L'immagine di sfondo di questa pagina, raffigurante piazza delle Ville ad Anticoli Corrado, è un dipinto dell'artista danese Viggo Rhode (1900-1976). L'ha segnalata a ScuolAnticoli il signor Peter Holck. Rielaborazione grafica di Luigi Scialanca.

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diario del Prof (scolastico e oltre)

 

agosto 2007

 

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mercoledì 29 agosto 2007

Un sopravvissuto a Katrina

Un sopravvissuto a Katrina

 

L’Olocausto dei Poveri

 

Abbiamo visto When the leeves broke, l’impressionante documentario di Spike Lee sull’abbandono di New Orleans durante e dopo l’uragano Katrina. Quando ad aiutare i sopravvissuti accorsero le Giubbe rosse canadesi e il Venezuela di Chavez, ma non le autorità federali degli Stati Uniti. Non l’amministrazione Bush.

 

Katrina ha mostrato al mondo, con agghiacciante evidenza, ciò che metà del mondo sospetta da anni mentre l’altra metà fa di tutto per nasconderlo e minimizzare: un terzo della popolazione degli Stati Uniti non è solo” esclusa dall’assistenza sanitaria, da un’istruzione degna di questo nome, da abitazioni e quartieri decenti, da un lavoro ragionevolmente sicuro, da un’esistenza che si possa ancora definire umana... Un terzo della popolazione degli Stati Uniti è esclusa dal diritto alla vita.

 

Il diritto alla vita non è cosa che si possa avere solo a parole. Hai diritto di vivere se gli uomini e le donne tra i quali sei venuto al mondo non vogliono e non permettono che tu muoia, se possono impedirlo. Altrimenti, vuol dire che il diritto di vivere non ce l’hai.

 

Peggio degli schiavi nel mondo antico? Come gli Ebrei nella Germania nazista? Proprio così.

 

Non solo a New Orleans (dove l’uragano ha scoperchiato” quel che altrove i quartieri-ghetto continuano a nascondere) ma in tutte le città e le campagne degli Stati Uniti, una parte rilevante della popolazione (tra il 20 e il 30%, in media, ma in certe zone molti di più) è abbandonata a sé stessa non metaforicamente, non per modo di dire, ma come lo sono in natura gli animali non umani non domestici: che vivano o che muoiano, come vivano e come muoiano, sono affari loro.

 

E forse anche peggio, visto che per salvare un cucciolo di balena si mandano flotte e si spendono milioni, mentre gli abitanti di New Orleans sono stati lasciati annegare come topi a migliaia per giorni e giorni, prima che l’indignazione internazionale costringesse Bush e la sua banda a darsi un po’ da fare. Ma di malavoglia e male – il documentario lo mostra con chiarezza  come fa le cose chi è obbligato a farle.

 

Un terzo dei cittadini degli Stati Uniti, decine di milioni di bambini, di donne e di uomini abbandonati a sé stessi, da anni stanno sprofondando nella barbarie. Alla quale non tutti resistono, nella mente e nel cuore. In luogo dei sentimenti umani e delle leggi, insensati codici” barbari prendono piede nelle famiglie, nelle scuole, in intere comunità. Chi non può fuggire (ma dove?) spesso soccombe, si perde per sempre. Accanto alla maggioranza della popolazione (la cosiddetta società dei due terzi, che molti non si vergognano di teorizzare esplicitamente) si sta formando un popolo a parte, reso selvaggio dall’abbandono, che agli altri, a quelli che ancora sono inclusi, sembra davvero non umano, sembra meritare la diffidenza e l’isolamento sociale. E così, mentre gli uni si abbrutiscono nelle giungle delle periferie, gli altri si abbrutiscono nella spietatezza dei lindi quartieri residenziali in cui si rinchiudono per non vedere e non udire. Ma soprattutto per non sentire.

 

La maggior parte degli esclusi sono neri, ma la questione non è razziale: è sociale. La nera Condoleeza Rice era da Ferragamo a provarsi scarpe su scarpe, mentre i neri nelle soffitte di New Orleans con l’acqua alla gola cercavano di sfondare i tetti con le mani. La questione non è razziale, è sociale: gli abbandonati, gli esclusi, quelli a cui non si riconosce più il diritto alla vita, sono i poveri. E i poveri sono un terzo della popolazione.

 

Per chi suona la campana? È arrivato, per chiunque nel mondo non sia ancora amerikano, il momento di aprire gli occhi: l’abbandono di intere popolazioni alla povertà, alla catastrofe, alla fame, alla sete e alla morte non è incompetenza, non è superficialità. In un certo senso, non è più nemmeno indifferenza. È ormai qualcosa di attivo, di voluto. È genocidio. È nazismo.

 

Le periferie di New Orleans come il Ghetto di Varsavia? Sì.

 

Negli Stati Uniti è in corso un criminale esperimento scientifico”. Che Katrina ha smascherato. Non diverso, nella sostanza, da quelli che i medici” nazisti compivano nei campi di sterminio. Un esperimento concepito da menti criminali, è ovvio, ma il cui scopo apparentemente razionale” è quello di determinare con esattezza fino a che punto si può escludere dal consorzio civile e dal diritto alla vita un’immensa moltitudine di esseri umani  non nel cosiddetto Terzo mondo, ma qui, nello stesso paese in cui viviamo noi  senza suscitarne l’aperta ribellione e il ricorso alle armi.

 

Per poi farne che cosa, una volta che la convivenza sarà diventata impossibile? Per poi farne che cosa? Che cosa viene, dopo il Ghetto di Varsavia? I nazisti l’avevano già deciso da prima, o è stata la vista del Ghetto a farglielo venire in mente? O è stata la vista del Ghetto a renderlo concepibile”? Per poi farne che cosa?

 

Sono svariati decenni, ormai, che seguiamo l’esempio americano incuranti di tutti i segnali d’allarme. La Gran Bretagna è già molto avanti, sulla stessa strada. Noi gli andiamo dietro. Ma la campana che è suonata a New Orleans è forse davvvero l’ultima, e ha suonato per tutti: il nuovo nazismo, l’Olocausto dei poveri del mondo, forse sta già cominciando. Se è così, solo chi già oggi attivamente lo rifiuta sarà assolto da chi verrà.

 

Nessun uomo è unIsola, intero in sé stesso.

Ogni uomo è un pezzo del Continente, una parte della Terra.

Se una zolla viene portata dall’onda del Mare, l’Europa ne è diminuita,

come se un Promontorio fosse stato al suo posto,

o una Magione amica, o la tua stessa Casa.

Ogni morte d’uomo mi diminuisce, perché io partecipo dell’Umanità.

E così non mandare mai a chiedere per chi suona la campana:

Essa suona per te.

 

John Donne (1573-1651)

 

 

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Non vorremmo che l’onorevole Fioroni pensasse che ce l’abbiamo con lui, ma... è colpa nostra se ogni giorno ne dice una delle sue?

L’ultima l’abbiamo letta ieri su La Repubblica in un articolo di Giovanna Casadio: Semina l’antipolitica chi critica i partiti, e nel Partito Democratico non ci deve stare!, avrebbe intimato l’onorevole Nostro, e speriamo che non sia vero, speriamo che berlusconianamente smentisca, o ancora una volta come non pensare che egli onorevolmente non sappia quel che si dice?!

Secondo lei, onorevole Fioroni, il Partito Democratico (che noi, ci teniamo a dirlo, peraltro non frequenteremo) è un partito in cui non si possono criticare i partiti? In cui, insomma, è abolito il diritto di critica? In cui non valgono più gli articoli della Costituzione della Repubblica italiana che sanciscono la libertà di espressione?

Ci pensi meglio, onorevole Fioroni! Si riprenda! S’aripigli!

Di partiti non criticabili da chi ne faceva parte, nel secolo scorso, ce ne sono stati già parecchi, purtroppo. Avevano dei brutti nomi, sa? E poi, quando andavano al potere, toglievano il diritto di critica a tutti, iscritti e non iscritti. E facevano molte altre bruttissime cose.

Permetta, onorevole Fioroni, a un suo dipendente che insegna Storia, di impartirle questa piccola lezioncina. Con parole semplici, come si fa con i bimbi piccoli.

 

(Clicca qui per sapere tutto sull'onorevole Giuseppe Fioroni!)

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domenica 26 agosto 2007

La bandiera della Repubblica italiana

La bandiera della Repubblica italiana

La bella faccia dell’onorevole Fioroni

La bella faccia dell’onorevole Fioroni

 

La Pubblica Istruzione? Solo a chi non ha mai letto i temi dei figli!

 

La cosa più triste è che lonorevole Fassino non ha saputo cosa rispondere, al cosiddetto meeting di Rimini di Comunione e liberazione, quando l’onorevole Tremonti gli ha detto che bisognerebbe fare l’alzabandiera nelle scuole all’inizio di ogni settimana...

 

Ci permettiamo di suggerirgliela noi, onorevole Fassino, quella che poteva essere la sua onorevole risposta.

 

Poteva dire che non si può obbligare un essere umano ad amare qualcosa per legge; che l’amore, cioè, da che mondo è mondo, è qualcosa che bisogna riuscire a meritarsi e conquistarsi.

 

Ha visto che non era difficile, onorevole Fassino? E guardi che non siamo rimasti svegli la notte, per escogitare questa brillante soluzione, ma ci è venuta in mente così, come se niente fosse, per l’umile desiderio di farle cosa gradita. Le offriamo, se vuole, onorevole Fassino, questo sito come suo consulente gratuito, così potrà fare a meno di qualche fannullone di lusso...

 

Ma poi, onorevole Fassino, poteva anche dire che era d’accordo, perché no?, con la provocatoria proposta dell’onorevole Tremonti, uno dei peggiori esponenti del governo che più ci ha fatto vergognare del tricolore negli ultimi cinquant’anni: ribattendo, però, onorevole Fassino, che alle scuole dev’essere anche permesso (anzi: consentito, come piace dire agli ignoranti di ambo le parti che credono così di non sembrare tali) di ammainarla, la nostra cara bandiera, ogni volta che un membro (si fa per dire) della classe dirigente religiosa, politica, economica, imprenditoriale e intellettuale del nostro paese si macchierà di qualche colpa o inadempienza che la maggioranza semplice degli insegnanti e dei genitori giudicherà dis-onorevole...

 

Come dice, onorevole Fassino? Teme che la bandiera, così, non farà altro che andare sù e giù come un fazzoletto da naso durante un tremendo raffreddore?... Anche noi, caro onorevole, anche noi...

 

Tanto per cominciare, oggi ammainiamo la bandiera dopo aver appreso che il nostro onorevole ministro della Pubblica Istruzione, l’onorevole Giuseppe Fioroni (anche lui a Rimini per il cosiddetto meeting di Comunione e liberazione) tutto giulivo avrebbe raccontato ai ciellini, mandandoli in una delle loro facili estasi, di non aver mai letto i temi di suo figlio.

 

Ma non si vergogna, onorevole Fioroni (se davvero l’ha detto) di aver sbrodolato in pubblico una cosa del genere, sia pure per scusarsene? Non si è reso conto, onorevole Fioroni, di aver pubblicamente dichiarato che il nostro onorevole ministro della Pubblica Istruzione, prima di diventarlo, teneva la Scuola in così scarsa considerazione da non trovar la voglia neppure di leggere i temi del proprio figlio?

 

Non ci permetteremo, onorevole Fioroni, di giudicarla come padre (anche se lei, da quel pulpito, dà spesso consigli ai padri d’Italia su come dovrebbero educare i loro figli). Non avanzeremo alcuna ipotesi su ciò che può aver pensato il giovane Fioroni (che ha tutta la nostra comprensione) apprendendo che il suo onorevole padre, pur di strappare un applauso ai suoi ciellini, non ha esitato a mettere in piazza il vostro privatissimo rapporto... Ma abbiamo il diritto di giudicarla come suoi figli putativi, onorevole Fioroni, tutti noi che la Scuola la amiamo e la sosteniamo con le nostre sole forze giorno per giorno, bambini, ragazzi, genitori, bidelli e insegnanti: abbiamo diritto di dirle che avremmo preferito, come ministro, non dico un uomo che di Scuola s’intendesse (per carità, in Italia sarebbe come pretendere la Luna) ma che almeno non la disprezzasse. O che, pur avendola disprezzata, trovasse il coraggio (questo sì davvero Onorevole) di venire a scusarsene in un qualsiasi istituto fra i tanti che da lui dipendono (magari, perché no, in quello frequentato da suo figlio, che forse quei temi ce l’ha ancora in archivio e potrebbe fargliene dono) anziché servirsene per ammiccare e mandare in sollucchero i suoi cari ciellini.

 

Gli stessi che un anno fa, sempre a Rimini, pretendevano a gran voce che lo Stato si disfi delle scuole (e anche della lotta alla disoccupazione e degli ospedali, tanto per gradire) e lasci fare all’iniziativa privata.

 

(Clicca qui per sapere tutto sull'onorevole Giuseppe Fioroni!)

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giovedì 23 agosto 2007

Francesco Jovine (Guardialfiera, Campobasso, 1902 - Roma 1950. Insegnante e scrittore.)

Francesco Jovine (Guardialfiera, Campobasso, 1902 - Roma 1950. Insegnante e scrittore.)

 

Il dio che ha paura di sé stesso...

 

Un’intuizione di Francesco Jovine:

Ogni uomo è un dio che comincia. Chiunque si azzarda a negare questa intrinseca divinità dell’uomo vuole instaurare una tirannide. Si divinizzano alcuni uomini, o un uomo solo, sottraendo una parte di dignità ai propri simili. Da questa sottrazione nascono tutte le idolatrie.

(Le Terre del Sacramento, Einaudi, Torino, 1994, p. 125)

 

Perché, dunque, molti di questi dei che sono gli esseri umani si consegnano – con la mente prim’ancora che nella realtà sociale e politica –  alla tirannia di un idolo divinizzato o di un uomo idolatrato?

 

La risposta è che molti esseri umani diffidano e hanno paura di sé stessi.

 

Fin da piccoli sono stati considerati pericolosi. Hanno finito per sentirsi tali. Credono di dover controllarsi, pregano e supplicano che qualcuno li controlli. Nella mente e nel cuore, soprattutto, perché è da lì, da qualche parte laggiù, in fondo a sé stessi, che temono che balzi fuori all’improvviso chissà quale mostro.

 

La libertà fa più paura di qualsiasi altra cosa, a chi non è sicuro di come la userebbe. E subito dopo la propria, gli fa paura la libertà degli altri. Non perché tema che la usino contro di lui – in cuor suo lo vorrebbe, anzi, perché si considera così male che sente di meritare crudeli punizioni – ma per timore che i liberi vengano prima o poi a liberarlo contro la sua disperata volontà.

 

E allora si sottomette, sempre, con la frenesia di un insettino che corre a nascondersi, a chiunque gli si pari davanti col dito indice alzato: dal miserabile imperativo pubblicitario ai terrorizzanti dogmi millenari.

 

La divinità dell’uomo l’accetta solo chi è stato amato e si ama. Chi non ha paura e non odia sé stesso. Chi, almeno una volta, ha veduto e sentito la bellezza dentro di sé.

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lunedì 20 agosto 2007

Francisco Goya (1746-1828), Saturno che divora uno dei suoi figli (particolare), olio su intonaco trasportato su tela (1820-23), Madrid, Museo del Prado.

Francisco Goya (1746-1828), Saturno che divora uno dei suoi figli (particolare)

olio su intonaco trasportato su tela (1820-23), Madrid, Museo del Prado

 

Può rispettare qualcuno chi non rispetta neanche i figli?

 

La scuola di San Giuliano, a quanto pare, ha fatto scuola...

Secondo il Tg1 delle 20, il proprietario del “solarium” abusivo e fatiscente crollato ad Amalfi, “scusandosi” per l’accaduto – come se per fatti di questa gravità fosse possibile scusarsi – avrebbe dichiarato che dopo tutto, fino a qualche giorno prima, su quella stessa terrazza c’erano i suoi figli.

Siamo dunque avvisati: questo tipo di gente non fa le cose per bene neanche per i suoi figli.

Figuriamoci per i nostri.

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domenica 19 agosto 2007

Jaggi Vasudev, detto Sadhguru (da La Repubblica di oggi)

Jaggi Vasudev, detto Sadhguru (da La Repubblica di oggi)

 

Chi anestetizza le nostre menti?

 

Federico Rampini, corrispondente de La Repubblica dall’India e dalla Cina, trascorre una settimana di meditazione e di yoga (occhio a questa parola, perché la ritroveremo in quel di Amalfi) nell’ashram di Jaggi Vasudev, detto Sadhguru, un settantenne che gira il mondo per insegnare inner engineering (= costruzione interiore) nelle università e nei summit più prestigiosi.

 

Rampini lo definisce uno yogi laico. Il Vasudev, infatti, non solo diffida di tutte le religioni, ma accoglie gli ospiti-allievi desiderosi di costruirsi interiormente” raccomandando loro, oltre che di tenere spenti i telefonini, di offrire una vacanza al loro Dio o ai loro dei per tutto il tempo in cui soggiorneranno nellashram.

 

Quanto sia “laico” lo yogi lo si capisce bene dalle seguenti parole; di cui non sappiamo quale importanza rivestano nel contesto del suo pensiero, ma che son le uniche che valga la pena di leggere nell’articolo:

 

Voi vivete in questo istante e la realtà di questo preciso istante non è modificabile: se imparate ad accettarla, curate la principale causa della sofferenza, che siete voi stessi.

 

La “cura” di questo “laico” dunque, né più né meno come per tutte le religioni, consiste nel tentativo di anestetizzare o addirittura soffocare la creatività, l’immaginazione che ci rende umani. La nostra naturale creatività (dono dell’evoluzione) che di questo preciso istante (cioè di quel che i nostri sensi percepiscono, momento per momento, nel rapporto con la realtà) intuisce le infinite possibili alternative migliori o peggiori, secondo lo yogi “laico” dev’essere sostitituita da un pensiero (in questo caso, un pensierino) prestabilito e controllante, al di là del quale la mente non deve poter andare. Dopo di ché, saremo felici: accetteremo l’istante così com’è, come fanno gli animali non umani, e accada quel che può.

 

Nello stesso numero del quotidiano, una sopravvissuta al crollo di Amalfi dichiara a Conchita Sonnino:

 

Ma si vedeva che era una piattaforma malandata, vecchia, con quelle assi di legno nude e un po’ umide...

 

In un certo preciso istante, dunque, la sensibilità e l’immaginazione di questa ragazza le avevano suggerito di modificare quel preciso istante, di creare per sé e gli altri un presente diverso: di andarsene subito via, insomma, in quel preciso istante. Ma la padrona di casa (un medico, attenzione!, anestesista) ha detto di star tranquilli, che lei su quel terrazzino fa yoga (attenzione: yoga!) e che è un pezzo di paradiso... Pezzo di paradiso che, pochi istanti precisi dopo, ha mandato quegli esseri umani a sfracellarsi sulle rocce.

 

Disgrazia? Fatalità?

 

Che il baraccone fosse abusivo o meno, tutti si sarebbero salvati se la ragazza avesse potuto dare ascolto alla propria originaria intuizione che era marcio e fatiscente. Ma così non è stato: il pensiero anestetizzante di chi fa yoga (no, tranquilla, questo è un paradiso!) si è sovrapposto al pensiero umano della ragazza, nato dalla sua sensibilità e dalla sua immaginazione, e lo ha ricondotto all’ordine sotto il proprio controllo.

 

Ma la colpa maggiore è dei tanti, fra noi, che sui giornali e altrove continuano ad ammannire ai ragazzi la fritta e rifritta “verità” millenaria (magari ripassata in salsa “laica”) che di sé stessi, della propria sensibilità e immaginazione, si deve diffidare. Perché induce a desiderare di modificare questo istante preciso. Che invece non sarebbe modificabile, ed ecco perché soffriamo...

 

Questo istante preciso, cari ragazzi, con buona pace di tutti gli yogi variamente travestiti che vi affliggono, è l’unica cosa al mondo che potete modificare.

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sabato 18 agosto 2007

Alice Teghil nell'ultima immagine di "Caterina va in città" (2003), di Paolo Virzì. Clicca per ingrandirla!

(Alice Teghil nell'ultima immagine di "Caterina va in città" (2003), di Paolo Virzì. Clicca per ingrandirla!)

 

Caterina va in città

 

Lunedì scorso, il 13, Rai 1 ha trasmesso Caterina va in città, di Paolo Virzì. Registrato, lo abbiamo visto ieri sera. Evitando così tutte le incivili interruzioni tranne la più scellerata, quella che tronca senza complimenti (i complimenti li fanno le persone per bene) i titoli di coda, il bel commiato musicale e soprattutto la separazione da un mondo dimmagini e di idee in cui non potevamo rimanere, e nemmeno l’avremmo voluto (saremmo ancora liberi, una volta personaggi?...) ma che sarebbe stato bello poter lasciare con calma.

 

Per chi non l’ha visto, ecco come ne delineano la trama il Morandini 2005: Da Montalto di Castro, ladolescente Caterina va con i genitori ad abitare a Roma, dove il padre, docente deluso e arrivista fallito, la spinge a frequentare le coetanee delle famiglie “bene”, aumentando il suo spaesamento; e la rivista Film Tv: UnAlice adolescente nella ben poco meravigliosa realtà dei nostri giorni. Appena trasferitasi a Roma dalla provincia coi genitori (l’arrivista Giancarlo e la timida e distratta Agata), la tredicenne Caterina diventa presto oggetto di contesa e di rivalità tra Margherita, figlia di due intellettuali di sinistra, e Daniela, rampolla di un importante esponente del governo di destra... (Il film, a proposito di governi, è del 2003).

 

Il personaggio del padre (interpretato con mostruosa bravura da Sergio Castellitto) si lascia comprendere, compatire e disprezzare soprattutto in due momenti. Il secondo, nell’atrio della scuola di Caterina, è quando vede allontanarsi pappa e ciccia, tra reciproci complimenti e pacche sulle spalle, l’importante esponente della destra e l’importante intellettuale di sinistra le cui figlie stanno cercando, in modi diversi, di far impazzire la sua. La faccia dell’arrivista Giancarlo (un grande Castellitto, non si può non ripeterlo) in quel momento è un poema. Con il quale si è costretti a identificarsi, a pensare che è vero, è proprio così: in Italia (ma forse in tutto l’Occidente) almeno i due terzi della cosiddetta sinistra s’intendono ormai molto più con la destra di quanto capiscano noi. Che perciò, sulla scena della Storia immensa e terribile, siamo rimasti quasi del tutto soli. E talvolta ne usciamo pazzi.

 

Ma Giancarlo non impazzisce per questo. Giancarlo era già pazzo da prima.

 

In quel momento, il falso insegnante e il falso padre si fanno compatire. Si fanno quasi amare. Ma poi ci si ricorda della prima scena del film. Quando Giancarlo, ottenuto il trasferimento in un liceo della capitale, si “separa” dagli alunni di Montalto dicendogli che sono stati la peggiore, la più avvilente esperienza della sua vita. Senza accorgersi, senza sospettare che invece è proprio lui l’ultima delle tante brutte esperienze che quei ragazzi – come le povere disgraziate “amiche” che Caterina incontrerà a Roma – hanno attraversato nel corso delle loro brevi vite: genitori stupidi e disperati come lui, di destra o di sinistra, e insegnanti disperati e stupidi di sinistra o di destra, come lui. Giancarlo che non ama nessuno, neanche la figlia (tutto il suo starle addosso non è altro che disperazione anch’esso, disperato bisogno di consolarsi del fallimento col successo di cui Caterina, egli crede, sarà debitrice solo a lui), Giancarlo che non è mai stato capace di sentirsi (e così di far sentire un alunno) importante in quanto essere umano, come potrebbe accorgersi, mentre commisera sé e l’Italia intera dinanzi allo spettacolo del pappa e ciccia sinistra-destra, che lo spettacolo che ha offerto alla classe di Montalto “salutandola a quel modo è esattamente lo stesso?

 

Caterina invece no. Caterina non è così. Come Veronica nel bellissimo film di Kieslowski, ma grazie a Virzì più come la Veronique francese che come quella polacca (e infatti lo dice, a un certo punto: volevano chiamarmi Veronica, ma poi...) Caterina ha il canto. E vederla cantare nel coro, vederla fremere e quasi spiccare il volo  per la bellezza di essere tutt’uno con la musica e le voci in un fare insieme la bellezza che è solo umana  fa venire le lacrime agli occhi per il timore che la distruggano e la speranza che invece no. Ha, cioè, Caterina, qualcosa di umano in cui realizzarsi, bello e forte fino a stringere il cuore, al quale si è impegnata e legata senza riserve, per sempre. È per questo che mentre tutti impazziscono, per lo schifo che da destra e da sinistra viene loro inflitto (tutti, e per primo il padre) Caterina invece no, non impazzisce: perché si è impegnata e legata senza riserve, per sempre, a realizzarsi in qualcosa di umano, bello e forte fino a stringere il cuore, nel quale si sente e rimane splendida, cioè sé stessa.

 

E il suo cuore non è come quello di Veronica. È forte.

 

Un bel film, dunque, di cui siamo grati a tutti coloro che lhanno fatto ma dei quali non abbiamo potuto apprendere i nomi dai titoli di coda perché Rai 1, pappa e ciccia con Mediaset, come al solito li ha vilmente troncati e fatti sparire. Bello, soprattutto, perché ci ricorda che in Italia ce ne sono davvero, di giovani come Caterina. Anche se poi il film sembra voler dire, purtroppo, che i giovani così sono pochi, pochissimi. Ma non è vero, naturalmente. Sfidiamo chiunque a trovare nel nostro paese una classe detà meno “ricca” di imbecilli e di malvagi dellattuale 0-30 anni. Ma questo, per saperlo, bisogna non avere in cuore e nella mente neanche una briciola del falso padre e del falso insegnante, povero Giancarlo. Che la disperazione fa sparire per sempre su una moto che per lui non è mai stata un’immagine di libertà, un moderno destriero, ma un mezzo per fuggire. Abbandonando la figlia. O forse liberandola.

 

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La suora che vide morire don Puglisi e che ora è a San Luca, intervistata da Giovanni Maria Bellu su La Repubblica di oggi, dice che le donne di questo paese hanno due anime: quella religiosa, di una religione piena di simboli, e quella rabbiosa. Rabbiosa contro lo Stato.

La brava suora non lo sa. Ma l’ha sempre saputo la ’ndrangheta, e lo sapevano già i sanfedisti due secoli fa: è la prima anima che nutre la seconda.

 

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Domani comincia il solito meeting agostano di Comunione e Liberazione. Ospiti d’onore (speriamo non pappa e ciccia) Fassino e Tremonti. Tema: la verità.

Ci permettiamo di ricordare a quanti lo dibatteranno che:

 

1. Il vero, per ogni essere umano, è ciò che è vero per lui, perché il solo criterio di verità di ogni essere umano sono i suoi cinque sensi e la sua immaginazione.

 

2. Il vero, per due o più esseri umani, è solo ciò su cui essi liberamente consentono. E questo vale anche per le verità scientifiche, perché i criteri in base ai quali sono dette tali si fondano sul consenso della comunità degli scienziati e sul nostro con il loro. (Sperando che non tornino mai i tempi bui in cui il nostro consenso gli scienziati non lo avevano...)

 

3. Il vero, di conseguenza, non può essere imposto. Nemmeno se ciò che si vorrebbe imporre come vero accade dinanzi agli occhi di colui al quale si vorrebbe imporlo. Ognuno, infatti, è libero di non credere neanche ai propri occhi, se così gli piace.

 

4. Il vero che è tale per un altro dev’essere rispettato anche se non è vero per me. Non perché il vero altrui sia sempre degno di rispetto, ma perché un rispetto le cui ragioni non possono essere dimostrate o è per tutti o non è per alcuno.

 

5. Quanto sopra, è ovvio, è vero per me.

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venerdì 17 agosto 2007

La lingua di Veltroni rossa non è mai stata, ma adesso è proprio blu!

Ma che lingua parla Veltroni?

 

Sessanta righe di stampa, una mezza colonna, su La Repubblica di oggi, per dirci che Walter Veltroni, tornato dalle Maldive, si sta riposando a Sperlonga e a Sabaudia.

Trenta per dirci che la gente lo riconosce, lo saluta, gli offre un caffè, gli chiede l’autografo. Parlare di politica? C’è tempo, grazie, risponde il Nostro. Parliamo d’amore, piuttosto.

Ma che genere d’amore?

Ce lo spiegano le ultime venti righe. Dove, su 181 parole, ben 22 (il 12%) sono le seguenti: il chiostro, il convento, San Domenico, monsignor, vescovo, lamore cristiano, SantEgidio, il pellegrinaggio, il diavolo, il paradiso, linferno, Dio.

Tra le altre, c’è per caso la parola sinistra? Non sia mai! Del resto, prima di andare alle Maldive, il Nostro era riuscito a scrivere, sempre su La Repubblica, un’intera pagina di querimonie senza mai usare quella che ormai, evidentemente, nel creaturo PD, è diventata una parolaccia.

La giornalista, Alessandra Longo (che non dev’essere accia) non dice se Walter, mentre così si esprimeva, portasse o meno il cilicio con cui la Binetti, sua futura “compagna” (si fa per dire) di PD, raccomanda di fortificare la carne. Ma noi siamo assolutamente certi che non lo portava, che diamine!

Dopo tutto, era in spiaggia.

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giovedì 16 agosto 2007

Chi ti conosce, mamma?! Mi dispiace, ma sei uscita e ti ho scordato!

Lontan dagli occhi lontan dal cuore, cara mamma!

 

Secondo la professoressa (universitaria!) Maria Cecilia De Oliveira Micotti (Mente e cervello n° 32, agosto 2007, pp 76-83) soltanto quando una cosa può essere rappresentata da altre  ossia quando il reale passa a essere rappresentato da significanti distinti dalle cose significate  il bambino può ricordare gli oggetti e le persone assenti.

 

Secondo questa esperta, dunque, il bambino, finché non impara a servirsi delle parole (= i significanti distinti dalle cose significate) dimenticherebbe allistante tutto ciò che perde di vista. Per esempio, siccome non ha ancora la parola mamma, perderebbe la madre (e il rapporto con lei) ogni volta che la mamma esce dal suo campo visivo. E naturalmente, di conseguenza, non la riconoscerebbe quando la rivede, e dovrebbe perciò ogni volta ricominciare il rapporto da capo!

 

Il bello è che questa Maria Cecilia De Oliveira Micotti non insegna estimo o scienze bibliotecarie  con tutto il rispetto per lestimo e le scienze bibliotecarie  ma pedagogia alluniveristà di San Paolo del Brasile...

 

Comicamente, nello stesso numero della rivista (nellarticolo Quel cervellone di papà, di Julia A. Markham, pp 100-101, ove si dà conto di alcuni recenti studi che dimostrerebbero che la paternità altera  in meglio  la struttura del cervello accrescendo le connessioni delle aree coinvolte nelle funzioni cognitive superiori) si legge che nei futuri padri uistitì (Callithrix jacchus, un primate di piccole dimensioni) sono stati osservati cambiamenti ormonali analoghi a quelli dei futuri papà umani: questi maschi, dunque, si predispongono alla cura dei piccoli anche senza il beneficio della comunicazione linguistica, da parte della compagna, della propria imminente paternità...

 

Dunque una scimmia, pur non disponendo di un linguaggio verbale, inizia a ricordare di essere padre addirittura prima di aver mai visto il piccolo. Mentre un neonato, chissà perché, finché non parla non sarebbe in grado di rammentare il volto della mamma che è uscita e di sentire la mancanza proprio di lei!

 

Misteri della negazione a tutti i costi dellumanità dei neonati umani.

 

 

Paura dei tuoni?

Paura dei tuoni?

 

Rileggendo Il garofano rosso, scritto da Elio Vittorini alletà di venticinque anni, sono rimasto colpito, fra mille altre cose, dai tanti ragazzi che vi si incontrano, già grandi, sui sedici anni e oltre, che hanno paura dei tuoni. E parlando tra loro lo ammettono, anche se vergognandosene un po. Questa fobia era forse, un tempo, più diffusa e potente di quanto lo è oggi? E se sì, perché?

 

Mi son detto, speranzosamente, che forse va diminuendo, intorno ai piccoli dei giorni nostri, lassordante clamore del parlare adulto che una volta li sovrastava spesso e a lungo, caotico, senza curarsi né interessarsi a loro. Che finalmente stia svanendo, ho pensato, lassù, sulla vetta dellOlimpo, lo spaventoso tuonare degli Dei indifferenti ai piccoli mortali?

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L’immagine di sfondo di questa pagina, raffigurante piazza delle Ville ad Anticoli Corrado, è un dipinto dell’artista danese Viggo Rhode (1900-1976).

L’ha segnalata a ScuolAnticoli il signor Peter Holck. Rielaborazione grafica di Luigi Scialanca.

 

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