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Ricordi Immaginari - Spiegare un Film a un Bambino

 

L’estate di Kikujiro

 

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Il vero bandito era Kikujiro o la mamma? Masao, da grande, sarà anche lui uno che abbandonerà? (Lorenzo, a.s. 2003-2004)

Perché la mamma si dimentica del figlio e il figlio no? (Davide, a.s. 2006-2007)

 

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Titolo: L’estate di Kikujiro

Titolo originale: Kikujiro no natsu

Regista: Takeshi Kitano (1948, vivente)

Paese di produzione: Giappone.

Anno di produzione: 1999

Attori principali: Takeshi Kitano (Kikujiro), Yusuke Sekiguchi (Masao), Kayoko Kishimoto (la moglie di Kikujiro), Yûko Daike (la madre di Masao), Kazuko Yoshiyuki (la nonna di Masao), Beat Kiyoshi (l’uomo alla fermata dell’autobus), Great Gidayu (il motociclista grasso), Rakkyo Ide (il motociclista calvo), Nezumi Mamura (l’uomo in viaggio), Fumie Hosokawa (la ragazza giocoliera), Akaji Maro (l’uomo spaventoso), Daigaku Sekine (il boss Yakuza).

Durata: 2h 01’

 

La storia

 

Il piccolo Masao non ha mai conosciuto il papà e la mamma. Abita a Tokio con la nonna, che lavora tutto il giorno. Arriva l’estate, le scuole chiudono, i compagni partono per le vacanze, e il campo dove Masao andava a giocare a pallone con loro si trasforma in un piccolo deserto. Masao passa molte ore a casa, da solo, e un giorno, dopo aver trovato in un cassetto una vecchia fotografia che lo ritrae neonato con la mamma perduta, decide di partire per andare a cercarla e, se possibile, a riprendersela. Prende il suo piccolo zaino con le ali da angioletto e si mette in cammino, solo e silenzioso come uno spettro (quale forse egli è per quelli che non fanno caso a lui), ma quasi subito incontra un’amica della nonna che a sua volta lo affida, come se niente fosse, a un tipo dall’aria poco rassicurante: Kikujiro, un cinquantenne, ex-bandito di mezza tacca prepotente e sbruffone, che chiama il piccolo Masao semplicemente “scemo” e se lo trascina dietro in uno stralunato e inconcludente vagabondaggio tra bar e sale-corse, senza curarsi di lui né tanto meno del suo desiderio di ritrovare la mamma perduta.

Ma poi, a poco a poco, le cose cambiano: Kikujiro scopre di avere qualcosa in comune col bambino, e a suo modo comincia ad affezionarglisi. Fino a tentare ― nel corso della loro piccola, deliziosa avventura esplicitamente ispirata a quella del Vagabondo e del Monello nel famoso film di Charlie Chaplin ― di servirsi dei propri mezzi da ex-bandito di quart’ordine (violenti e tuttavia modesti) per costringere il mondo a risarcire, almeno in parte, il bambino di ciò che il mondo stesso gli ha tolto.

 

Il regista

 

Takeshi Kitano aveva sperato di diventare un ingegnere, ma fu espulso dalla scuola per il suo comportamento ribelle. Allora imparò a recitare, a cantare e a danzare sotto la guida del famoso attore Sezaburo Fukami. Intanto si manteneva lavorando come ragazzo dell’ascensore in un nightclub che offriva al pubblico anche intermezzi comici e spogliarelli, e una sera, cogliendo l’occasione di un’assenza dell’attore principale, salì sul palcoscenico al suo posto. La sua carriera era iniziata, e qualche tempo dopo, insieme a un amico, Kitano formò il duo comico I due Beat (da cui il suo nome d’arte, Beat Takeshi) che ben presto ottenne un grande successo in televisione.

Nato a Tokyo nel 1947, Takeshi Kitano ha iniziato a occuparsi di cinema nell’89, e da allora ha scritto, diretto, prodotto o recitato in quasi un film all’anno senza perdere una briciola della sua sensibilità e originalità artistica. Tra le sue opere, oltre L’estate di Kikujiro, meritano d’essere ricordate almeno Violent Cop (’89), Boiling Point (’90), Il silenzio sul mare (’91), Sonatine (’93), Hana-Bi (’97), Brother (2000), Dolls (’02) e Zatoichi (’03). Attualmente, dopo una straordinaria carriera, Kitano, ormai famoso in tutto il mondo, continua a essere una personalità di primo piano in Giappone, dove, oltre a partecipare a programmi televisivi, ha scritto e pubblicato poesie, racconti e romanzi, e si è fatto apprezzare anche come disegnatore di cartoni animati e pittore.

 

Clicca qui per leggere la vita e le opere di Takeshi Kitano su Wikipedia.

Il commento di Luigi Scialanca

 

Tutti gli adulti che circondavano il bambino sono amici con cui ho l’abitudine di fare scherzi, immaginare delle buffonate. Eravamo tutti occupati a far ridere questo bambino. Quando rideva, dicevamo: ha funzionato! Il bambino dunque era completamente spettatore, e il film è diventato un documentario sul tema: come far ridere un bambino?” (T. Kitano).

 

In L’estate di Kikujiro questo dato è centrale e dichiarato: tutti s’improvvisano genitori per intrattenere il piccolo Masao. I vari tentativi rivelano la loro natura di atti d’amore. Nei giochi di prestigio, nei travestimenti, negli scherzi che popolano il film è possibile leggere l’affetto che i personaggi invocano. E gli uomini indossano la maschera da clown per poter nascondere le lacrime senza patirne troppo le conseguenze”. (C. Chatrian, Duel).

 

Mio padre si chiamava Kikujiro. In tutta la vita, mi avrà rivolto la parola cinque volte. (T. Kitano).

 

Come il Monello di Charlie Chaplin, anche il piccolo Masao è un bambino abbandonato.

 

Ci sono due tipi di bambini abbandonati: gli abbandonati “solo un po’”, e gli abbandonati del tutto.

 

I bambini abbandonati “solo un po’” sono quelli dei quali i “grandi” (i genitori, gli insegnanti, la Società adulta in generale) in qualche modo si occupano (dandogli da mangiare, fornendoli di una casa e di vestiario, insegnando loro a leggere e scrivere, proteggendoli dai pericoli, curandoli se si ammalano, ecc.), ma a cui quegli stessi “grandi” fanno mancare una o più cose importanti o importantissime: per esempio, non interessandosi a quel che pensano, o non ascoltando i loro discorsi e i loro sogni, o non sapendo indicare loro la stupenda ricchezza e complessità (e i tremendi pericoli) del mondo fantastico umano; o, più semplicemente, non essendo (in tutto o in parte) le belle e intelligenti persone adulte che i bambini hanno il desiderio, bisogno e diritto di avere intorno.

 

Cosa possono fare i bambini abbandonati “solo un po’”? Possono mettersi in cerca di “grandi” più validi di quelli che son toccati loro in sorte e di esperienze più umane di quelle che possono avere con essi: persone ed esperienze che arricchiscano la loro fantasia, rispondano alle loro domande e spieghino loro con la necessaria fermezza cosa si può fare e cosa no. E, se li troveranno, potranno colmare i vuoti lasciati in loro da rapporti più o meno deludenti ed eviteranno di diventare anch’essi adulti più o meno anaffettivi, più o meno inconsapevoli della propria umanità, più o meno “sciupati dentro”.

 

I bambini abbandonati del tutto sono invece quelli di cui i “grandi” non si sono occupati affatto. Quelli a cui non è stato dato neanche da mangiare e da bere, né un letto né abiti, né giocattoli né libri, né casa né scuola. Quelli che gli adulti hanno buttato via, scacciato, cancellato dai propri pensieri. Quelli che in questo momento, mentre io scrivo o mentre voi leggete, dormono dentro scatole di cartone nella metropolitana di Kiev, contendono i rifiuti ai cani negli immondezzai di Manila, si stordiscono con i vapori della colla negli anfratti di Rio de Janeiro, lavorano diciotto ore al giorno negli scantinati senza finestre di Taranto o di Pordenone. Quelli come il Monello, deposto in un’automobile di lusso da una madre che era a sua volta una ragazzina abbandonata. Quelli come il Bambino Selvaggio, gettato con la gola tagliata in una buia foresta. Quelli come il piccolo Masao. I milioni e milioni di Hänsel e Gretel che nei millenni, invece che con altri esseri umani, han dovuto vedersela con orchi e streghe.

 

A dire il vero, Masao non è stato abbandonato proprio del tutto. Ha una nonna, infatti, che l’ha tenuto con sé. Ma il nostro discorso non per questo cambia di molto... Hai un bell’avere una nonna o una zia, anche affettuose, anche bravissime: ma se tuo padre e tua madre ti hanno abbandonato, e tu lo sai, la tua esistenza ti sembra fin da bambino in pericolo, minata da un male misterioso che agli altri non tocca, che ce l’ha proprio con te, che potrebbe infliggerti nuovi e spaventosi colpi in qualsiasi momento; e il mondo ti appare a sua volta pericoloso, minaccioso, come se un’invisibile e mostruosa entità fosse sempre in agguato sul tuo cammino, aspettando te.

 

Così ti senti, se tuo padre e tua madre ti hanno abbandonato. Come uno che è stato travolto da una catastrofe ed è sopravvissuto, ma non è più lo stesso di prima né può più guardare il mondo come lo guardava prima. E ti ci senti già a sei anni, già a cinque. Ti ci senti fin da quando ti rendi conto che a tuo padre e tua madre, ovunque essi siano, non importa nulla che tu sia ancora al mondo o no.

 

Ci sono momenti, naturalmente, in cui anche a un bambino abbandonato solo un po’ capita di sentirsi così. Ma per lui è diverso, perché il papà e la mamma fisicamente gli sono ancora vicini, e prima o poi, in un momento “buono”, gli faranno una carezza, o lo ascolteranno un po’, o gli diranno una di quelle cose che s’imprimono nell’anima per sempre, o più semplicemente gli permetteranno di vederli per un attimo nella luce di un’umanità non del tutto offuscata, non sempre tradita, non ancora spenta.

 

Ma per i bambini come Masao ― per gli abbandonati del tutto ― quel momento non può arrivare: non vedranno mai il papà e la mamma, non sapranno mai (nemmeno per uno di quegli istanti che scoccano a volte anche nelle famiglie più “disastrate”) cosa significhi l’avere un padre e una madre umani.

 

All’inizio dell’estate, Masao comprende di essere un bambino del tutto abbandonato quando trova una foto di alcuni anni prima e per la prima volta vede sé stesso, appena nato, in braccio alla madre.

 

Quell’immagine, per lui, non è l’immagine di qualcuno e di qualcosa che c’è, che esiste davvero: all’opposto, è l’immagine di una mancanza, di un vuoto: di un abbraccio che la sua pelle non può sentire, di uno sguardo che i suoi occhi non possono cercare, di una voce che non gli parla e alla quale non può rispondere. Un altro bambino, una fotografia della mamma può indurlo a rivivere ciò che ha vissuto e provato con lei. A Masao, invece, quella fotografia può solo far intuire per la prima volta la presenza di un abisso sempre spalancato a un passo da lui.

 

E Masao, allora, decide di colmarlo, questo vuoto, e parte per andare a riprendersi la sua mamma. Reagisce da essere umano, e migliore di quelli che ha intorno e di quelli che lo hanno lasciato: non si rassegna, non rinuncia, non dimentica, non si rende anaffettivo.

 

Purtroppo, Masao non potrà riaverla, la mamma. Poiché la realtà dell’abbandono di un figlio non è quasi mai quella che Charlie Chaplin fantasticò ne Il Monello. La realtà dell’abbandono di un figlio è in un certo senso ancor più dura di quella della morte, che almeno lascia in chi sopravvive il ricordo di un rapporto che per qualche tempo ci fu, anche se poi fu brutalmente troncato. Mentre i papà e le mamme che sono stati capaci di abbandonare del tutto, sono ormai al di là del bene e del male, come gli assassini. Son diventati degli alieni, vivono su un altro pianeta, non sono più capaci di sentimenti umani. Li fingono, talvolta anche bene. Ma le fotografie, le immagini dei loro bambini abbandonati, le hanno bruciate una volta per tutte (come fa il papà del Monello con la foto della sua compagna in una delle prime scene del film di Chaplin) e in esse non possono dunque più vedere né sentire alcunché: neanche il sentimento di un vuoto da riempire, di una mancanza a cui rimediare.

 

La mamma di Masao, abbandonandolo, ha ridotto sé stessa e la propria esistenza a una serie d’immagini: possono essere anche belle, ma non possono farla tornare in vita. E come un’immaginetta lontana, piatta e sfocata, ella appare infatti a Kikujiro quando infine lui e Masao la raggiungono; un’immagine orrenda, nella sua placida normalità di donna sposata che ogni mattina saluta il marito e il figlio sulla soglia di casa, al punto che neanche il coriaceo e tenace ex-bandito ha il coraggio di avvicinarlesi.

 

E tuttavia, anche se non potrà mai più riavere la sua mamma, Masao ha fatto qualcosa che lo mette in salvo dal rischio di morire dentro per la sua mancanza e trasformarsi anche lui in un’immagine di essere umano senza contenuto umano: ha sofferto, ha resistito, ha lottato, ha fatto tutto ciò che poteva. Ha riempito il vuoto della sua vita, ha cancellato il presentimento della mostruosa spietatezza del mondo con la constatazione della formidabile potenza del proprio affetto. Ora sa, Masao, che in lui ci sono fantasia, intelligenza e sentimento tali, da smuovere le montagne. E in cuor suo, in un certo senso, egli non è più un bambino abbandonato: è un bambino che nell’abbandono si è trasformato in un gigante, in un eroe che compie grandi imprese. Come Mosè. Come Romolo.

 

E come tutti i grandi personaggi, per le sue gesta Masao ha bisogno e trova un aiutante: Kikujiro.

 

Certo, Kikujiro è un ex-bandito, un uomo rozzo e prepotente, un vagabondo senz’arte né parte, un tizio che sa a malapena parlare! E all’inizio si comporta da par suo: chiama “scemo” Masao, se lo trascina dietro senza curarsene né tanto né poco, lo porta in luoghi orribili, cerca di sfruttarne l’intuito infantile per vincere alle corse... Ma... Ecco, già in quest’ultima azionaccia si profila l’apparizione, nell’animo indurito di Kikujiro, di qualcosa di nuovo e imprevisto: l’intuizione che Masao (al quale nessuno ha mai attribuito alcun valore) possa invece essere prezioso, possa farlo ricco! Si tratta per il momento di una ricchezza solo monetaria, ma è già qualcosa. Kikujiro comincia a guardare Masao con occhio diverso, e a un tratto diviene consapevole di ciò che già il più illustre dei suoi predecessori, quell’altro pirata semi-buono che rispondeva al nome di Long John Silver, aveva visto in Jim Hawkins: diventa consapevole, cioè, del fatto che quel bambino è come lui da piccolo, anche lui abbandonato dalla madre; e tanto gli basta per trasformare completamente il suo rapporto con Masao. Poiché Kikujiro non potrebbe ricordare sé stesso in un bambino se il suo bambino, il bambino che un tempo egli era stato, non fosse ancora vivo, malgrado tutto, in un angolino miracolosamente intatto della mente. E il suo bambino ritrovato, proprio come Masao, chiede di essere risarcito. E l’unico modo di risarcirlo nella realtà è risarcire Masao.

 

Anche Kikujiro, adesso, prova il desiderio di andare a rivedere la propria madre, e lo fa. Ma il suo desiderio più grande (ora che a un tratto anche Kikujiro è di nuovo capace di provare desideri, anziché lasciarsi insensibilmente trascinare dagli automatismi che dominano la sua esistenza) è quello di obbligare il mondo a farsi in quattro per Masao, a consacrarsi completamente a lui, a lasciar perdere tutto per dedicarsi all’impresa di farlo sorridere, di divertirlo, di sentire belli e piacevoli il mondo e la vita.

 

È come se tutto il mondo (o, almeno, quella parte di mondo che gli si fa incontro nel suo vagabondare con Masao) fosse stato condannato a scontare con qualche giorno di Purgatorio la tremenda privazione e la sofferenza che ha fatto subire a Masao. La pena, com’è ovvio, consiste in un preciso e concreto contrappasso: l’anaffettività che il mondo ha finora inflitto a Masao, il mondo dovrà scontarla prodigandogli un’attenzione assoluta... E il guardiano di questo Purgatorio è proprio lui, Kikujiro: sarà lui a vigilare, giganteggiando e minacciando con il suo cipiglio e la sua tracotanza da exbandito, che i malcapitati a cui è toccato in sorte di rappresentare il mondo e la Società degli adulti scontino la pena fino in fondo!

 

Ma poi, naturalmente, Kikujiro si rivela un diavolo buono, o in altre parole un buon diavolo, come lo sono sempre i bambini finché restano bambini, qualunque sia l’affronto che hanno subito dai “grandi”: le pene da lui escogitate sono miti, perfino piacevoli, le sue “vittime” scoprono presto che perdersele sarebbe stato un vero peccato, e coloro che riescono a sfuggirgli (come l’uomo che lo inganna alla fermata dell’autobus, o il gestore disonesto e mafioso del tirassegno) ci appaiono ben presto per quel che sono: dei poveracci, gente che è destinata a non sapere mai cos’è davvero la vita e quanto può essere bella. Poiché per loro i bambini non esistono, non rischiano di abbandonarli poiché non li fanno né li frequentano mai. Poiché l’Angelo Campanellino, per loro, non passa mai e forse non c’è.

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Le migliori domande dei bambini sul film

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(Le schede di Spiegare un film a un bambino sono per bambini e ragazzi di Quinta elementare, Prima, Seconda e Terza media.

Sono scritte, perciò, il più semplicemente possibile. Ma non sono affatto... semplicistiche.

Vuoi servirtene? Fai pure. Ma non spezzettarle, non alterarle e non dimenticare di citarne l’autore!)

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