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Libera Scuola di Umanità diretta da Luigi Scialanca

 

Parole di Sole

 

Lettera ad Artemio Tacchia dopo la lettura delle sue bellissime poesie

La copertina di "di sole parole" (2009), di Artemio Tacchia.

 

di Luigi Scialanca

 

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e noi

che il silenzio ci uccide

 

noi cerchiamo con occhi ingenui

ancora parole legarsi ai raggi di sole

(e noi).

 

Versi così, caro Artemio ― il silenzio che è tanto immediato quanto mortale, la parola umana che invece va cercata, e con occhi ingenui, o non si legherà ai raggi di sole ― prim’ancora di scoprirvi la netta discontinuità che li distingue dai pur belli e significativi che hai scritto in passato, prim’ancora di vedere ― occorre qualche istante, se si è rimasti abbagliati ― quanto siano più appassionati, più immaginosi, più ampi (quasi che anche da Roviano la Valle dell’Aniene lasci ora intravedere l’azzurro del mare), sùbito riempiono il cuore di gioia e la mente di speranza. Poiché ingenui non significa “sprovveduti” ― i sempliciotti non cercano, gli basta credere ― ma “schietti”, “sani”; e il suo contrario non è “saggi”, ma “scaltri”, “calcolatori”: l’ho sentito prim’ancora di capirlo, l’ho vissuto come piacere fisico di legarmi con il corpo, attraverso gli occhi che già cercavano nel verso successivo, ai raggi di sole che senza indugio mi hai elargito come una benevola divinità poetica; e mi è venuta voglia, contro il silenzio che ci uccide, di scriverti anch’io parole legate ai raggi di sole ― sebbene mie, diverse ― e con uno specchio inviartele da Anticoli come segnali di luce: il solo modo possibile di servirsi di uno specchio per comunicare!

 

[Specchio che potrebbe essere proprio questo tuo “di sole parole” stampato nel mese di maggio 2009 presso la Fabreschi di Subiaco: questa luminosa copertina argentea su cui davvero potrei specchiarmi, se fossi così vanesio; ma che invece preferisco usare, come già gli ingenui Equi contro gli avveduti Romani, per scambiare con te messaggi che solo altri ingenui e ingenue come noi possano decifrare: messaggi scritti, certo; poiché, come tu dici,

le parole recitate

lacerano i silenzi fecondi

annullano gli sguardi affini

perciò viene meglio scrivere

che liberare la voce

(scrivere),

ma scritti, appunto, coi raggi di sole...]

 

Solo lì, caro Artemio, a pagina 35 ― ben oltre la metà di queste tue sole parole, tutte preziose ― ho capito che quelle che fin dall’inizio ero andato cercando con più desiderio erano proprio le più... assolate; e di averne trovate non poche, ma insieme ad altre che invece... si annuvolavano. Solo lì ― voglio dire ― mi sono reso conto che leggendole ero stato anch’io, con te, sulla spiaggia della concessione 35, a

inseguire tutto il tempo un arcipelago di nuvole

(concessione 35)

cercando con occhi ingenui gli speciali raggi che attraversandole sarebbero diventati visibili. Ma che in qualche momento avevo invece temuto che le nuvole diventassero troppe: che s’intromettessero fra i raggi del sole e le tue (e nostre) parole come macchie sui vetri degli occhi, o fra le parole e i raggi come maschere che sporcano, cioè deformano e imbruttiscono l’umano del volto; e che le parole, allora, da ingenue diventassero accorte, e me, da ingenuo, tentassero di farmi maturo. Mentre

maturare non conviene

e lo sanno gli alunni

che non amano i kaki

persi i grandi occhi cerulei

oltre i vetri sporchi di maschere

(nuvole),

e io come i tuoi alunni non voglio maturare, caro Artemio, se farlo significa perdere per sempre i sentieri misteriosi e umidi degli Equi attraverso la boscaglia ― non mutilati “boschetti” a quei tempi, su queste colline desiderose di mari equidistanti e lontani, ma selvaggia foresta amata e temuta, conosciuta e tuttavia sempre feconda di nuove ricerche, buia e silenziosa fin quasi a uccidere ma sempre attraversata da raggi di sole spioventi qua e là dal folto come benedizioni della Natura ― se maturare significa perdersi fino alla morte entro il geometrico intrico di vie dei Romani come nella rete di un retiarius.

 

Poiché maturare ci va anche bene ― chi non matura, in fondo, è chi muore giovane ― ma non a furia di nuvole, di sporco sui vetri, di maschere che ingannano gli altri e noi stessi sulla natura umana dei nostri volti: maturare ci va bene da Equi, non da Romani! O perfino da gatti, che è meglio, benché sia un maturare animale, del “maturare” che disumanizza. Maturare ci va bene, insomma, solo lungo

 i percorsi di senso

i fili di Arianna

che hanno guidato il ragazzo

(...)

lumeggiati

come preziosa miniatura

polverosi sentieri canuti

scie d’argento

che s’insinuano nella vita

(...)

l’acqua di Ponte Nóvo

(...)

sorgente

sperma immacolato senza peccato

carezza lieve di madre

per la vigna addormentata

sotto un oceano di sole

il ragazzo ha radici nella melma

matrice di metamorfosi anfibie

e umane

(...)

il ragazzo si nasconde alle cornacchie

che oscurano lo spazio tra gli archi

e il bosco fitto di mistero

 

perciò fuggivo la strada di sale e di pietre

in salita in discesa

sempre

per andare e tornare nel lunapark della Valle

ero giovane gatto e gatto sono

solo

a graffiare i muri che disegnano il senso

(il senso).

 

Poiché la strada di pietre e di sale ― la Sal-aria, infatti, non è lontana dalla Valle ― era romana, appunto, non certo equa. E oggi, dopo venti secoli, è ancora da essa che si diparte il lunapark della Valle. E ancora loro, dei Romani, sono i muri che prima disegnano, sì, ma poi vogliono imporlo, quel loro senso, come il solo possibile, il solo vero. E il gatto in effetti non può che graffiarli, quei muri. Ma noi ― che amiamo e immaginosamente “siamo” gatti per l’immagine di affettività nella libertà che essi c’inviano come benevolo segnale di soccorso della Natura a noi, sue creature che il logos ottunde ― noi tuttavia non siamo veramente gatti: poiché noi possiamo guardare e cercare e vedere, nel cielo ― soli animali capaci di ciò ― gli immaginati e desiderati raggi di sole a cui legare le nostre parole.

 

E però non è facile, caro Artemio, il percorso del senso fra queste tue sole parole. Anche se, tu dici,

ognuno può (...) fermarsi dove vuole

(...)

niente virgole dunque mettetele dove volete

nello spazio preciso dove la vostra emozione si mostra

di sole parole

(invito).

[E noi facciamo proprio così, e non potremmo non farlo. È per la punteggiatura che le parole scritte non sono quasi del tutto senza corpo, immateriali, invisibili ai nostri occhi. È la punteggiatura che non le lascia astratti segni, incomprensibili, ma vi ritrova sentimenti e immagini. Poiché le virgole, i punti, sono il nostro respiro, i movimenti irreprimibili di occhi che non son fissi poiché sono vivi, il sudore, le lacrime da asciugare, la risata da lasciar erompere, le mani, le braccia, le gambe che di quando in quando han bisogno di cambiare posizione. Le virgole mettetele dove volete, tu dici, ed è geniale: dunque non vuoi che ne facciamo a meno! Anzi: ci lasci liberi come gatti (ancorché ingenui, fantasiosi e sapienti come esseri umani) di averne di nostre, e di sentirle, e sentendole di sentirci vivi, corporei, attaccati alla vita dove ci pare e piace. Ci lasci liberi, ma ― com’è vero e umano che sia ― non del tutto: poiché sei pur sempre tu che decidi gli spazi, i margini, l’allineamento, che volti pagina, e che a un certo punto metti l’indice e dici “fine”. Ma, appunto, sei anche tu. Non solo tu. Ed è bello che si sia insieme ― tu e noi, tu e il tuo lettore, non tu e basta ― a dar corpo alle tue (quasi) sole parole, caro Artemio: è come far l’amore, come ballare, come cantare; come ― qualche rara e fortunata volta ― lavorare; sì, metter le virgole dove vogliamo è essere umani, se lo si fa insieme: cioè animali che immaginano e creano “cose” che davvero esistono soltanto se, e nel modo in cui, insieme diamo loro respiro, corpo, piacere, gioia ― o al contrario rantoli, malattia, dolore, disperazione: soltanto se, e nel modo in cui, insieme diamo loro punteggiatura e come per incanto tramutiamo il silenzio in parole, gli stridori in musica. Poiché davvero

noi

che il silenzio ci uccide

 

noi cerchiamo con occhi ingenui

ancora parole legarsi ai raggi di sole

mi sazierei di frutti di loto a trovarli

per dimenticare gli stridori assordanti

(e noi)].

 

Ma anche così, anche mettendo le virgole dove vogliamo, queste tue sole parole non sono facili da percorrere, caro Artemio, per le non poche che dolorosamente paiono reduci dall’aver troncato ogni legame coi raggi di sole. Parole amare, parole come sporche di maschere, intese come a indurci a maturare nel modo che non vogliamo, e che anche a noi rende antipatici i kaki per il loro essere, per così dire, buoni d’una bontà non buona. E tuttavia parole che pur sempre dobbiamo riconoscere come poetiche, e nelle quali ― in quanto più appassionate, più immaginose, più ampie ― non possiamo non vedere, di nuovo, la netta discontinuità che le distingue dalle pur belle e significative che hai scritto in passato:

questi figli aggressivi

spine dure che trafiggono i sogni

così i padri diventano più muti

(figli)

vivere è anche morire

sotto il peso penitenziale de ju stennardu

in processione

 

centellinerò la coppa di fiele

inevitabile

in questo paese di stupide pietre

dove pregare è lo stesso che odiare

(inevitabile)

povero il mio paese

che chiude la biblioteca

e saltella a comando sotto le luminarie

in questa notte senza stelle

che slama veloce nella palude del nulla

(Ferragosto)

si stringono i petali rosa dell’albicocco

in attesa del ritorno del caldo

del ronzio erotico dell’ape

(...)

guardo il cielo come i vecchi

e filo coi fusi lunghi pensieri amari

ad Anticoli stanotte veglieranno al Mortorio

le donne che non hanno sfilato l’8 marzo

solo tu portavi la mimosa tra i capelli

e sotto i jeans un groviglio di sogni

(...)

l’Italia ormai è un campo nebbioso

fresato dai caimani

all’inverno resiste solo il radicchio

nevicherà questa notte e brucerà gli albicocchi

(8 marzo 2008).

 

Poetiche, sì, ― e più appassionate, più immaginose, più ampie delle pur belle e significative che hai scritto in passato. Ma che non è facile, pur tra i raggi di sole, seguire fino alla disperazione di

chi ti comanda

di impedirti di follia

il viaggio

 

non ridi più

ormai

né canti al sole cogli amici

 

il bicchiere è vuoto

(di follia).

O alla dolorosa, inaccettabile, non vera “autodiagnosi” di

è scaduto il tuo tempo

sei fermo all’orizzonte

 

sospeso sul filo d’acciaio dell’acrobata

se non crolla il passo c’è una nuova linea

non ti avvisa il tempo

un mattino non sei più   precipitato nel vuoto

(tempo scaduto).

 

Non è stato facile, no, ma l’ho fatto. E con gioia e speranza, malgrado tutto. Poiché perfino in parole come queste ho visto, caro Artemio, qua e là (e non ho sentito di illudermi) i raggi di sole che vi filtravano ― più che di tra le nuvole, o di tra le macchie che sui vetri di certe stanze e aule sembra cospargere l’età, mentre è solo un po’ d’incuria ― di tra la volta quasi compatta dell’antica foresta equa che sento viva e lussureggiante in te. Foresta che certo, come a me, anche a te deve sembrare, e essere, cupa e spaventosa, e ben più di qualche volta ― specie con tutti i Romani che ci sono in giro ― ma mai così tanto da indurci a fuggirne, a rivoltarlesi contro, a distruggerla. Foresta che noi, come gli Equi, non potremmo non continuare ad amare e ricordare ― per i suoi raggi di sole ai quali legare le sole parole che siano anche parole... di sole ― perfino se i Romani (e i Vaticani) ci inurbassero (e “inchiesassero”) a forza; ed è perciò che anche tra queste parole, entro queste vie dell’Urbe, o in questi paesi di stupide pietre, o nelle notti senza stelle, per me non è vero che tu non canti più al sole con gli amici, non è vero che guardi il cielo come i vecchi. È vero, anzi, proprio l’opposto: che anche nei momenti peggiori, anche quando fili coi fusi lunghi pensieri amari, si sente che per te il cielo alla fin fine è ancora

un Turcato di drappi vermigli

impigliati tra i palazzi romani

(8 marzo 2008);

che i figli aggressivi che trafiggono i sogni sono, però, spine, cioè realtà piene di vita ― anche perché, volenti o nolenti, il giorno lontano che il tempo sarà davvero scaduto, essi saranno (anche) la nostra eternità così come noi siamo (anche) l’eternità dei nostri genitori:

di te che resterà d’eterno madre mia

l’infanzia senza padre

la fatica sulla zappa

la terra incollata alle dita

il pesante pane ammassato nel forno

quattro figli da crescere e la calce

quattro figli sposati e il silenzio

quale sarà la tua eternità

essere stata mia madre

(eternità) ― ;

che la coppa di fiele è sì inevitabile, ma a chi non s’incanta da solo a crederla miele permette grandi scoperte come quella che pregare è lo stesso che odiare; che il viaggio di follia è però impedito, e dal momento che non vi è alcuno che ti comandi di impedirtelo, è evidente che ― per tuo valore e resistenza, non per fortuna né tanto meno per grazia divina ― tu non sei capace di farlo; e che il tempo a guardar bene non è davvero scaduto, finché non crolla il passo... Ci si accorge, insomma, che anche se

è il tempo   e la terra si stringe d’affanno

chiude ogni pertugio alla vita

e la vita nel sogno prova a esistere

(...)

cadrà la neve d’inverno a mille e mille folate leggere

a proteggere il seme

verrà il giorno   lo vedo

e il sole bacerà il papavero

dritto ai bordi della strada

(aspettazione).

 

Siamo noi, caro Artemio, i papaveri rossi dritti ai bordi della strada, e tu lo sai quanto me! Siamo rossi perché fieri della nostra corporea umanità e decisi a proteggerne il seme, per quanto lungo debba essere l’affanno invernale che ci stringe. E siamo ai bordi della strada perché aspettiamo e siamo certi che prima o poi lo vedremo tornare indietro in rotta, l’orgoglioso e stupido esercito romano che traccia strade di sale e costruisce paesi di stupide pietre. Il giorno verrà, lo vediamo, ed è anche per dirlo a noi stessi ― e ai figli che sono spine nate da noi, e agli alunni che saggiamente non vogliono maturare come kaki, e ai compagni che sbagliarono e sbagliano sputando su Tenco l’inutile farfalla, ma non sbagliarono e non sbagliano desiderando, sperando e pretendendo che noi non ci si suicidi ― è anche per dir questo che io e te e tanti altri cerchiamo con occhi ingenui ― ognuno a suo modo, ed è bene che sia così, ma scambiandoci segnali di luce da una sponda all’altra dell’Aniene ― parole che si leghino ai raggi di sole.

 

Ma tu a questo punto ti arrabbi, temo, per questa mia presunzione di servirmi della tua bella copertina di sole parole per inviarti segnali che non mi hai chiesto... Ti arrabbi, ma spero non troppo, e mi domandi ― sì, leggendo mi sembra di sentire che lo domandi proprio a me:

l’inverno non era morto

ha ingannato la primavera

succhiandole la vita

 

e tu dove eri nascosto

 

il vento gelido e repentino

ha bruciato i fiori d’albicocco

ammutolito i canti degli uccelli

 

e tu come ti sei salvato

(defezione)?

 

Come ti sei salvato tu, caro Artemio. Continuando a cercare raggi di sole a cui legare le mie parole. Comandandomi di impedirmi di follia il viaggio. Stando dritto come un papavero sul bordo della strada. Facendomi baciare dal sole anche quando il sole non c’è: se non per altro, anche solo a dispetto dei preti. Riprendendo poi sempre, ogni volta che anche a me è accaduto di non riuscire a non scrivere

di sangue

il disincanto

(disincanto),

ad attendere il ritorno del caldo, del ronzio erotico dell’ape.

 

Ma qui mi fermo, poiché so bene che non tutte le vere e necessarie parole di risposta alle tue, né le più importanti, possono essere “nelle mie corde” ― o piuttosto, trattandosi di segnali di luce, nel mio specchio anticolano. Sarà più facile per una donna, vedrai, tramutare di sole parole in parole di sole, se fra le tue lettrici ― come ti auguriamo; anzi: ne siamo certi ― ne troverai qualcuna vera. Poiché solo una donna che ti ami, caro Artemio ― molto più di un vecchio gufo come il sottoscritto, per quanto amico ― sa mettere le virgole come a un uomo è necessario. Solo una donna vera, leggendo fin dentro le tue (quasi) sole parole insieme a te, e approfittando della tua liberalità ― della tua generosità di poeta e compagno che dice mettetele dove volete ― sa davvero obbligarti a metterle dove le mette lei, a respirare con lei, a muoverti insieme a lei; e con lei, così, a recedere dal disincanto all’incanto recitando insieme le formule magiche che come per incanto trasformano il mondo reale nel mondo vero che non è “sogno” ― nel senso spregiativo di “chimera” ― ma immaginosa materia corporea delle nostre menti umane.

 

 

(tra Anticoli Corrado e Roviano, tra luglio e agosto del 2009)

 

(Questa fotografia, che è anche lo sfondo della pagina, è della maestra Cristina Ciaffi. Cliccala, se la vuoi in formato desktop!)

(Questa fotografia, che è anche lo sfondo della pagina, è della maestra Cristina Ciaffi. Cliccala, se la vuoi in formato desktop)

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