ScuolAnticoli

Libera Scuola di Umanità diretta da Luigi Scialanca

 

 

La Banda del Buco

 

di Luigi Scialanca

 

Home     Anticoli che non sparisce    Il Diario del Prof     L'Espresso si ispira a ScuolAnticoli!

Il buco crebbe, divenne il Grande Buco che incombe su tutta la Valle, fece del Colle una voragine, e in bilico sulla voragine lasciò il nostro piccolo, caro paese. Poi cominciò a penetrare sotto il paese, a fare il vuoto sotto le case, e dai buchi che da tempo eran dentro le case cominciarono a uscire rimbombi cavernosi, miasmi venefici, echi di urla infernali, visioni terrificanti, ciechi ed enormi insetti che nessuno aveva mai visto prima.

Per scaricare il racconto in formato Word, clicca su:

La Banda del Buco.doc (155 kb)

Indice

1. Il Talpone comincia a Scavare

2. Il Grande Buco ha inizio

3. Nicola, solo contro Tutti

Il buco crebbe, divenne il Grande Buco che incombe su tutta la Valle, fece del Colle una voragine, e in bilico sulla voragine lasciò il nostro piccolo, caro paese. Poi cominciò a penetrare sotto il paese, a fare il vuoto sotto le case, e dai buchi che da tempo eran dentro le case cominciarono a uscire rimbombi cavernosi, miasmi venefici, echi di urla infernali, visioni terrificanti, ciechi ed enormi insetti che nessuno aveva mai visto prima.

Per scaricare il racconto in formato pdf, clicca su:

La_Banda_del_Buco.pdf (174 kb)

1. Il Talpone comincia a Scavare

 

Non è molto che questo caro, piccolo paese si chiama Modèrnoli (con l’accento sulla e). Prima aveva un altro nome, mille volte più bello, che dirvi non posso. Ma a quell’epoca, quando non c’era la Banda del Buco, tutto era più bello. Tutto era più pieno. Non solo la terra, le piante, la frutta, le vie, le case, gli oggetti, gli animali, gli umani: la vita stessa era più piena, più ricca, più appassionante, prima che la Banda cominciasse a devastare la nostra Valle con quell’enorme, inconcepibile buco sempre più vuoto...

 

Ma andiamo con ordine, poiché la storia (storia vera, eh?, non credete a quello che il prof ― Scialoia, o Scialanca, o come diavolo si chiama ― mi ha costretto a scrivere qui sopra: storia vera!) è troppo complessa perché si possa arruffarla ancora di più con degli andirivieni letterari.

 

Tutto ebbe inizio nel 19.., quando si fece avanti il primo di quelli là. Quello che dopo un po’ chiamammo il Talpone, e che fino a non molto tempo fa, nel nostro caro paese, la gente serviva e riveriva come un reuccio. Allora non era nessuno: senza nome, senz’arte né parte, ricco soltanto di pezze al sedere. I vecchi lo ricordano bene: veniva nei giorni di mercato, a piedi, spingendo faticosamente uno di quei carretti che si usavano allora, lunghi e piatti, con due ruote sbilenche che sui sampietrini alzavano un baccano d’inferno e sullo sterrato un gran polverone. Lui se lo respirava tutto, quel polverone, e aveva sempre una tosse atroce che pareva uscire dalla caverna di Polifemo, più che da polmoni umani. E fin d’allora cominciò a farla respirare anche a noi, la polvere che produceva, spingendo quella maledetta carriola dal ponte al paese e dal paese al ponte: è incredibile, a ripensarci, che ne alzasse tanta ― che poi era pochissima, eh?, in confronto a quella che vien fuori oggi dal Grande Buco: polvere invisibile, fatta di niente, che porta il niente dove si posa e che il vento dissemina per tutta la Valle, oggi qua e domani là, dove tocca tocca, dove avvelena avvelena, imparziale come la Comare Secca ― ma alla gente sembrava già troppa allora, e tutti si tassarono, si rimboccarono le maniche e asfaltarono lo stradone in men che non si dica. Poiché scacciarlo, il Talpone, non si poté (qualche comunista lo diceva: “Cacciamolo!” e sarebbe stato diverso, il futuro che ormai è già passato, se in questo gli avessimo dato retta e ci fossimo liberati di quell’uccellaccio) perché adesso c’era la Libertà, e la Libertà la maggioranza volle intenderla nel senso che perfino i tipi come il Talpone, se avevano i documenti in regola, li si dovesse lasciar andare e venire come gli pareva. Però asfaltammo lo stradone, almeno (ché non alzasse più quel polverone, il Talpone) e così fu tremendo solo il rumore che facevano le grandi ruote traballanti, una volta alla settimana, quando lui veniva sù dal ponte ― anfanando e tossendo come se avesse nel petto un’immensa caverna piena di nulla ― e fino al paese si prosternava come un’anima dannata dietro quel suo carro che non portava niente.

 

Era il carro, infatti, che pesava così tanto, mica la roba che c’era sopra! Il carro di legno massiccio, pesante già allora come i mostruosi autotreni che oggi ci portan via la Valle, i monti e la vita lasciandoci in cambio quel dannato Grande Buco. Ma noi, ingenui, credevamo che fossero le scatole! Che invece non pesavano più del cartoncino di cui erano fatte, della carta colorata in cui erano avvolte e dei nastri che le decoravano. Ma noi, tonti, non lo capivamo. E se anche ce l’avessero detto ― e ci fu chi ce lo disse! ― be’, non ci avremmo creduto. Poiché a quei tempi l’avevamo ancora, la nostra umana fantasia ― là dove oggi non abbiamo che un invisibile buco ― e con fantasia non potevamo non fantasticare che in quelle scatole ci fosse il bendidìo del mondo intero, proprio il bendidìo che ciascuno di noi desiderava e sperava e sognava; e che perciò non potessero che pesar tanto, tantissimo: come pesava a noi la nostra vitarella senza Natali né compleanni, che quelle benedette scatole venivano finalmente a riempire di doni!

 

Mentre lui, il Talpone ― la cui fantasia era andata a male quando la madre l’aveva preso in braccio la prima volta, ma che di furbizia luciferina ne aveva da vendere e non la vendeva, la teneva e la usava tutta per sé ― lui lo capiva quanto eravamo allocchi e quanta voglia avevamo, coi nostri sudati baiocchi, di comprarci qualcosa di fantasioso e speciale: qualcosa di diverso dal puro mangiare, bere, vestire, qualcosa che dal mondo oltre la Valle venisse a noi col vento di lieve e inebriante follia che spirava dall’America, dalle riviste illustrate, dalle radio e dai televisori, che in qualche casa e nei bar aprivano proprio allora i primi buchi catodici... E come recitava bene, il Talpone, sulla nostra povera e bella pubblica piazza, quando ci affollavamo intorno al carriolone a respirare la sua tosse cavernosa! Un grande attore? Macché! I grandi attori si scordano perfino di sé stessi, per diventare i personaggi che interpretano; e il Talpone, invece, neanche per un attimo dimenticava la dura realtà delle sue tasche fameliche, e di noi che doveva costringere a nutrirle!

 

Sollevava i suoi pacchi variopinti a uno a uno, pian pianino, fingendo che pesassero assai, o che bisognasse maneggiarli con cura perché preziosi e fragili: li alzava con tutt’e due le mani ― o con una, ma pronto ad aiutarsi con l’altra, come per paura che il pacco gli cadesse ― e subito li rimetteva giù con cautela, urlando e tossendo: Un frullatore ultimo modello? Un servizio da dodici di posate d’argento? Una radiolina a transistori ultra-moderna, che ci sentite pure i bippi degli Sputinicchi? Venti biglietti da mille nuovi nuovi e scartoccianti? O niente? Anche niente, signori e signori, ― parlava così, il Talpone, chiamava signori anche le signore, e oggi, l’avrete notato, fan così pure le televisioni di Fulvio Bertuccioni ― anche niente può starci, in questo bel pacchetto! Voi che ne dite? Tu, con quell’aria da malfidato: pensi che non c’è niente, qui dentro, vero? Dimmelo in faccia, dai! Dimmelo in faccia!

 

Il malcapitato si schermiva, ma il Talpone non mollava. Era astuto, sapeva sempre chi poteva prendere di mira e chi no; e lo teneva stretto: quando ne trovava uno, non lo lasciava più; nei timidi incuteva una gran paura, e loro se ne stavano dietro e non fiatavano; ed era questo che il Talpone voleva, ben sapendo che fra i timidi ce n’è talvolta qualcuno che piano piano, dal fondo della sua silenziosa riservatezza, guarda e vede tutto, e poi ci pensa, e a poco a poco capisce tutto. E lui, il Talpone, invece aveva fretta e gridava, spingeva e tossiva, poiché intuiva che solo in fretta il male vien bene, e che a costruire ci vuol tempo ma a fare un buco si fa presto; basta un ceffone, basta una dura parola o un brutto sguardo (ma basta ancor meno: basta aver nulla da dare...) per fare a un bambino un buco nel suo piccolo cuore; anche se poi ci vuol tanto, anni e anni a scavare e a portar via con gli autotreni, per far di quel primo buco il Grande Buco che si mangia tutta la Valle lasciandoci in cambio un gran vento d’invisibile niente diurno e notturno.

 

Vuoi che te l’apro, vero? gridava il Talpone al malcapitato, tossendo e coprendolo di sputi. E lo apriva, lo colpiva con lunghe forbici arrugginite, gli faceva uno squarcio, un gran buco nero, e dallo sconciato pacco multicolore e infiocchettato tirava fuori, come un pescatore che estrae da un barattolo il viscido verme che prenderà il pesce, un orologio d’oro! O che d’oro sembrava a noi, scimuniti, che guardavamo il colpevole come a voler mangiarcelo, per aver mandato in malora così, per una diffidenza tosta da zoticone, una parte del bendidìo che sarebbe potuta toccare ad altri. E il Talpone non ci lasciava il tempo di raccapezzarci, faceva l’offeso, fingeva di voler prendere tutto e andarsene via, e invece incalzava, non ci dava scampo:

 

Me ne vado, signori e signori! Mille lire, mille lire sole, e vi portavate a casa un regalo che ne valeva almeno diecimila! Ma anche venti, signori e signori! Anche cinquanta! E voi niente! Via, perduto per sempre! E perché? Per paura di beccarvi quello vuoto! Per la paura che si porta via ‘sto fregnone qua, e che con lui vi si porta tutti! E io me ne vado! E voi perdete tutto per la paura di uno solo! Perché di pacco vuoto ce n’è uno solo, signori fregnoni, e parola mia che al primo che gliene toccava uno, voi, qui, non mi ci vedevate più!

 

Inutile dire che invece non se ne andava mai, e che pian piano ne vendeva dieci, venti, trenta, di quelle scatole vuote; e per mille lire l’una! Che a quei tempi eran tante, ci si mangiava e beveva da mane a sera e avanzavano pure! Ma chi aveva il coraggio di aprirle, lì, davanti a lui e a tutti quanti? Nessuno! Se la svignavano subito, col pacco sotto braccio, quatti quatti e vergognosi, dicendo talvolta ch’era per fare una sorpresa alla madre (o alla fidanzata, o alla moglie) che non volevano disfarlo e sciuparlo. E la sera, o la mattina dopo, quando li ritrovavi a scaldarsi al sole sul sagrato di San Proclo, o in piazza torno torno alla fontana ― ch’è fatta tonda apposta, pare, perché si possa sedervi in pace senza dover vedere vergogne negli occhi del vicino ― ti dicevano che nella scatola c’era quello e quell’altro, roba d’immenso valore, e che a casa gli avevan fatto festa, e che un’altra volta ne avrebbero comprate almeno tre. E la volta dopo lo facevano!

 

Quanti ne avrà fregati, il Talpone, con quei suoi buchi pieni di niente impacchettati e infiocchettati? Io dico tutti, tutti! Ma nessuno che abbia mai parlato, mai! Tronfi e soddisfatti, a vederli, e al contempo zitti e misteriosi, come se avessero il tredici del Totocalcio e volessero e non volessero che si sapesse; e ognuno si mostrava fiero e camminava eretto ― solo un lieve, quasi impercettibile tentennìo a tradire l’interna sofferenza ― con la dignità del figlio e nipote di contadini che dal padre e dal nonno non ha ereditato altro che la dignità e sa bene che non è poca cosa ― no, non è poca cosa la dignità, ché almeno priva il bandito del gusto di vederti rodere ― ma con la mente e il cuore colmi di segreta vergogna per essere stato l’unico fesso, il solo che si è portato a casa per mille lire l’unica scatola vuota! E dalla ferita di quella vergogna ― tanto più mortale quanto più il ferito era anziano, o più d’una eran le volte ch’era stato colpito, o miseri i risparmi che aveva tolto ai figli per il mascalzone ― dalla ferita sgorgava a fiotti l’invisibile valore dell’essere umano ed entrava il vuoto di quella scatola maledetta.

 

Fu così che il Talpone, molto prima di scavare il Buco più grande di tutti, prese a far buchi dentro di noi e a riempirci a poco a poco di niente. Fu così che fece i soldi. E ne fece tanti, poiché di affari doveva averne molti, e tutti dello stesso tipo dell’affarone che somministrava a noi. Ma in compenso non spendeva quasi niente, si può dire che neppure mangiasse, non viveva che per far denaro e il nulla nel prossimo, far povero il prossimo e far denaro, scavar negli uomini fino a svuotarli e farli così sembrare quelli che lui aveva sempre creduto che fossero: polli, da spennare e divorare; e il denaro (che di per sé non è nulla, ma che può quasi tutto) a lui invece piaceva così, come denaro e basta, tanto che lo lesinava perfino ai figli e alla moglie ― che solo poi, quando il vecchio fu del tutto rimbambito, poterono finalmente spendere e spandere; e all’inizio, prima che rimpannucciassero, fu come veder uscire da un lager i sopravvissuti scheletriti ― e li mandava in giro con le pezze al sedere pure loro; e la cosa, oltre che venirgli naturale, era parte della sua strategia per far dei figli dei tipi come lui: scavare un gran vuoto anche in essi privandoli non solo d’amore, di parole, d’interesse, di comprensione, di senno, ma perfino dei soldi, delle minime cose! Per farne delle iene affamate, rabbiose, simulatrici, l’occhietto sghembo, la coda fra le chiappe, sempre a frugare, ad annusare, pronte a portar via tutto a chiunque.

 

Fece un sacco di soldi, il Talpone, e decise, allora ― visto che fra noi si era trovato così bene ― di venire ad abitare proprio qui, nel nostro caro, piccolo paese; che a quei tempi non si chiamava Modèrnoli, con l’accento sulla e, ma in un altro modo che dirvi non posso. Come mai proprio qui, lo sa solo Dio. O forse il Demonio. Ma io, che su questa storia ho riflettuto, sospetto che in qualche modo egli avesse intuito la bellezza della nostra Valle. Lo so che vi pare strano, ma le cose stanno così: la bellezza non attrae, purtroppo, solo chi la desidera e l’ama e sa capirla ed accrescerla, ma anche il passo felpato e il viscido approccio e lo sguardo buio di chi ha per essa la cieca nostalgia che sentirono i marinai di Ulisse mutati in porci da Circe: che le si accostavano come se ancora provassero desideri umani, strusciando i sozzi musi sulle sue gambe dall’ineffabile profumo, e a un tratto si ritrovavano invece a grufolare e a scavar buchi nel fango... Fatto sta che il Talpone si stabilì nel nostro caro paese, vi mise sù casa ― una piccola reggia pacchiana da capo-cosca, di quelle in cui la puzza di cavolo aleggia come un baldacchino sui lettoni a tre piazze e le pareti son piene di vecchietti rubizzi, di pierrot lacrimosi e di bimbi ritratti dall’alto per farli sembrare dei nani ― e subito cominciò ad attrarre, come una gran cacca le mosche, quelli che dal giorno in cui avevano aperto una delle sue scatole, trovandola vuota, non si erano come gli altri intristiti, vuotandosi a poco a poco nel buco scavato nella loro speranza e fiducia nel mondo umano, ma presi da euforica invidia e ammirazione ― cioè da quell’odio inconscio che rende gli umani i servi e i cloni di chi li deruba e li distrugge ― avevano deciso che una sola cosa volevan fare nella vita: gli accoliti del Talpone, i suoi scherani e bucanieri, la sua Banda del Buco.

 

Mentre i loro figli li guardavano. E i nostri guardavano i loro.

 

*

 

Torna in cima alla pagina     Home

 

*

 

2. Il Grande Buco ha inizio

 

Trasferitosi fra noi con la moglie, i figli, i bagagli e le armi di persuasione con cui ci aveva fatti fessi, il Talpone all’inizio ci lasciò in pace. Sparito il carriolone traballante e i pacchi vuoti ben infiocchettati che per anni, nei piccoli paesi d’Italia, aveva rifilato a chissà quanti altri sognatori come noi, l’individuo pareva essersi trasformato in un nullafacente di lusso.

 

La mattina si alzava tardi, il dì di festa non più del feriale e in inverno non meno che in estate, e fino alle due girava per casa, tossendo come un tricheco e gridando come un matto. Pochi lo udivano ― pastori che salivano al monte e solitari camminatori che facevano lo stesso per diporto ― perché a quei tempi, nella Piana sopra Modèrnoli, c’era solo il suo villino appena costruito; non avevano ancora cominciato, quelli della Banda del Buco ― i Nullòmetri li chiamavamo, con l’accento sulla o, e fra poco vi spiegherò il perché dell’appellativo ― a metter sù casa vicino a lui come una corte intorno al reuccio, copiando la sua (già brutta come un pugno in un occhio) con dei cloni anche peggiori; e la Piana, quindi, era ancora un gran prato dove scorrazzavano felici i cavalli e le libellule. Mentre il Talpone, cieco alla beltà della Natura da lui profanata con quel bunker mascherato da villino, si aggirava per casa fino all’ora di pranzo ― come vi dicevo ― e cercava pretesti per infuriarsi con la moglie e coi figli. E a quanto pare ne trovava a bizzeffe, poiché non faceva che gridare, trattandoli come schiavi e idioti e dicendone di tutti i colori; e l’odio e il disprezzo erano così violenti e protervi, nella sua voce, e con tale ferocia bucavano il perfetto silenzio della Piana, che i pastori e i viandanti che passavano di là ― e che, per quanto girassero a largo, non potevano non udirlo ― si intristivano, si sgomentavano, sentivano nel cuore e nella mente un vuoto improvviso, una confusione, un doloroso smarrimento: i sentimenti, cioè, di chi intuisce che qualcuno sta subendo un’aggressione da cui non lo si può difendere, poiché è di un tipo che non è perseguibile, e che perciò non ferisce solo le sue vittime dirette, ma con loro anche quelli che fa sentire deboli e impotenti contro le brutture del mondo. Tanto che i cani abbaiavano come forsennati, udendo quella vociaccia; e i padroni (pastori o viandanti o cacciatori che fossero) erano almeno lieti che le loro bestie ne capissero la cattiveria, e pensando a questo si rincuoravano un po’.

 

Dopo pranzo, il Talpone dormiva: un’ora e più, per i suoi di casa, in cui la paura di disturbarlo anche solo con un sospiro era compensata dall’immenso sollievo di non udire lui. E la pace pomeridiana continuava anche dopo il suo risveglio, poiché il Talpone ― preso il caffè, che la moglie doveva indovinare il momento esatto in cui portargli, e cacciati altri quattro urlacci ― usciva finalmente di casa e fino a sera perlustrava il paese e la campagna come uno spettro: senza ululare né trascinar catene, questo no, ma tossendo in quel suo modo cupo ― come uno che sempre rigetti in segreto, dentro di sé, e di continuo se lo senta tornar sù per l’esofago ― che faceva ancor più paura di una risata satanica; e che però, mannaggia, non lo ammazzava mai.

 

Ai nostri bambini metteva paura, incrociarlo da soli in campagna o in una viuzza tortuosa. Si facevano piccoli, nel passargli accanto, e dopo l’incontro sembravano e si sentivano un po’ più bimbi, come se la sua vista gli avesse invertito la crescita. Ma il Talpone stava attento a non esasperarli, a non farli addirittura scappare piangendo, e si garantiva, in tal modo, che contro di lui non potessero allarmare anche noi. Odiava i bambini da sempre, da quando in apparenza era tale anch’egli; poiché sapeva, per amare esperienze, che è quasi impossibile far loro credere che sian buoni i cattivi o cattivi i buoni. Smise di odiarli solo negli ultimi anni della vita sua, quando già le televisioni iniziavano a scimunirli inducendoli a disprezzarsi per non essere anche loro lì dentro, perduti a capofitto negli scintillanti buchi catodici dove il paese non è mai un villaggio fra i monti ma sempre dei Balocchi, e la vita non è mai vitarella ma sempre Natale, e compleanno per giunta... Allora non temette più che lo smascherassero. Ma qualche piccolo che ancora gli faceva venir voglia di atterrirlo e rattrappirlo continuava a capitargli, di tanto in tanto. Uno era Nicola, il figlio di Stérpolo ― di cui vi parlerò meglio più avanti ― che fin da piccino diffidava di lui al punto che si metteva a piangere solo a vederlo. Com’è possibile che ne esistano ancora? si domandava il Talpone fra sé ― ma vagamente, ché pensare non era il suo forte perché l’astuzia non ne ha bisogno e anzi vi s’inceppa e gira a vuoto ― e si rispondeva che non c’è niente da fare, gli esseri umani nascono nuovi, e per farli vecchi ― come per tutte le cose ― ci vuole il tempo, l’uso e talvolta perfino lo spreco.

 

Sappiamo, oggi, che il Talpone in quei giorni e settimane e mesi non andava a spasso né pensava alla salute: cercava il luogo più adatto per iniziare, di lì a non molto, a scavarvi (e a darci) la più grande di tutte le buche. Ma allora ― a chi di noi non attraversava la Piana e non lo sentiva urlare ― a vederlo passeggiare così bel bello, per poi sedersi all’uno o all’altro dei bar della piazza a tracannare robuste dosi di quello che chiamava il suo aperitivo, pareva innocuo come i villeggianti che in estate iniziavano a farsi vedere a Modèrnoli; che ci sembravano strani, ridicoli (poiché, pensate, non sapevano un fico delle nostre infinite beghe: come se ne sapessimo noi qualche cosa, che non ci dicevamo niente e l’uno dell’altro non conoscevamo che le ciarle di terzi!) ma in fondo inoffensivi... Errore! Perché il Talpone stava diventando ancora più pericoloso ― e i primi ad accorgersene furono i suoi cari sera dopo sera, quando rincasava dopo gli aperitivi e riprendeva a sbraitare più velenoso che mai ― e quel che andava architettando era destinato a far sembrare scherzetti, al confronto, le scatole vuote che per anni ci aveva rifilato a mille lire l’una.

 

Fu allora, infatti ― ai tavolini in piazza nelle sere d’estate, e in inverno nelle calde stanzucce affollate delle osterie, fumiganti di vino da due soldi ― che cominciarono a raccogliersi, intorno al Talpone, quelli che in poco tempo ne moltiplicarono la potenza distruttiva. Non perché valessero un granché (dato che in effetti non valevano niente) ma perché lo ammiravano così tanto che la venerazione li rendeva fortissimi, come un fanatico che danza al cospetto del dio e stordendosi e annullandosi si trasforma in una freccia su un arco teso all’estremo, pronta a scattare e a colpire: fortissimi, sì, ma solo a servire e ubbidire all’arciere, al Talpone, poiché a qualsiasi altra cosa una freccia non serve a niente, nessuno potrebbe mai amarla o anche solo cibarsene. Sto parlando dei suoi scherani, della Banda del Buco, dei Bucanieri ― proprio di voi, sì: ci sarà qualcuno di voi, fra chi mi legge, che fatichi come me su queste righe in cerca di un tratto di corda al quale impiccarmi ― sto parlando di quelli che noi, all’epoca, chiamavamo i Nullòmetri.

 

Non erano che goniometri, in realtà, e noi ― con un appellativo così strano e perfino temibile ― senza accorgercene li rendevamo ancor più tronfi e gonfi di quel che erano. Ma la parola rendeva l’idea, poiché essi, in effetti (da bambini come tutti gli altri) in pochi anni si erano (o erano stati) ridotti a nulla: nulla era ciò che facevano nella vita, nulla era quel che avevano nella mente e nel cuore, e nient’altro che nulla era quel che potevano vedere e misurare nel prossimo, e che invece eran proprio loro, senza avvedersene, a insufflare negli altri intorno a sé. Ragion per cui erano appunto dei veri Nullòmetri, dei Nullamensòri, dei Misuratori del Nulla!

 

Li accomunavano alcune cose: erano sui venti-venticinque anni; puzzavano un po’, forse di ammoniaca eliografica; non facevano un tubo da mane a sera ― non perché disoccupati, poiché si può esserlo ed esser tuttavia molto attivi e pieni d’interessi, ma perché niente li appassionava tranne lo sgranare i cupi occhi allupati sulle femmine, farsi le seghe ogni volta che andavano a far pipì e ciarlare tutto il giorno: a ruota libera e tuttavia trattenuti, per frasi aride, secche, come pettegole e comari cui sia stato imposto da un dio un invisibile bavaglio; e tutti, dopo la scuola dell’obbligo, si erano iscritti a un istituto per goniometri, un indirizzo oggi defunto; e goniometri, prima o poi, col calcio o la spintarella, erano tutti fatalmente diventati. Però di lavorare non gli andava, neanche quel po’ di calcoli servili che facevano i goniometri per chi li stipendiava; e noi, perciò, li chiamavamo i Nullòmetri.

 

Ma il Talpone ce l’aveva, in mente, qualcosa da fargli fare. E pontificava e li erudiva per ore e ore, la sera, al bar o all’osteria; e i Nullòmetri, sempre più numerosi, prendevano le sedie dagli altri tavolini e le mettevano a raggiera intorno al suo, che sera dopo sera assomigliava sempre di più a uno di quegli ostensori da cui si dipartono infiniti raggi d’argento di tutte le lunghezze. Erudiva, preparava, scavava nei cuori, nelle menti, e a mano a mano tendeva quei giovani disperati come frecce su un arco. Si preparava a scoccarli su di noi, su Modèrnoli, su tutta la Valle. Ma che cosa gli dicesse non si sa. Niente, io credo. Poiché il Talpone, in fondo, che aveva da dire? E loro che avevano, con cui ascoltare e capire? Così si fanno schiavi gli uomini, da quando non li si può più asservire con la forza: scavandogli dentro dei grandi buchi pieni di niente; e allargando, se del caso, quelli che i tonti si scavano da sé.

 

Intanto a Modèrnoli seguitavano ad accadere brutte cose. Ma chi se ne accorgeva? Come al solito, per vergogna e sfiducia, ognuno teneva tutto per sé e nessuno sapeva niente degli altri. Ciò che sto per dirvi, infatti, siamo in pochi a saperlo, e noi pochi l’abbiamo più immaginato che visto e sentito.

 

Succedeva, cioè, che nelle case e nelle vite dei Modernolani si aprivano ogni giorno nuovi buchi, e sempre più grossi. Solo che questa volta, all’apparenza, il Talpone non c’entrava. Il fenomeno pareva casuale.

 

Sparivano degli oggetti. Mai preziosi, a dire il vero. Ma sempre importanti. Chi li perdeva non subiva un danno economico ― talora, anzi, come vedremo, iniziava in quel momento ad arricchirsi ― ma s’impoveriva nel cuore e nella mente come se gli avessero asportato un pezzettino di cervello.

 

Erano oggetti che avevano a che fare con la memoria.

 

Spariva, per esempio, l’album sul quale due giovani sposi registravano ogni piccolo progresso del figlioletto appena nato e disponevano le sue prime foto. Sparivano, in casa di un’anziana coppia, le poesie d’amore di quando erano fidanzati. Spariva la lettera a Babbo Natale, riapparsa in fondo a un cassetto quando da tempo chi l’aveva impersonato non c’era più. Sparivano, un po’ dappertutto, i libri letti da bambini, le foto dei compagni di scuola, la minuta ingiallita del tema che un bel giorno aveva preso un dieci e lode. Non dei semplici, un po’ sciocchi souvenir, i Ponti di Rialto fatti di latta o le Pietà di Michelangelo di coccio, ma degli oggetti che avevano un vero contenuto, che raccontavano qualcosa di vero, che racchiudevano come una perla un attimo di vera storia umana... Sparivano, ed era tutto. Chi notava la cosa, per un po’ li cercava, domandava in giro. Poi lasciava perdere, dimenticava, e al posto di ciò ch’era scomparso gli restavano in casa dei buchi neri pieni di nulla.

 

E nei buchi invisibili aperti nelle case non s’inciampava coi piedi, ma con la mente: il ricordare, il fantasticare, il pensare, s’interrompevano di continuo, idee e intuizioni sparivano senza lasciare traccia, i sentimenti si facevano esili, si sfilacciavano come gli ultimi candidi fiocchi di piccole nubi dissolte dal vento. Gli uomini, le donne, i bambini si svuotavano giorno dopo giorno: un pezzetto dopo l’altro, perdevano nei buchi sé stessi, si buttavano via. Ogni giorno sembrava loro nuovo, poiché quasi nulla riusciva in loro a superare la notte; e alcuni, illudendosi perciò che le loro vite ricominciassero ogni mattino daccapo, al posto dei sentimenti perduti si colmavano di un’euforia da ubriachi; ma poi, la sera, li coglieva un inconscio orrore di sé stessi e non riuscivano a prender sonno: poiché la notte fa paura, quando vi si arriva senza aver sentito né pensato niente.

 

Il fenomeno, dicevo, pareva casuale. Nessuno lo collegava al Talpone, alle sua casa piena solo di urla e di tosse, alle sue passeggiate, alle lunghe lezioni quasi mute che teneva ai Nullòmetri nelle osterie. E nessuno, come ho detto, ne parlava a nessuno: chi se n’accorgeva, si vergognava di star sparendo così, come acqua sudicia nello scarico; e taceva, sperando che gli altri non se ne avvedessero, anche a costo di non poter chiedere aiuto; e chi invece non se n’accorgeva, taceva perché non aveva niente da dire e perché il niente non lo spaventava, non lo vedeva, era anch’esso qualcosa che scivolava via, come tutto il resto, a poco a poco in un buco come se niente fosse.

 

Ma il Talpone e i Nullòmetri c’entravano e come! Era il Talpone che scavava buchi nei Nullòmetri riempiendoli di vuota ammirazione per lui. Ed erano i Nullòmetri che tornavano a casa dai genitori e mai gli dicevano una sola parola di bene o di male; che uscivano con gli amici e senza dirsi o combinar mai nulla, che desse una svolta o almeno un sobbalzo alle idee e agli affetti, li sbattevano di qua e di là come si fa coi polipi per ammorbidirli; che per ore si trascinavano dietro le fidanzate senza saper che farne, solo per istupidirle nello sconforto di scoprirsi così poco belle e vivaci da non poter suscitare in loro un solo guizzo di passione... Erano i Nullòmetri, insomma, che andavano in giro a scavar negli altri gli stessi buchi che il Talpone scavava in loro. E Modèrnoli, di giorno in giorno, si andava tramutando in un colabrodo. Solo che quel che colava da tutti quei forellini non era un buon brodo, come lo facevano le buone nonne ai tempi in cui le televisioni di Bertuccioni non gli avevano ancora insegnato a togliere il cibo di bocca ai nipoti per papparselo da sole solette: quel che colava da tutti quei buchi era la nostra umanità, e ciò che ne restava era un sussultare di qua e di là come pupazzetti meccanici sbattendo ogni volta nel muro e incaponendosi a sbatterci ancora, e ancora, e ancora, finché le pile si esaurivano e contro il muro si restava immobili, fissi, a guardare il nulla.

 

Intanto il Talpone, scarpinando sù e giù, aveva infine trovato dove scavare il Buco più grande di tutti. Ragion per cui un brutto giorno ― zitto zitto quatto quatto ― assunse il primo Nullòmetra e il primo autista, comprò la prima scavatrice e il primo autotreno, e diede inizio ai lavori.

 

Era un collina alle spalle del paese. Vista dalla Valle sembrava lo schienale del trono di Modèrnoli, il grande schienale verde a cui il paese si appoggiava come un re un po’ anziano, stanco, ma ancora fiero della sua regale dignità e colmo per il popolo di generosa attenzione. Solo che non era sempre verde: a primavera fioriva di tutti i colori, in estate si faceva biondo, in autunno era rosso cupo, in inverno ingrigiva. Ma poi tornava a verdeggiare, non moriva mai, e per Modèrnoli era il possente sostegno su cui il paese cresceva forte e diritto da bambino, si riposava quand’era adulto e si sorreggeva da vecchio, così che anch’esso, il paese, come il colle non moriva mai, e le generazioni che vi si susseguivano ― e che col tempo, come tutte le generazioni, a un dato momento restavano orfane ― si sentivano seguite e protette come se i loro padri e i nonni avessero lasciato a guardarle un gran genio possente, un buon demone boschivo più benevolo che burbero: un dio vero, materiale, fatto di natura e di storia; non molto attivo, è vero ― del resto, quale dio si dà tanto da fare per noi? ― ma in compenso sempre presente e visibile.

 

Fu proprio quel Colle ― guarda caso ― che il Talpone e i Nullòmetri decisero di scavare. Cominciarono di notte, come ladri, con immensa e spaventosa fretta non si sa di che. Ci svegliò che non era ancora l’alba il baccano urlante e tossicoloso della ruspa, e tutti fummo presi dal terrore ― udendo l’immane frastuono venir giù in piena notte ― che per la fatica di sorreggere noi, così pesanti e noiosi, il Colle alla fine si fosse schiantato e ci rovinasse sui tetti e sulle teste in mille pezzi grossi come case. Così com’eravamo, in mutande o in camicia o tutti intabarrati ― a seconda del sesso e dell’età ― ci precipitammo fuori urlando come maiali trascinati a morte e scappammo di qua e di là, senza saper dove andare, tornando sui nostri passi, sbattendo gli uni negli altri senza più riconoscere i padri i figli e viceversa. Finché qualcuno ― io, forse, ma non ne sono sicuro ― capì quel che stava accadendo, riuscì a poco a poco a calmarci e ci guidò, su per il paese, fino alla Piana e al Colle a vedere il fatto coi nostri occhi stralunati.

 

Aveva solo poche ore, lo scavo malefico, e già ci parve immenso: una ferita straziante, uno squarcio nel fianco di un essere al quale non avevamo mai pensato molto, ma che adesso, in quella sua parte a un tratto nuda, bianca, esposta ― simile, nel livido chiarore dell’alba, a un costato da cui fosse stata asportata una libbra di carne ― ci sembrava orribilmente vivo e dolorante: come un padre sul letto di morte, che ti guarda e intende ma che già non può più parlare, e tu comprendi, tenendogli la mano, che non puoi fare neanche una briciola, per lui, di tutto ciò ch’egli ha fatto per te.

 

Vi abituerete! ci consolò sorridendo il Talpone puntandoci addosso una di quelle torce, grosse come cannoni ― e come i mazzi di chiavi, e gli orologi e i bracciali d’oro, e i fuoristrada e i mercedes ― che ostentano quelli che di grosso non hanno altro: Vi abituerete, come a tutto il resto! E il suo tono, nello sputare tossendo questa profezia, fu dolce, assurdamente affettuoso: quasi gli facessimo pena, alla fin fine, come fa pena al porcaro il maiale, a lungo nutrito e curato, che è giunta l’ora di scannare.

 

*

 

Torna in cima alla pagina     Home

 

*

 

3. Nicola, solo contro Tutti

 

Il buco crebbe, divenne il Grande Buco che incombe su tutta la Valle, fece del Colle una voragine, e in bilico sulla voragine lasciò il nostro piccolo, caro paese. Poi cominciò a penetrare sotto il paese, a fare il vuoto sotto le case, e dai buchi che da tempo eran dentro le case cominciarono a uscire rimbombi cavernosi, miasmi venefici, echi di urla infernali, visioni terrificanti, ciechi ed enormi insetti che nessuno aveva mai visto prima.

 

L’autotreno e la scavatrice raddoppiarono, quintuplicarono, decuplicarono. Le vie della Valle si riempirono di enormi veicoli, fumanti veleno e rombanti furore, che la notte e il dì, dal Buco a chissà dove e da chissà dove al Buco, facevano la spola carichi di niente e tornavano vuoti a caricarne dell’altro: pericolo mortale per chiunque incrociavano, perché il peso del niente li faceva sbandare in curva, li sfrenava in discesa, li sforzava a correre ― per l’ansia di liberarsene, ovunque fosse, al più presto possibile ― come dannati sotto le verghe dei satanassi. E gli autisti ci diventavano cattivi e violenti anche se non lo erano né volevano, perché la fretta è una droga che scava buchi, nel cuore e nella mente, da cui esce e rimane indietro ogni cosa buona, perfino le tenere voci dei figli che ti salutano sulla porta al mattino. E chi non riusciva a farsi cattivo doveva cambiar mestiere per non morirci a una svolta della strada, su quei camion pieni di niente, magari contro un collega che veniva in senso inverso legato al volante come un forzato: come l’autista, chiamato Stérpolo per un suo avo magro come uno stecco ― il papà di quel Nicola di cui fra poco vi parlerò ― che un giorno disse al figlio che lasciava il volante per non lasciare orfano lui; e che i Nullòmetri odiarono, per questo, come schiavi che ne vedono un altro spezzare la catena che essi non hanno il coraggio nemmeno di guardare e di sentirsi addosso.

 

I primi tempi, ingenuamente, domandavamo a chi e a che cosa potesse mai servire, tutto quel niente. Non potevamo credere che vi fosse, al mondo, della gente disposta a pagare ― e a pagare un bel po’, vista la crescente ricchezza del Talpone e della Banda del Buco e il numero sempre maggiore di persone che salariavano per scavare e trasportare o per garantirsi la riconoscente docilità del maggior numero di Modernolani ― per acquistare il niente che fuoriusciva dal nostro Colle e ne prendeva il posto nel mondo.

 

Allora, con l’insolente alterigia con cui risponde alle domande chi nulla sa, i Nullòmetri ci spiegarono che quel niente non era affatto niente, ma utile e produttivo. Che con esso s’innalzano possenti edifici, si tracciano strade e ferrovie più veloci del lampo, si gettano viadotti che fan concorrenza agli aerei, si sostengono le volte di gallerie così lunghe da far dimenticare, a chi le percorre, la luce del giorno. Che tutto ciò, ed è la cosa più importante, dà lavoro a migliaia, a milioni di uomini e donne. E che noi dovevamo gioire, anziché lamentarci, all’idea che Modèrnoli ― che proprio in quel periodo dismetteva l’antico nome per voto unanime dei suoi nuovi amministratori, eletti dalla cittadinanza ma scelti dal Talpone ― stesse finalmente uscendo dalla stagnante immutabilità dei luoghi abbandonati dalla Storia per entrare a passo di carica nel nuovo millennio insieme all’Italia tutta!

 

Parole che aprirono gli occhi anche ai più restii, mostrandoci il nostro caro paese come una miracolosa cornucopia che sul mondo riversava la materia prima del Progresso e su tutti noi l’abbondanza, il benessere, la sicurezza, il futuro dei figli, la felicità. Basterà, pensammo, aver fiducia nel Talpone e nei Nullòmetri ― che nessuno chiamava più così: lui, adesso, era per tutti il Commendatore, posava un’ora al giorno per un ritratto destinato ad abbellire la sala consiliare e trattava da pari a pari, talvolta dall’alto in basso, uomini e donne che avevan lavorato onestamente per tutta la vita; e loro i nostri bravi e solerti amministratori, invidiati e ammirati dagli stessi che un tempo li guardavano bighellonare per il paese con l’aria con cui si seguono gli spostamenti di uno scarafaggio sul bancone di un negozio di alimentari ― basterà, pensammo, aver fiducia nel Commendatore e nei suoi collaboratori: e tutto, per sempre, andrà nel migliore dei modi nel migliore dei mondi.

 

Solo che il Colle non c’era più. Non c’erano più i suoi boschi, i fiori, i colori, i profumi, gli animali, i quieti sentieri, i ruscelli, le brezze gentili, il benevolo ammiccare del sole attraverso il fogliame, le carezze delle nubi sulle chiome degli alberi, i suoni, gli scricchiolii, i bisbigli. Al loro posto c’era un immane Buco del colore della cacca fresca, pieno di niente. E ciò non soltanto non era bello da vedere, ma lasciava Modèrnoli senza protezione: in inverno, adesso, s’infilava dappertutto una tramontana così gelida che gli affetti diventavano fragili, in estate uno scirocco così asfissiante che il pensiero si riduceva a un rigagnolo. E per tutto l’anno una polvere finissima si depositava sui balconi e sui davanzali, sui fiori nei vasi e sulla pelle delle ragazze, negli angoli degli occhi e nei solchi delle labbra, nelle sinapsi fra i neuroni e nei legami atomici del DNA: polvere di niente, così tenue che non la si vedeva senza sforzarsi gli occhi fino alle lacrime e il pensiero fino a crollare dal sonno, e tuttavia più malefica dell’amianto: dove si raccoglieva, là scavava buchi; e i buchi erano ormai così fitti che si univano in buchi più grandi, e i grandi così larghi che cominciavano a precipitarvi i gatti, i cagnolini di casa; e di notte, in senso contrario, a farne capolino incubi e succubi sempre più abnormi.

 

Ma il Talpone aveva colto nel segno: Vi abituerete anche a questo! aveva detto. E noi, infatti, come funamboli, ci stavamo abituando a vivere su quella fitta trama di buchi piccoli e grandi con la stessa insostenibile levità con cui ci stavamo assuefacendo a patire in ogni cibo il medesimo insulso saporino di niente che la polvere che si alzava dal Grande Buco depositava perfino nei piatti. Non potevamo far confronti con i sapori, gli odori, i colori di una volta: la memoria, come vi ho detto, si stava dileguando nei buchi come una collana di perle nello scarico di un lavandino ― perfino la memoria del gusto, che con quelle dell’olfatto e del tatto è la più tenace ― e insieme ai ricordi svaniva l’interesse per il presente, la speranza nel futuro, l’amore, il senno, la fantasia... Tutto, stavamo perdendo! Tranne quella strana e violenta agilità da equilibristi folli, inquietante perché inconscia, con cui scansavamo anche i buchi più larghi senza vederli ― non li vedevamo, infatti; non volevamo vederli ― e la fretta da formiche impazzite che ci incalzava senza scopo né meta: sempre in ansia, sempre in cerca, sempre impauriti senza saper di che cosa, sempre allupati, sempre poveri, sempre cupi.

 

Avevamo più soldi, in compenso. Modèrnoli era più ricca. Nessuno restava senza lavoro, perché il Talpone e i Nullòmetri avevano sempre qualcosina da fare, per chiunque la chiedesse. Certo: quell’elemosina di prosperità ― alla Banda del Buco la torta, ai dipendenti le briciole sulla tovaglia e a noi quelle per terra ― pronta cassa ce la facevano scontare i buchi che si aprivano nelle case, nelle teste, nelle vite; le cose belle e di valore, materiali e non materiali, che nei buchi a una a una cadevano e sparivano rendendoci sempre più agili, più efficienti, più produttivi, più vuoti; e soprattutto la trasformazione dei nostri figli in tanti piccoli Nullòmetri senza cuore né fantasia... Ma chi se ne accorgeva? La prima cosa che il Talpone ci aveva sottratto ― umiliandoci per mille lire con le sue scatole vuote ― era stato il senso del valore di un essere umano: e dunque quale valore potevamo più attribuire ai nostri poveri figli, noi che perfino noi stessi calcolavamo ormai solo in denaro?

 

Qualcuno tentava di metterci in guardia ― io, forse, ma non ne sono sicuro ― avvisandoci che quelle dei Nullòmetri erano bugie grosse come le ganasce delle ruspe che sbranavano il Colle. Che il niente, che gli smisurati autotreni esportavano in tutta Italia, non serviva che a seppellire sotto una spessa e dura coltre color sudario le spiagge e le praterie, le foreste come le lagune, le rovine di antiche città e le speranze di chi avrebbe voluto le nuove non meno splendide di quelle di un tempo. A far sparire ciò ch’è bello, significativo e fantasioso per mettere al suo posto il brutto, l’insensato, il grottesco. Ma noi non gli davamo retta: il Grande Buco era il nostro dio, e i piccoli buchi che si aprivano dappertutto i demoni invisibili che ci depredavano di tutto.

 

Eppure alcuni di noi resistettero ― ben pochi, a dire il vero, ma fra pochi e nessuno la differenza è pur sempre infinita ― e continuarono a mostrarsi in disaccordo, a proclamare a gran voce che le cose non andavano bene come dicevano gli altri, a chiedere che la gente si svegliasse da quell’incubo che credeva un bel sogno, che lo sconcio del Colle, di Modèrnoli e della Valle una buona volta finisse, che le autorità intervenissero. Ma le autorità latitarono, o risposero picche, e capimmo che anch’esse, nel Gran Buco che ci mangiava vivi, dovevano aver trovato il loro miserabile tornaconto.

 

Adesso i ragazzini di Modèrnoli, se interpellati circa la scuola superiore a cui si sarebbero iscritti dopo le medie, rispondevano: L’istituto tecnico per goniometri! Tranquilli, sicuri di sé! Nessuno che da grande volesse più fare il medico, il pilota, il mago, l’avvocato, lo scrittore, il pompiere, il macellaio, l’attore, il giudice, il carabiniere, il bancario, il domatore di leoni... Tutti goniometri! Perché i goniometri diventano ricchi, comprano bei macchinoni, orologioni e braccialoni, e riempiono il mondo di costruzioni!

 

Glielo dicevano i genitori, lo ripetevano i fratelli maggiori, lo ribadivano gli amici: come il paese e la Valle, il mondo sarà dei goniometri! Anzi: il mondo è dei goniometri! E i piccoli non sognarono né immaginarono né sperarono più di fare un giorno le cose belle che fanno gli umani, piene d’amore e invisibili e profondi significati, ma solo i freddi calcoli che sa fare anche un ragno nell’attimo fulmineo che precede il balzo sulla farfalla variopinta, impigliata nella tela di buchi ordinati, precisi, calcolati con cura da un sistema nervoso che funziona da sé, senza bisogno che il ragno immagini che cosa fa e perché lo fa: i freddi calcoli servili, senza amore né fantasia, che fa il goniometra per far buchi pieni di niente dove prima era il bello e poi tirar sù, al di sopra dei buchi, le sue tele fatte di niente... Non sarebbe stupendo, un mondo così? Un mondo dove non vi fossero che Nullòmetri che ne sfruttano altri, o che dai Nullòmetri si lasciano sfruttare? E tutti scavassero buchi piccoli e grandi, in un immenso labirinto sotterraneo in cui tutti si perdessero da qualche parte per emergerne poi da qualche altra tramutati in ciechi ed enormi insetti?

 

Eppure, fra i tanti piccoli Nullòmetri di Modèrnoli ― che non sognavano di diventare come i Nullòmetri grandi perché ormai non sognavano più, ma che a quel tristo futuro si avviavano senza rendersene conto, come s’infilano nei colli di bottiglia gli insetti ciechi ― ce ne fu uno, di nome Nicola (era il figlio di Stérpolo, ricordate?, e aveva dieci anni o poco più quando compì l’impresa che forse terminerà il prepotere della Banda del Buco) che era diverso dagli altri, anche se non amava esserlo; e che un brutto giorno, forse proprio in quanto diverso che ai buchi non si adattava, precipitò in un enorme buco che in casa sua si era aperto in salotto, davanti al televisore.

 

Non fu certo il primo. I bambini di Modèrnoli, dai neonati agli adolescenti, già da mesi sparivano nei buchi senza che alcuno se ne accorgesse.

 

Era entrato in salotto per spegnere il televisore, che la madre aveva acceso dieci ore prima quando si era alzata. Lui nel frattempo era andato a scuola, era tornato, aveva pranzato e fatto i compiti. Il televisore gli aveva impedito di chiacchierare con la mamma, e Nicola aveva pazientato. L’aveva distratto mentre faceva i compiti, e Nicola era riuscito lo stesso a portarli a termine, anche se nel doppio del tempo. Ma adesso non gli lasciava leggere in pace l’ultimo romanzo di Franziska Lapierre, La casa di fronte ― storia di due fratelli che spiavano certi loro vicini sospettando che fossero diversi dai loro genitori ― e questo non poteva proprio sopportarlo, era a un punto cruciale, Alain e Françoise si erano nascosti dietro un divano in casa dei Marmadon e con immenso stupore e paura ascoltavano i loro discorsi così strani, così misteriosi: discorsi che in casa propria non udivano mai, pieni di cose che i due bambini non sapevano nemmeno che cosa fossero!...

 

So che vi sarà difficile credere all’esistenza di un bambino che si comporta così. Ma la storia è verissima (non credete a quello che il prof ― Scialoia, o Scialanca, o come diavolo si chiama ― mi ha costretto a scrivere lassù in cima: la storia è verissima!) e se oggi Modèrnoli ha un barlume di speranza di liberarsi dal Talpone, dai Nullòmetri e dalla Banda del Buco, è a Nicola che lo dobbiamo, e al suo non essere un bambino come gli altri.

 

La casa, come quasi tutte le case di Modèrnoli, era ormai così piena di buchi grandi e piccoli che pareva una zanzariera contro la quale avessero sparato con una mitragliatrice. Una zanzariera su cui gli oggetti, le stanze, le pareti e le persone erano ancora visibili, ma come una tenue, quasi impercettibile filigrana multicolore sospesa sull’immenso niente del Grande Buco. Alcuni di quei fori erano così larghi, che qualche giorno prima vi era precipitata la gatta di Nicola, Pancina. Da quel momento nessuno si era più occupato di lei, le aveva più dato da mangiare o aveva più badato a non pestarle la coda: i genitori di Nicola, quando la vedevano, ne parlavano come se fosse morta; e la gatta, smentendo l’indifferenza che molti attribuiscono ai felini, pareva soffrirne parecchio: si era fatta lunatica, lamentosa, si strofinava sulle gambe di tutti dalla mattina alla sera, era un’anima in pena. Solo Nicola continuava a prendersi cura di lei e anzi l’amava di più, poiché Pancina d’altro canto era l’unica, in casa, che come lui scorgeva le orribili creature senz’occhi che ogni notte sciamavano dal Grande Buco, l’unica che le combattesse; e ne faceva strage, meno male!, ma senza cibarsene, perché le facevano schifo.

 

Da giorni, ormai, anche Nicola doveva muoversi con molta attenzione, per non cadere in qualche buco. Ce n’erano di enormi, e mai nello stesso punto per più di un’ora o due: si muovevano, si spostavano attraverso la casa; o forse era la casa e chi vi abitava che erano ormai un velo troppo lieve per non oscillare e tremolare a ogni filo d’aria; forse era solo per il peso di Nicola che la casa e i suoi genitori non si disfacevano in polvere e non se li portava il vento attraverso la Valle, sui balconi e sui davanzali.

 

Naturalmente l’aveva subito detto al padre ― alla mamma no, sarebbe stato inutile, credeva solo a quel che vedeva e sentiva nel buco catodico ― ma non gli aveva dato retta neanche lui. Non era più lo Stérpolo che aveva lasciato il camion in cerca di un lavoro che gli facesse sentire di star creando qualcosa, invece di scavare vuoti buchi e tirar fuori e trasportare ovunque il niente. L’invidia dei Nullòmetri e dei compaesani per la sua iniziale felicità, per loro oscena e inammissibile, e soprattutto l’astio della moglie, che lo accusava di condurli alla rovina, l’avevano schiantato. Era caduto in depressione, e gli psicofarmaci che assumeva (credendo che non andasse in lui quel che invece non andava negli altri) lo stavano facendo impazzire provocandogli continui attacchi di attivismo meccanico, frenetico, follemente allegro: a correre e a dannarsi di qua e di là in cerca di piccole incombenze d’ogni sorta, non di rado ubriaco, svendendosi per quattro soldi agli stessi Nullòmetri che aveva piantato in asso, e scontentandoli, e sopportando in silenzio le sfuriate e gli scherni finché piombava di nuovo nel buco di nero dolore che gli scavava in mente l’impossibile scelta tra morire per loro o morire di fame.

 

Eppure aveva trovato la forza di preoccuparsi per Nicola, quando il figlio gli aveva detto dei buchi sparsi per casa, dei visibili e invisibili orrori che ne uscivano di notte, di Pancina che ci era caduta dentro e della sua paura di precipitarvi lui stesso. Si era preoccupato, sì, ma come per un dubbio che il bambino dicesse sul serio, che avesse le allucinazioni, che davvero vedesse spalancarsi infernali voragini nei pavimenti tirati a lucido in cui la mamma si specchiava orgogliosa, beandosi ― come negli spot che uscivano dal buco catodico ― delle spettrali movenze del suo riflesso sulle brillanti piastrelle; e illudendosi, così, di esistere anche per sé stessa come esisteva per Nicola, suo unico figlio, i cui occhi erano il solo specchio, quando riusciva per un attimo a distogliere lo sguardo dal buco catodico, in cui ancora talvolta si rivedeva viva, vera: la splendida giovane donna che anch’ella era stata ― Modèrnoli, il paese delle ragazze belle, dicevano un tempo ― prima che la grigia polvere di niente che veniva dal Grande Buco le riempisse gli occhi, i pori della pelle e perfino il suo cuore di madre. Così tanto si era preoccupato per il figlio, Stérpolo l’ombra di sé stesso, che aveva detto che l’avrebbe portato dal dottore (da cui andavano tutti quelli che non reggevano il ritmo con cui il niente usciva dal Grande Buco) e che anche a Nicola avrebbe fatto prescrivere le pillole che prendeva lui. E il bambino allora aveva smesso di parlargli, si era tenuto per sé la paura che gli cresceva dentro e aveva preso a muoversi per casa con estrema cautela, come Pancina; che era la sola, ormai, di cui si fidava.

 

Ma quel giorno, quando per spegnerlo si avvicinò in salotto al televisore, l’abisso si spalancò d’un tratto sotto di lui dove un attimo prima non c’erano che minuscoli forellini neri: e Nicola scomparve, e nessuno lo vide più.

 

Nessuno andò alla sua ricerca. Non si levarono in volo gli elicotteri. Polizia e carabinieri non organizzarono battute in quel che restava dei nostri boschi e non scandagliarono il fiume. A Modèrnoli i bambini sparivano già da un po’ di tempo, ma nessuno se ne accorgeva: come i gatti e i cani, come i ricordi e gli affetti, da un momento all’altro era come se non fossero mai esistiti. E se qualcuno, specialmente fra i bambini stessi ― ma erano sempre di meno ― per due o tre giorni aveva la vaga impressione che mancasse qualcosa, tuttavia si guardava bene dal parlarne per non essere irriso e scacciato da tutti.

 

Da quel momento Nicola dovette arrangiarsi, per sopravvivere. E scoprì ben presto che la sua brutta situazione almeno questo aveva di buono, che trovar da mangiare e da dissetarsi era la cosa più facile del mondo: bastava entrare in un bar, o in un alimentari, o in una pizzeria, e servirsi da solo, senza far complimenti: tanto, chi lo vedeva o lo sentiva più? E della pizza o dei gelati o dei tramezzini che si portava via senza pagarli, chi mai se ne accorgeva, tra le infinite immagini e idee che a ogni istante si dileguavano nei buchi dalla mattina alla sera? Al calar del sole tornava a casa per dormire, approfittando del fatto che a Modèrnoli porte e portoni eran sempre aperti, di giorno e di notte, che in casa ci fosse qualcuno oppure no, perché nessuno di noi, pur fra le terribili cose che stavano accadendo o forse proprio per quelle ― lo so che anche questo vi parrà incredibile, ma vi giuro che è vero! ― aveva il minimo timore che per le vie del paese potessero mai aggirarsi dei malfattori.

 

La solitudine, invece, era tremenda. Non poter parlare con nessuno! Nicola lo faceva lo stesso, rivolgeva la parola a tutti ― anche a quelli che una volta gli incutevano soggezione ― ma chi gli rispondeva? Solo Pancina. E la cosa più brutta non era questa ― ci era abituato, accadeva spesso anche prima che le sue parole cadessero in un buco, nel cuore o nella mente dei suoi ― ma che nessuno lo guardava negli occhi! Si domandò a lungo come mai fosse proprio questa, la cosa peggiore, e alla fine si rispose che era quella che più lo faceva sentire abbandonato e sperduto. E aveva ragione, perché gli occhi degli altri sono il solo specchio in cui un essere umano possa vedere sé stesso.

 

Una volta, mentre svogliatamente si dondolava sull’altalena del minuscolo parco giochi dietro San Proclo, fra una decina di bambini di tutte le età che non se lo filavano per niente ― e che non vedevano neanche l’altalena, aveva scoperto, se era lui che ci stava sopra ― un biondino sugli otto anni, che faceva la terza e aveva con sé la sorellina di un anno più piccola ― come Alain e Françoise, pensava sempre Nicola quando li incontrava ― a un tratto lo guardò negli occhi con l’aria di un piccolo colpevole, quasi che Nicola l’avesse sorpreso a fare una di quelle cose che i bambini giudicano davvero disdicevoli: che so io?, rubare la sedia a qualcuno quando si alza, o andarsi a tirar fuori quatti quatti ciò che un amico ha nascosto in un rifugio segreto... E invece Matteo aveva quell’aria infelice, da monello colto sul fatto, solo perché vedeva lui, Nicola, e si rendeva conto di essere il solo a vederlo, e temeva che gli altri se ne accorgessero e lo scacciassero, o lo dicessero a tutti e lo prendessero in giro per i secoli dei secoli: Nicola capì tutto questo in un istante, mentre il suo sguardo stupito si trasformava in una muta preghiera: Guardami, Matteo, ti scongiuro! Non smettere di guardarmi! Mai, fin allora, aveva sentito così tanto la mancanza degli occhi altrui su di sé come ora che li ritrovava! Era più del sonno, più della fame, più della sete: era un piacere che toglieva il respiro dal dolore, per il bisogno che durasse!

 

Ma non durò: il piccolo Matteo distolse lo sguardo da lui ― aveva solo due anni meno di Nicola, ma i bimbi di otto son così piccoli, al cospetto di quelli di dieci, da dover alzare la testa per guardarli negli occhi ― ebbe paura di continuare a vederlo e fece come gli altri che davvero non lo vedevano: per non essere diverso, si mimetizzò fra di loro.

 

Per un attimo Nicola ebbe voglia di andare a dargli uno strattone, perché sapeva che il piccolo Matteo, ancora per un po’, non avrebbe potuto non sentirlo. Non come i suoi genitori, almeno, che ormai non vacillavano più neanche se li caricava a testa bassa come un ariete... Ma subito cambiò idea per un’altra, che gli parve stupenda ― è l’impressione che fanno le idee disperate, che si confondono così facilmente con le buone proprio per questo, perché quello di fiondarsi in un guaio è un istinto come quello di schizzarne fuori al più presto possibile ― la migliore idea che avesse mai avuto: andare al Grande Buco, sùbito, di corsa, e da piccolo ma vero eroe ― qualcuno, forse il maestro Armando, gli aveva raccontato di un bimbo che un giorno, da qualche parte, si era imposto così a una fila di carri armati ― piazzarsi davanti alle scavatrici e agli autotreni e fermarli una volta per sempre.

 

Fece la salita tutta di corsa ― quella che dalla piazza s’inerpica alla Piana, così ripida che un tempo vi s’impuntavano perfino i muli ― e non si accorse, nella concitazione, che non solo lo seguiva la gatta (senza troppo affrettarsi e tuttavia senza perderlo di vista) ma anche un’ombra che non avrebbe potuto farlo ― dato che non lo vedeva più nessuno, a parte gli animali ― e che invece lo faceva lo stesso, circospetta, nascondendosi dietro gli angoli ogni volta che il bambino volgeva l’ansioso profilo da un parte o dall’altra. Poiché aveva paura, Nicola, che qualcuno all’improvviso gli saltasse addosso per bloccarlo, sentiva che era possibile ― e l’ansia virava a terrore al pensiero che l’attacco potesse sferrarglielo la regina madre delle creature che pullulavano di notte dai buchi ― ma di voltarsi no, non gli passava neanche per l’anticamera del cervello. E così non si accorse di essere seguito finché d’un tratto, a un passo dallo sterrato che portava al Grande Buco, nel frastuono, nel gran polverone alzato dai camion in corsa pieni di niente e fra i ruggiti ancor lontani ma già paurosi delle scavatrici che lo estraevano, due braccia da adulto si chiusero intorno a lui come due chele costringendolo a fermarsi e a voltarsi.

 

Era Benito, il capo dei Nullòmetri: il più stupido e violento ― come un tempo ben sapevamo, anche se ora non se ne ricordava quasi nessuno ― e non a caso anche il padre di due bullacci gemelli di terza media che a scuola e fuori perseguitavano i bambini più piccoli fino a schiudergli in corpo la voglia rabbiosa di diventar cattivi come loro o altrimenti sparire, com’era successo a Nicola. Era Benito, insomma ― avete capito, no?, in paese lo conoscete tutti! ― e dunque era quello che meno di qualsiasi altro sarebbe dovuto riuscire a scorgerlo: non lo vedevano più neanche il padre e la madre, com’era possibile che lo vedesse una bestia come quello? Eppure lo vedeva... O meglio: a pensarci bene, dopotutto, forse non lo vedeva affatto!

 

Fermo là! urlava l’energumeno. E lo ripeteva, alzando la voce sempre di più, ché di parole non ne aveva mai avute molte ma di fiato ne aveva tanto, e quando non lo cacciava in chiesa per cantare le lodi di Dio lo usava così, per far paura ai piccoli: Fermo là! ripeté per un pezzo, tenendo il bambino così vicino alla bocca che Nicola si sentì con orrore penetrar nella propria il lezzo di niente che ne flatulava. Poi si sbloccò, e gli venne alle labbra una frase che doveva avergli ficcato in testa il buco catodico: Dove credi di andare? urlò con tutte le forze, sbatacchiandolo di qua e di là come uno di quei salvadanai che regalava ai figli per poi divertirsi a scassinarglieli: Dove credi di andare? ripeté una decina di volte. E poi: Questa è proprietà privata!

 

Allora, all’improvviso, guardando gli occhi del tutto vuoti del vice-Talpone, il bambino capì: non lo vedeva, non lo vedeva affatto! Lo aveva seguito, sì, e in effetti l’aveva acchiappato, lo teneva stretto, stava parlando proprio con lui... Ma non lo vedeva! Era stato per una sorta di riflesso condizionato ― che Nicola naturalmente non sapeva neppure cosa fosse, lo chiamava raptus ― era stato per un automatismo nervoso ― come quello che in un microsecondo fa scattare il ragno, attraverso la tela, sulla farfalla colorata che la geometria dei buchi ha tratto in inganno e una lieve vibrazione ha tradito ― che Benito si era messo in moto al suono dei suoi passi: il Nullòmetra in capo non lo vedeva, pur fissandolo con bulbi da insetto; non lo sentiva, pur tenendolo fra le chele; bastava star fermo, trattenere il respiro ― come in Jurassic Park al cospetto del tirannosauro ― e l’invasato l’avrebbe perduto nel vuoto che aveva dentro!

 

Andò proprio così: dopo un po’ Benito smise di gridare e rimase immobile, continuando a tenerlo ma senza più sbatacchiarlo. Poi ― e fu una sensazione impressionante, simile forse a quella che potrebbe provare un frutto maturo quando sta per staccarsi dal picciolo ― la stretta cominciò a indebolirsi, ad afflosciarsi sempre di più, come se un liquido rifluisse dalle zampacce del Nullòmetra sgonfiandole a poco a poco... Ed ecco, a un tratto Nicola si ritrovò per terra, in piedi, a pochi centimetri dalle gigantesche ruote degli autotreni pieni di niente, e nello stesso istante Benito lo percepì di nuovo e fece per riacciuffarlo: ma Nicola ebbe un guizzo, fu più veloce di lui, gli lasciò tra le mani il classico pugno di mosche ― gli parve di vederlo, anzi, il Nullòmetra che acchiappava le mosche sulla sua tela di miriadi di buchi, mangiandosele crude una dopo l’altra ― e un attimo dopo era già lontano, correva come il vento lungo il bordo dello sterrato in direzione del Grande Buco.

 

E Benito appresso, naturalmente. Ma questa volta rimase indietro; e dopo qualche secondo, avvicinandosi a una svolta, smise di vederlo e di percepirlo e se lo dimenticò. Allora tornò sui suoi passi, mentre i camion lo sfioravano ricoprendolo di polvere di niente e una tosse peggiore di quella del Talpone gli squassava i polmoni; e nessuno si fermò, nessuno gli offrì un passaggio, nessuno forse lo vide neppure: non perché fosse sparito anche lui, ma perché agli autisti la fretta toglieva dagli occhi il mondo, fuori dalle strade, con la stessa efficienza con cui le ruspe lo divoravano nel Grande Buco.

 

Il Grande Buco! Nicola sbiancò, quando a un tratto se lo trovò davanti dopo una curva dello sterrato. Lui si ricordava il Colle, anche se sapeva bene che non c’era più: si ricordava di quando ci veniva col padre in cerca di funghi ― Stérpolo sapeva i posti, allora, e distingueva i commestibili dai velenosi, e adesso sembrava passato un secolo ma eran solo due anni, solo due anni ci aveva messo, la Banda del Buco, a mangiarsi tutto il Colle per farne niente, e Nicola a quei tempi ne aveva otto e si stancava presto di camminare, ma lo nascondeva perché il padre sarebbe stato fiero di lui, se ce l’avesse fatta, così come lui lo era del padre ― e per uno strano tiro dell’immaginazione si era aspettato di rivederlo intatto... Invece no: il Colle si era invertito in un abisso ― questo gli avevan fatto, il Talpone e i Nullòmetri: capovolto nell’opposto, la stessa cosa che alle persone ― e al di sopra dell’abisso, che in profondità era buio come il fondo di una cripta, il paese si stagliava contro il cielo azzurro del tardo pomeriggio come un castello in aria: come se solo un incantesimo, ormai, lo tenesse dal precipitarvi con tutte le case, le chiese e la piazza senza alcun rumore, pian pianino, come una tela di ragno staccata dai fili maestri che plana lentamente verso terra.

 

Laggiù, ben al di sotto delle case, il fronte compatto delle scavatrici avanzava frantumando la roccia. Ed era là, dunque, che Nicola doveva scendere per fermarle. Ma come avrebbe fatto? Non erano in coda, come gli sprovveduti carri armati di cui gli aveva parlato il maestro Armando, ma schierate l’una accanto all’altra: anche fermandone una, le altre avrebbero continuato ad azzannare le fondamenta del paese come se niente fosse. Non solo: era assai probabile che i ruspisti non lo vedessero nemmeno, dal momento che non lo vedeva nessuno ― a parte Benito, che però più che vederlo l’aveva percepito con le antenne da insetto che nei Nullòmetri fan le veci della sensibilità ― e che perciò coi loro denti d’acciaio sminuzzassero anche lui come la roccia senza neanche accorgersene! Che fare? Non aveva pensato a tutto questo, quando era corso sù per la salita come un razzo di San Proclo... E adesso non voleva morire triturato, questo no, ma non voleva neppure rinunciare!

 

Cominciò a scendere, camminando così vicino agli spuntoni di roccia ― con gli autotreni che continuavano a correre in un senso e nell’altro sfiorandosi a vicenda e sfiorando lui ― che più di una volta si fece male contro di essi. A un certo punto, anzi, si accorse di sanguinare: vide delle bestiacce uscire dai buchi, affollandosi attorno a quelle goccioline rosse come formiconi su un pezzetto di cocomero! Ma andò avanti, impavido, sempre più giù nell’abisso del Grande Buco, dritto verso le mostruose scavatrici che ruggivano sempre più forte come se stessero per esplodere dalla rabbia; e a un certo punto si accorse che lo splendore del giorno era alle sue spalle, che il Grande Buco era intorno a lui sempre più buio ― tranne dove le ruspe azzannavano in fila la roccia, tutte gialle e nere, alla luce delle fotoelettriche ― e che Modèrnoli invece era sopra: e Nicola guardava le case da sotto, come i pesci le barche, e vedeva che solo una tela di ragno di fittissimi buchi pieni di niente impediva loro di calare lentamente su di lui, disintegrandosi in polvere di niente molto prima di raggiungerlo; e sarebbe stata la fine, la fine del nostro piccolo paese e di tutti i suoi abitanti: sarebbe rimasto solo lui, Nicola, orfano e invisibile per il resto della sua vita; e la Banda del Buco, avanguardia di implacabili alieni dalle sembianze umane e il cervello da insetti, avrebbe continuato per sempre a mangiarsi l’Italia e forse il pianeta per farne niente.

 

Ma tutto questo era ancora poco, in confronto all’orrore che lo attendeva ancora più giù. A ciò che vide quando infine arrivò alle spalle delle scavatrici rombanti, sferraglianti avanti e indietro per prendere la rincorsa e tornare ad azzannare, sbattute a destra e a manca da conati di moto subito abortiti che le impuntavano su qualche spuntone di roccia, senza alcuna bellezza, senza alcuna eleganza e proprio per questo inarrestabili, incombenti su di lui come le gigantesche piattaforme semoventi dell’Impero in Guerre stellari ma assai più solide, molto meno vulnerabili... Eppure, per quanto lo atterrissero, ciò che vide gliele fece dimenticare e addirittura non udirle più, come se a un tratto il Grande Buco si fosse trasformato nella sala principale di un meraviglioso museo e le ruspe in gentili visitatori che non osavano neanche bisbigliare, per non disturbarlo nella sua intensa contemplazione!

 

Nicola sapeva bene, naturalmente ― da quel bravo e studioso ragazzino che era, e che proprio per questo avevan voluto far sparire ― che le colline che circondano la Valle come gli spalti di un anfiteatro erano un tempo il fondo di un mare primordiale. Sapeva che la roccia di cui son fatte è calcarea, e che il calcio di cui è composta è quel che rimane degli endo- ed esoscheletri di miliardi di miliardi di miliardi di creature marine. Glielo aveva spiegato il maestro Armando mostrandogli le stelle di mare, le conchiglie e i pesciolini fossili di milioni di anni fa che aveva trovato durante le sue passeggiate in montagna. Nicola stesso ne aveva trovati parecchi, andando per funghi col padre, ed era stato fiero di portarli a scuola al tempo in cui a Modèrnoli si amava ancora far riapparire quel che scompare, anziché buttar via quel che esiste in un Gran Buco pieno di niente. E dunque sapeva bene, Nicola, che la roccia che sorreggeva la vita sua e dei suoi genitori, e di tutti i Modernolani, era piena della vita che c’era stata prima, e dalla quale era venuta la loro. Ma nonostante ciò non era preparato a vedere quel che vide, e non credette ai propri occhi. Eppure era vero: c’era una colossale Balena, lassù, incastonata nella parete a cui le scavatrici sferravano proprio in quel momento l’ultimo assalto! Una Balena fossile lievemente azzurrina, così ben conservata che si potevano contare le rughe intorno all’enorme sfera dell’occhio che volgeva su di lui ― come se l’avesse atteso e forse invocato, e ora lo guardasse, e lo vedesse benissimo! ― così intatta, a parte il fatto che il cuore non batteva più, che si poteva star certi che sull’altro lato della sua testa immane un’altro occhio non meno perfetto stava in quel momento guardando, come aveva fatto per milioni di anni, il buio della roccia non ancora scavata.

 

Era quasi insostenibile, la bellezza di ciò che Nicola vedeva! Ma il suo orrore lo fu ad un tratto anche di più, quando rammentò la leggenda che la mamma gli aveva tante volte raccontato, prima che il buco catodico le mangiasse la mente, la fantasia e la voglia di parlare con lui: la leggenda, che a Modèrnoli conosciamo tutti fin da bambini ― perfino i Nullòmetri, io credo, poiché anche loro, per incredibile che possa sembrare guardandoli adesso, un giorno lontano son venuti al mondo come graziosi neonati ― secondo la quale il nostro caro, piccolo paese poggia sulla schiena di un enorme pesce e vivrà finché esso non sarà ucciso: un po’ come Roma, di cui si dice che non perirà finché il Colosseo non verrà abbattuto dai barbari o dai Barberini. E ora ecco, la leggenda era vera e si avverava dinanzi ai suoi occhi: da un momento all’altro i denti di una ruspa avrebbero azzannato la carne fatta pietra della Balena, e di lì a poco, ucciso il grande pesce, il paese si sarebbe dissolto in polvere di niente nella rete di miriadi di buchi che i Nullòmetri avevano gettato attraverso la roccia sotto di esso!

 

Chissà quanti altri fossili avevano distrutto, quelle scavatrici, mentre si mangiavano il colle! Fossili in qualche caso preziosi, della cui esistenza il Talpone e i Nullòmetri si erano ben guardati dall’informare chi di dovere... Ma questo no! Questo bisognava salvarlo a tutti i costi, pensò Nicola, perché la sua salvezza era l’ultima occasione che ci veniva offerta di salvare noi stessi. Ma come, come, come si poteva fare? Alla disperata, Nicola decise di balzare su una scavatrice, far perdere l’equilibrio al ruspista approfittando della sorpresa, buttarlo giù ― finisse pure sotto i cingoli, se aveva permesso che la sua agilità si dileguasse in qualche buco ― e rivolgere la macchina contro le altre sperando di riuscire a farle a pezzi tutte quante! E già raccoglieva le forze per andare all’attacco, tendendo il piccolo corpo come per strizzarne fuori anche l’ultima stilla d’infantile paura, quando a un tratto gli si parò davanti il Talpone in persona urlando come un ossesso.

 

Era almeno un anno che non lo si vedeva in giro. Pensavamo che si fosse a tal punto rimbambito, che in attesa che sparisse del tutto lo tenevano in casa in balìa di qualche badante di quelle cattive... E invece no, eccolo! Traballante e sbilenco ― ma ancora duro e forte come una di quelle ruote che una volta spingeva sù per lo stradone sotto il peso di mille scatole vuote, e che per quanto cariche non cedevano mai ― si sforzava di ergere davanti al bambino la schiena incurvata, e tossendo e sputando vomitava su di lui irripetibili insulti. E già i suoi sgherri arrivavano da tutte le parti, Benito in testa, digrignando i denti, gli occhi ciechi ma le grinfie protese: troppo brutti per sostenerne la vista, Nicola voleva solo scappare, ma ogni via di fuga era preclusa, unico punto forse più debole proprio il vecchiaccio che si agitava come un ossesso davanti a lui... Si buttò fra le sue gambe ― una vaga idea di allargargliele a forza e passarci in mezzo, come faceva una volta per gioco col suo papà ― ma non ci riuscì, riuscì solo a farlo barcollare, vacillare ― gli occhi che si rovesciavano a mostrare il bianco giallastro, purulento, come se il folle tentasse di passarli sul retro del capo per vedere dove stava per cadere ― e poi lo vide crollare con un urlo mostruoso proprio nel punto in cui la scavatrice nello stesso istante gli azzannava la testa, se la mangiava insieme alla roccia, frantumate entrambe, e la vomitava infine sul cassone di un camion senza che il ruspista se ne accorgesse nemmeno.

 

Ma subito invece se ne accorsero tutti, come se l’invisibile filo di ragno che li univa a lui fosse stato reciso: le ruspe abbassarono le zanne, i camion si fermarono, gli uomini spensero i motori, scesero dai veicoli, si immobilizzarono, tutti, perfino i Nullòmetri che per qualche secondo erano scivolati di qua e di là sussultando come insetti decapitati: guardavano muti il corpo decapitato del vecchio Talpone, in un silenzio a un tratto completo, assoluto come quello di cui la Balena, che continuava a contemplarli dalla parete, doveva aver goduto per milioni di anni. E forse soffrivano, pensò Nicola da quel buon bambino che era, per la morte del capo che li aveva resi temibili, da nulla che erano prima, a far niente del prossimo e del mondo. O forse erano solo scioccati, e da un momento all’altro sarebbero tornati a scagliarsi su di lui! Non voleva saperlo, e senza dire una parola si sottrasse al compianto e si allontanò.

 

Tutto questo, come avrete forse immaginato, io l’ho appreso da Nicola in persona. Che adesso è qui, vicino a me, nell’aula d’informatica della scuola, e accarezzando la testa di Pancina mi racconta ogni cosa. E io strimpello sulla qwerty ― che per chi non lo sa è la tastiera del computer ― e guarnisco e infioretto le sue parole per quanto so e posso, non tanto per fare opera letteraria quanto piuttosto per distrarmi un po’ dall’orrore che incombe su di noi, su Modèrnoli e anche su di me. Il prof se n’è andato da un pezzo ― Scialoia, o Scialanca, o come diavolo si chiama ― è scappato a Roma, lui, e ci ha lasciati qui a scrivere come forsennati ― io e Nicola, che neanche mi è parente e che nemmeno vedo e sento bene, perché anche a me, negli ultimi tempi, mi si stanno bucando la mente e il cuore ― a scrivere come ossessi nella speranza di fare almeno in tempo a mettere su Scuolanticoli.com tutta questa storia maledetta: che resti di testimonianza e ammonimento, almeno, se il nostro caro, piccolo paese perirà!

 

Poiché i Nullòmetri e la Banda del Buco, è vero, la morte del Talpone pare averli istupiditi e scompaginati: non vien più alcun frastuono di scavi, da sopra la Piana, per la prima volta da anni, e Nicola mi dice che in questo stesso momento ha visto richiudersi un buco che da gran tempo si era aperto vicino alla sedia del Preside, nell’ufficio al piano di sopra... Ma chissà: forse riusciranno a riprendersi e a riorganizzarsi... Magari in pochi giorni, se l’uno o l’altro di loro ha imparato qualcosa, dal vecchio Talpone, oltre che servirlo e ubbidirlo nella distruzione... Abbiamo poco, pochissimo tempo: ora alla svelta metteremo in rete queste righe ― mi spiegherà Nicola come fare, che è andato a lezione dal prof, perché io non so, ho una gran confusione in testa, non ricordo più ― e poi andremo, prima dal papà e dalla mamma di Nicola e poi da tutti gli altri, e li chiameremo a raccolta, cercheremo di scuoterli approfittando del momento propizio...

 

E chissà, forse riusciremo a salvare il nostro piccolo, caro paese, prima che sia troppo tardi.

 

*

 

La Banda del Buco è frutto dell’immaginazione dell’Autore.

Ogni apparente riferimento a persone esistite o esistenti o a fatti davvero accaduti è del tutto casuale.

 

*

 

Anticoli Corrado e Roma, 8 giugno - 17 luglio 2006

 

*

 

 

Torna in cima alla pagina     Home

 

*

 

l’Espresso

si ispira a ScuolAnticoli

 

"La Banda del Buco"? Una brutta storia, ma... un bel racconto!

 

Nel luglio 2006, con sprezzo del pericolo, il neonato ScuolAnticoli pubblicò La Banda del Buco, di Luigi Scialanca, vicenda fantastica (ma non tanto fantascientifica) ambientata nel vacuo e pericoloso mondo degli scavatori, estrattori, trasportatori e venditori di nulla di Modèrnoli (con l’accento sulla e). Ebbene: oggi, venerdì 31 ottobre 2008, a distanza di più di due anni, abbiamo avuto il piacere di ritrovare La Banda del Buco nel titolo di un articolo che Roberta Carlini, sull’ultimo numero de l’Espresso, ha dedicato agli scavatori, estrattori, trasportatori e venditori di materiali inerti che hanno trapanato il Bel (una volta) Paese con circa 15.000 buchi grandi e meno grandi, in azione o dismessi...

da "L'Espresso" n° 44 del 6 novembre 2008 (in edicola dal 31 ottobre), pag. 105: "La banda del buco", di Roberta Carlini.

 

*

 

 

 

*

 

Torna in cima alla pagina     Home