne rimanessi colpito nel profondo, forse anche di più rispetto a molti altri miei coetanei. Si parla spesso dell’eredità lasciata da quegli anni: per chi, come me, li ha vissuti con i calzoni corti, in un’età in cui si è più impressionabili, l’eredità è stata forse una folla di domande sul senso di quelle morti, il contrasto fra la vita quotidiana del Paese e la guerra che lo attraversava, l’idea che io fossi già lì ma non potessi davvero capire cosa stesse accadendo. Ero un testimone troppo giovane.

 

 

 

Eppure, già allora, questi eventi tragici cominciarono a farmi riflettere e, per quanto possa apparire strano, a farmi pensare in modo insistente soprattutto agli agenti caduti negli agguati dei terroristi. In fondo, osservavo tra me e me, avrei potuto esserci io al posto di quegli uomini morti per tutti. Se solo avessi avuto qualche anno in più, se fossi nato in una famiglia diversa e ci fosse stata la necessità di trovare presto un lavoro, che al tempo stesso fosse onesto e mi consentisse di non gravare sul bilancio di casa, di sicuro avrei potuto pensare di indossare una divisa. Proprio come tanti ragazzi del Sud di cui leggerete nelle prossime pagine. E così mi sentivo fortunato, malgrado non fossi nato in una famiglia ricca: i miei genitori erano dipendenti dello Stato e, avendo solo me, riuscivano a far quadrare il bilancio in modo più che dignitoso. Potevo andare serenamente a scuola, più tardi persino all’università. Ma, al tempo stesso, mi chiedevo se tutto questo fosse giusto. Non avevo nulla in più, per fare un esempio, rispetto a Maurizio Arnesano, moro a diciannove anni, nel 1980, soltanto perché indossava una divisa e impugnava un mitra che faceva gola ai terroristi.

 

Intanto gli anni passavano, la società lentamente si modificava ma non il mio interesse per queste vicende che, al contrario, cresceva di pari passo: cominciai a divorare libri di vario genere che parlavano degli anni di piombo e dei loro protagonisti e ben presto mi accorsi di una lacuna che non riuscivo a colmare, di una domanda alla quale non ero in grado di dare una risposta. Migliaia di pagine erano state scritte sulle vite, le idee, le azioni dei terroristi. Interi scaffali per raccontare chi era schierato dalla stessa parte, quella che sparava coprendosi il volto con un passamontagna, non importa il colore delle idee. E se nelle memorie di alcuni protagonisti si leggeva un sincero pentimento, in quelle di altri, decisamente no. Tuttavia, l’interesse dei media era tutto per loro. Di contro, per quanto mi sforzassi trovavo davvero poco, e spesso solo pubblicazioni private, curate dai parenti e a modesta diffusione, che parlasse dei poliziotti, dei carabinieri o degli agenti di custodia uccisi, delle vicende personali e professionali di chi era caduto servendo lo Stato in quella guerra non dichiarata, delle ferite lasciate dalle loro morti violente. Che pure, mi dicevo, sono tantissime. Possibile che questo argomento sia stato trattato in modo così sporadico? Per quale ragione la storia di uomini che erano stati assassinati, spesso brutalmente e inutilmente, non è stata raccontata?

 

Questo libro è nato così. E, allo stesso tempo, mi ha offerto una risposta o, forse, una giustificazione al senso di colpa, o almeno all’imbarazzo, che vivevo quando ero adolescente. Non avevo niente in più di quei ragazzi ma la mia esistenza era stata diversa. Nulla e nessuno avrebbe potuto restituire loro la vita, figuriamoci un libro, ma mettere nero su bianco le loro storie sarebbe stata un’ottima occasione per dimostrare che erano esistiti. E che qualcuno, non soltanto i parenti e gli amici, continua a ricordarli.

 

 

 

Ora che l’idea c’era e la convinzione pure, iniziava la parte più difficile. Non solo perché i caduti delle forze dell’ordine sono davvero tanti ma anche perché le loro storie non riguardano certo solo gli anni di piombo, ma attraversano tutta la storia del Paese, spesso con modalità ricorrenti, e con la stessa tendenza generale a dimenticare le vicende dietro i nomi incisi sulle lapidi. Una volta tornato a casa dopo una lunga giornata di lavoro, mi mettevo davanti al computer e ci restavo sino a notte fonda navigando tra decine e decine di figure e di episodi: raccontarle tutte avrebbe significato dedicare soltanto poche righe a ciascuna, e non mi sembrava giusto. D’altra parte, come scegliere? Ho quindi stabilito che avrei preso in esame gli eventi dal 1977 a oggi, soffermandomi principalmente su vittime giovani, come Giuseppe Savastano ed Euro Tarsilli, carabinieri di leva uccisi in Toscana dagli eredi di Prima linea: a Savastano mancavano pochi giorni al congedo, Tarsilli era arrivato da una settimana. Oppure su storie di cui avevo memoria diretta, come lo stesso Arnesano, che fu ammazzato dai neofascisti mentre giocavo a pallone coi miei amici nel campetto dell’oratorio, a Roma. Aveva diciannove anni, soltanto cinque più di me. O come Roberto Antiochia, l’unico che ho conosciuto, seppur di vista, perché abitava nel mio quartiere. Ricordo benissimo la madre, una donna straordinaria, la quale, dopo l’omicidio del figlio, trucidato dalla mafia assieme al commissario Ninni Cassarà a Palermo, ha dedicato il resto della vita a girare l’Italia e a incontrare i ragazzi nelle scuole, raccontando loro la storia di Roberto. E se da un lato ho dato spazio a episodi cruenti e molto noti, come la strage del Pilastro o quella di via Fani, mi sono imbattuto quasi per caso in storie come quella del brigadiere Giuseppe Ciotta, riportatami dal nipote, Potito Perruggini, che ho conosciuto a Roma, di fronte alla galleria Alberto Sordi, mentre stavo curando un servizio di politica. Nulla succede per caso, soprattutto in queste circostanze.

 

Un aiuto determinante è arrivato da tanti poliziotti e carabinieri che mi hanno spesso indirizzato verso le strade più giuste. Consigli preziosi li devo al personale addetto alla sicurezza di palazzo Chigi, di piazza Colonna e di Montecitorio. Guglielmo Frasca, poliziotto di lungo corso, mi ha messo in contatto con la famiglia dell’agente Ciro Capobianco, che ho incontrato nel corso di una serata commemorativa in un teatro di Roma. La stessa serata in cui ho stretto per la prima volta la mano ai genitori di Francesco Salerno, il finanziere deceduto nel 2005, in circostanze ancora poco chiare, vicino a Torino, ma pure a Barbara, moglie del forestale Paolo Cortopassi, rubatole da una malattia e dalla malasanità, e ad Alessandro, figlio del maresciallo Antonio Santoro, comandante delle guardie carcerarie della casa circondariale di Udine, ucciso dai Proletari armati per il comunismo.

 

 

 

All’inizio del mio lavoro non avevo contatti e se non è stato difficile reperire i numeri di telefono delle famiglie delle vittime partendo dai nomi letti sui giornali dell’epoca, ben più impegnativo è stato trovare dentro di me il coraggio di contattarle. Temevo le loro reazioni, trattandosi in alcuni casi di episodi risalenti a più di trent’anni fa. Pensavo che, entrando così d’improvviso nella vita di quella gente che tanto aveva sofferto, per giunta da perfetto sconosciuto, sarei stato visto con diffidenza oppure, considerato che la categoria dei giornalisti non si era mostrata molto vicina a loro nel corso degli anni, che qualcuno potesse anche negarmi un semplice colloquio. Confesso che una sera stavo quasi per desistere: ero in auto sul raccordo anulare, tornavo da un avvenimento politico. A un certo punto squillò il telefono e Guglielmo Frasca mi avvisò che era appena stato a una cerimonia a cui avevano preso parte tanti parenti di carabinieri e poliziotti uccisi. “Ho detto a tutti che stai raccogliendo informazioni per scrivere un libro sui caduti delle forze dell’ordine”, esclamò soddisfatto. “Cosa ne pensano?” domandai timidamente. “Sono felicissimi, finalmente qualcuno si è deciso a ricordare anche loro!”

 

Non feci cenno ai miei tormenti ma, tornato a casa, non tolsi nemmeno il cappotto e composi subito il numero dei Savastano, che vivono a Bolsena. Il loro recapito era stato il primo che avevo trovato. Rispose Claudia, una delle sorelle di Giuseppe; mi presentai, le spiegai tutto per filo e per segno, infine attesi la sua risposta. Per qualche istante non sentii nulla, poi il silenzio fu rotto dalla sua voce che mi domandava come mai, tra tante, avessi scelto proprio la storia di suo fratello. Però lo fece con gioia e interesse, e questo mi rassicurò. Le dissi la verità, aggiungendo che, se non fosse stato troppo disturbo, mi avrebbe fatto piacere andare a trovarli a casa, per fare una chiacchierata con tutti. Mi rispose che la cosa sarebbe stata graditissima a lei e all’intera famiglia, dopodiché ci salutammo e mi ringraziò. Insomma, fu lei a dirmi grazie! Rimasi per qualche istante a fissare il telefono, poi mi sciolsi in lacrime.

 

Andai a trovarli poco tempo dopo, come feci via via con tutti gli altri, attraversando l’Italia in auto e in treno, e i miei timori iniziali si rivelarono infondati. Fui ricevuto in ogni casa come se fossi un componente della famiglia, tanto da sentir nascere, con alcune persone intervistate e mai incontrate prima, un legame ben più profondo di quanto il poco tempo trascorso insieme farebbe pensare. Ne ero emozionato e orgoglioso. Di volta in volta, ho toccato con mano la dignità e lo strazio del lutto, la rabbia e il coraggio, ma per riuscirci, naturalmente, ho anche dovuto scavalcare dei muri di diffidenza: il padre di Euro Tarsilli, Pacifico, ha posto la condizione che mi presentassi prima alla stazione dei carabinieri. Lo feci, andai dal maresciallo che comandava la caserma, documenti alla mano, e lui stesso mi “scortò” dai Tarsilli. Ma la presenza del maresciallo fu molto discreta, dopo cinque minuti andò via. Al tempo stesso, ho dovuto fronteggiare le reazioni emotive che provocavo chiedendo di dare spazio alla memoria: con Franco Graziosi, il fratello maggiore di Claudio, agente ucciso a Roma, su un autobus, dai Nuclei armati proletari, ci siamo seduti in una tavola calda, all’uscita dell’autostrada. Abbiamo parlato a lungo ma ogni tanto Franco scoppiava a piangere. E io spegnevo sùbito il registratore.

 

Mi sono persino mescolato alla vita di queste famiglie: ho incontrato Pasquale Capobiancoche, per ragioni diverse, ha visto morire due figli poliziotti, Ciro e Francescoanche quando si è trasferito con i suoi cari a Nettuno per seguire la figlia, sposata con un carabiniere e madre di due bellissimi bambini, che stava finendo il corso per entrare in polizia. Il culto della famiglia resiste in famiglie attraversate da un dolore atroce. Come quella di Alessandro Salerno, il papà di Francesco, persona buona ed eclettica. La prima volta che sono andato a trovarlo, nella villetta che ha tirato sù mattone dopo mattone a Selva Candida, era con sua moglie Marlene. Ci siamo seduti al tavolo del salone e tutto, nella stanza, ricordava Francesco: a un certo punto, nel fiume dei ricordi, la mamma si è messa a piangere. Alessandro si è alzato con il pretesto di andare a cercare qualcosa in un’altra stanza, ma, in realtà, credo si fosse emozionato anche lui. Ho dovuto ricorrere a tutta la mia forza per restare seduto in quel salotto, circondato dalle foto di un ragazzo morto poche ore dopo avere compiuto trentaquattro anni. Sono tornato a trovarli e questa volta c’erano anche Federica e Fabrizio, gli altri due figli, e Patrizia, la vedova di Francesco. Ho legato molto con loro e, sebbene il lavoro e la vita mi portino a sentirli poco, considero Fabrizio un amico di sempre e spero che lo stesso valga per lui. Come per Alessandro Santoro, che ho incontrato a Ferrara per parlare del padre e con il quale ho avuto la sensazione che ci conoscessimo dall’infanzia. Eppure, prima di allora, ci eravamo visti soltanto una volta e di fretta.

 

Questo libro è costruito non solo sul ricordo di chi non c’è più ma anche sulla fiducia che chi è rimasto ha riposto in me. Fiducia incondizionata. Il modo in cui hanno accettato di aprire il loro animo e tirare fuori ogni emozione mi ha arricchito interiormente, nella totale gratuità, rendendomi un uomo migliore. Di questo non finirò mai di ringraziarli.

 

Alessandro Placidi, Divise forate – storie di vittime dimenticate delle forze dell’ordine,

2016, David and Matthaus editori

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Alessandro Placidi

 

Alessandro Placidi

 

Alessandro Placidi è nato a Roma nel 1966 ed è giornalista professionista free lance. Scrive di sport sui quotidiani Il Tempo, Il Corriere dello Sport, Il Messaggero, Il Mattino, Roma, Gazzetta del Mezzogiorno e altri. Conosce e collabora, in una emittente radiofonica romana, con il radiocronista di Tutto il calcio minuto per minuto Ezio Luzzi. Di pari passo inizia anche l’avventura televisiva nelle vesti di conduttore e ospite in emittenti locali e nazionali. In seguito è inviato a Pescara per il settimanale Controcampo. Tra la fine degli anni ’90 e gli inizi del 2000 collabora con Sports.com. Successivamente passa alla politica e alla cronaca, dapprima presso il tg nazionale di Canale Italia, poi, dal 2004, come corrispondente per il gruppo veneto facente capo a Roberto Zanella (Radio Birikina), seguendo a Palazzo Chigi l’attività della Presidenza del Consiglio dei ministri e i principali avvenimenti politici della capitale. Il 9 maggio 2011 è stato invitato al Quirinale dal Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, in occasione della Giornata della Memoria per le vittime del terrorismo. Divise forate è il suo primo libro.

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