L'immagine di sfondo di questa pagina, raffigurante piazza delle Ville ad Anticoli Corrado, è un dipinto dell'artista danese Viggo Rhode (1900-1976). L'ha segnalata a ScuolAnticoli il signor Peter Holck. Rielaborazione grafica di Luigi Scialanca.

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La Terra vista da Anticoli Corrado

 

diario del Prof (scolastico e oltre)

 

novembre 2009

 

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lunedì 30 novembre

Antonio Ingroia

La Repubblica Italiana

Stefano Rodotà

Antonio Ingroia e Stefano Rodotà

 

La demolizione dello Stato

 

“Io credo che siamo in una situazione di emergenza. Emergenza vera, effettiva, non le emergenze fittizie, create ad hoc per deviare l’attenzione dell’opinione pubblica. Non l’emergenza immigrazione, non l’emergenza magistratura, non l’emergenza intercettazioni. Noi in Italia abbiamo un’emergenza democratica. E l’emergenza democratica che abbiamo nel nostro Paese nasce da una situazione attuale, contingente, che ha a che fare con l’attacco sistematico che si avvia verso una sorta di ― passatemi il termine, che riconosco un po’ enfaticosoluzione finale (...) sui due punti che poi sono cruciali, rimasti in qualche modo a presidio, che sono costituiti dagli unici presìdi di controllo rimasti in piedi: la magistratura e la libera informazione. Su questi snodi, in modo lucido e sistematico, si muovono le iniziative legislative attuali e all’orizzonte: quella sulle intercettazioni, ad esempio, ne costituisce soltanto l’ultimo anello (...). Ma quel che sta accadendo in Italia, che è accaduto negli ultimi dieci anni (...) e che rende non enfatica ― anzi: direi quasi un eufemismo ― l’espressione che ho usato prima di emergenza democratica, è che noi non ci troviamo soltanto di fronte a una sistematica demolizione dei pilastri dello Stato di diritto. Noi ci troviamo di fronte a una sistematica demolizione dello Stato. (Intervento del magistrato Antonio Ingroia, Napoli, sabato 7 novembre 2009, citato da Terra di martedì 24 novembre 2009).

 

Le parole del dottor Ingroia hanno trovato una puntuale e autorevole conferma, pochi giorni dopo, in quelle di Stefano Rodotà, insigne giurista, costituzionalista e presidente della Commissione scientifica dellAgenzia per i diritti fondamentali dellUnione Europea: Possono le istituzioni sopravvivere in un ambiente in cui la loro delegittimazione diviene una deliberata strategia politica? Che cosa accade quando il rispetto della Costituzione è costretto a rifugiarsi in luoghi sempre più ristretti? Stiamo percorrendo una anomala e inquietante via italiana all’estinzione dello Stato? (La Repubblica, domenica 22 novembre 2009). Ed entrambe convalidano (si parva licet...) le nostre del 20 ottobre u.s. nella rubrica Pensier(in)i del giorno: Quanto più s’indebolisce lo Stato ― ‘privatizzando’ quel che si può svendere e ‘riformando’ quel che si può solo strangolare ― tanto più si rafforza l’antiStato. Rendendo inutile e risibile, spesso volutamente, ogni vantato ‘inasprimento’ delle leggi contro la criminalità organizzata.”

 

Nulla da aggiungere. Salvo invitare alla massima vigilanza e resistenza, in ogni momento e in ogni luogo, le Donne e gli Uomini che malgrado tutto amano ancora il nostro Paese. E ad aderire e partecipare ― TUTTI, indipendentemente dalla propria collocazione politica ― al No Berlusconi Day di sabato 5 dicembre 2009 a Roma, piazza della Repubblica, alle ore 14.

 

Tutte le immagini del No Berlusconi Day cliccando qui!

 

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domenica 15 novembre

 

Per la serie "A volte è il Lupo a gridare al lupo": Roberto Calderoli e Roberto Maroni.

Per la serie "A volte è il Lupo a gridare al lupo": Roberto Calderoli e Roberto Maroni.

 

Cosa prepara la Lega?

 

Perché Roberto Calderoli dice che il presidente del Consiglio era solo il primo obiettivo, che nel mirino ci sono tutti, maggioranza e opposizione, l’intero sistema democratico, e che stanno cercando di far fuori la politica a prescindere dagli schieramenti? Perché parla di cose devastanti e di sospetto e aggiunge che per fermarlo bisogna aprire una stagione costituente vera (clicca qui per i particolari delle sue dichiarazioni)? E perché Roberto Maroni (dopo che, come scrive La Repubblica, avrebbe fatto spostare per motivi di sicurezza il capo del Governo da via del Plebiscito a piazza Colonna) si è detto preoccupato per i segnali ricevuti dell’attività di un gruppo che si rifà alle Brigate Rosse ed ha affermato di voler contrastare con ogni mezzo i criminali che non hanno sufficiente materia grigia per far politica senza violenza? Perché due ministri (tra cui, autorevolissimo, il ministro degli Interni) parlano di primi obiettivi, di attacchi al sistema democratico, di cose devastanti, di sospetto, di necessità di intervenire sulla Costituzione, di allarmi per la sicurezza del presidente del Consiglio, di azioni di contrasto da condurre con ogni mezzo?

 

Perché ventilare pericoli così gravi quando è evidente che gli unici attacchi al sistema democratico vengono proprio da una parte consistente della Destra, da alcuni settori della finta “sinistra” (alla Destra molto più vicini, o succubi, di quanto vorrebbero far credere) e dalle forze oscure e pervasive dellantiStato che con la Destra e la finta “sinistra” sintersecano?

 

Si vuol forse fomentare un senso di allarme così minaccioso (non tanto fra i Cittadini, quanto nelle élite politiche, ecclesiastiche, economiche e militari) da “giustificare” uno “stato di eccezione”, il ricorso a decreti liberticidi e la sospensione “a tempo determinato” delle garanzie costituzionali e dei Diritti fondamentali? Che cosa prepara ― davvero ― la Lega, a che cosa mira? Qual è il “piano B” (leghista e di qualcun altro) per evitare la caduta del Berlusconismo o rimpiazzarlo con qualcosa di peggio? Chi sono ― davvero ― le “migliaia di uomini in armi” a cui spesso lancia appelli il Bossi? E quanto è il caso, a questo punto, che i sani di mente comincino a stare davvero in guardia?

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martedì 3 novembre

 

"La Morte e la Fanciulla" (1518 - 1520), di Hans Baldung Grien (1485 - 1545).

 

La Morte e la Fanciulla

(ipotesi sulla anoressia)

 

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Un insensato pessimismo sulla nascita umana, e l’irriducibile, ossessiva volontà di istillarlo in tutte le menti: soprattutto in questo, mi sembra, le religioni sono malate e patogene.

 

Come se Homo Sapiens sia l’unico animale sociale... antisociale. L’unico che l’evoluzione ha reso inetto, senza però estinguerlo, a interagire validamente con i cospecifici. L’unico che, per un’inconcepibile inversione delle leggi naturali, si è evoluto “al contrario”: diventando, cioè, meno adatto dei predecessori non umani a convivere coi propri simili, pur seguitando a non poter farne a meno. E bisognoso, perciò, di essere “corretto” dall’educazione, dall’istruzione, dalle leggi, e soprattutto dalla religione di chi fu educato, istruito, domato, controllato e, soltanto così, “umanizzato” prima di lui.

 

Mito fondativo della svalutazione religiosa dell’umano è, per i Cristiani, il peccato che per questo è detto originale: la colpa che precede la nascita di ognuno, che contamina la nostra specie fin dall’origine, che nessuno può non commettere poiché si nasce avendola già perpetrata: lo stigma, il marchio d’infamia indelebile che ci segna tutti, poiché ognuno lo reca impresso nella propria natura prim’ancora di venir concepito, prim’ancora di essere anche solo immaginato.

 

Ma la certezza delirante che gli umani siano gli unici animali che nascono menomati non è solo nel mito del peccato originale, e nemmeno è solo dei Cristiani: è nell’idea di tutte le religioni che l’umano sia di per sé inferiore perché vi è un “divino” che all’umano è superiore; e che dinanzi al divino, al quale la nascita non occorre in quanto è increato ed è sempre esistito, si riveli imperfetto, e dunque spregevole, il nostro “umile” bisogno, per nascere, che una donna ci dia alla luce. Idea che dalle religioni è filtrata nelle filosofie ― comprese quelle che si dicono atee, o quanto meno agnostiche ― e dalle filosofie nelle ideologie, nelle culture, nelle tradizioni e perfino nelle mode, più o meno “colte”, che di tempo in tempo dilagano nelle nostre società e nelle menti dei singoli come epidemie.

 

Non solo a livello dei “massimi sistemi”: anche dei minimi. Dacché c’è religione, infatti ― a insinuare il dubbio che si nasca difettosi e perversi nel corpo e nella mente per il nefasto influsso che il corpo eserciterebbe sulla cosiddetta “anima” ― quanti bambini, benché nati senza disabilità, sono potuti sfuggire all’angoscia dei loro infelici genitori che avessero non solo la testa grossa o piccola, i denti o le orecchie sporgenti, il naso lungo o storto, gli occhi deturpati dalle occhiaie, le spalle strette o i piedi piatti, ma anche, e soprattutto, ogni sorta di mentali predisposizioni negative da reprimere e correggere, talora spietatamente, “per il loro bene”? Quanti bambini non sono stati scrutati con paurosa attenzione fin dai primi giorni in cerca di una tremenda conferma a paure così anteriori al loro concepimento da risalire all’infanzia dei genitori e dei nonni? In quanti bambini non sono stati insinuati, in maggiore o minor misura, diffidenza e ribrezzo per una parte del corpo, per una funzione corporale o per sensibilità e tendenze del tutto naturali, come se si debba per forza essere affetti da qualcosa che non va, noi umani, e che non può che danneggiare noi stessi e disgustare gli altri? Quanti bambini non hanno finito per “sapersi” brutti e cattivi, a furia di sentirsi ansiosamente esaminati, indagati, sorvegliati? Pochi. Ma nessuno ― anche tra i meno “reprensibili” sotto ogni punto di vista fisico e morale ― arriva a diventare adulto senza aver subìto molestie dalla certezza delirante che in mancanza di educazione, di istruzione, di leggi, e soprattutto di religione, niente impedirebbe all’intima tara inseparabile dalla nascita umana di dispiegare i suoi funesti effetti sul suo carattere e sull’intera sua vita.

 

Essendo nato umano, non sono del tutto umano: istillata questa insensata e terrorizzante idea nelle donne e negli uomini fin da bambini, la religione ― secondo modalità intellettualmente più raffinate ma non diverse dalle minacce di spaventose disgrazie, rovina e morte con cui le “catene di sant’Antonio” inducono chi le riceve a sottomettervisi e a trasmetterle a propria volta ― ha buon gioco a presentarsi come la sola “cura” possibile ed efficace contro la “disumanità” di essere nati umani.

 

Fra i Cristiani, per esempio, la “cura” comincia col sacramento del battesimo: con un rito, cioè, che come una stregoneria “ripara” nel neonato il “guasto” che la nascita gli ha inflitto. Ma la riparazione, ahimé!, non è definitiva, non garantisce neanche per un giorno: poi, e per tutta la vita, ci si deve sottomettere alla religione e ai suoi depositari, altrimenti la “tara” della nascita recidiverà ― in modo tanto più severo e invalidante quanto più grave sarà stata la ribellione ― e l’umano andrà incontro al destino a cui la sua nascita imperfetta lo consegna se una fede non lo salva: la morte eterna.

 

Il credente, così, trascorre la vita nella tragica condizione, più o meno cosciente e più o meno tormentosa, di non aver mai la certezza di essere definitivamente guarito dalla propria nascita. E tuttavia la religione gli rende questa pena relativamente (molto relativamente) tollerabile, finché la fede la tiene “sotto controllo”: come con una malattia incurabile, ma che la medicina moderna riesce a tenere a bada a tempo indeterminato, così con la propria insana nascita il credente può coesistere senza quasi mai ridursi all’estremo di non sopportare di vivere, finché il “conforto” della fede lo fa sentire (alla meno peggio) “accomodato”, anche se mai pienamente risanato.

 

Soffre per tutta la vita di essere nato, il credente. E però quasi mai così tanto da voler morire.

 

Ma che ne è dei non credenti?

 

Che ne è di chi non è “consolato” dalla religione, se nel riconquistarsi la perigliosa libertà umana non lo rende forte una teoria, una certezza, una scienza della nascita?1 Se affrancandosi dalla religione, cioè, egli non si è tolto dalla mente (come non son riuscite a toglierselo le filosofie, le ideologie, le culture che si illudono di essere “laiche” pur conservando la fede che l’umano non nasca umano) l’aculeo velenoso che essa nella mente gli ha conficcato, la “testa della zecca”, la “tenia” mentale che inesorabilmente si riforma e ricresce, e che di ogni religione è il danno peggiore: il dubbio di essere nati non del tutto umani, e quindi perniciosi per sé e gli altri? Come non disperare, se pur senza fede egli séguita, più o meno consapevolmente, a creder vero, di sé, quel che la fede delira su di lui?

 

Ebbene: le Società più avanzate sono oggi in questa condizione. Checché ne dicano e si sforzino di credere di sé stesse, esse sono già tutte pervenute, da più o meno anni, a non essere più religiose affatto, o ad esserlo solo esteriormente; ma da quel punto, che non hanno saputo rendere un punto di non ritorno, stanno tutte tornando indietro per lo spavento e la disperazione in cui le getta il non aver più una fede ― che allevii il dubbio sulla nascita che la fede istilla ― senza però aver trovato una scienza che della nascita li renda certi.

 

La maggioranza dei bambini e dei ragazzi di oggi, in altre parole, in quello che chiamiamo l’Occidente, benché il battesimo e la cresima che ricevono non abbiano più alcun effetto sulla loro vita affettiva e intellettuale (o addirittura non siano battezzati e cresimati affatto) continuano tuttavia a essere allevati, educati e istruiti (con l’attiva connivenza di intellettuali, scienziati ed educatori sedicenti “laici”) nella religiosa certezza che la nascita umana... non sia del tutto umana: che l’animale umano, cioè, unico fra tutti, per un’inconcepibile inversione delle leggi naturali si sia evoluto “al contrario”: diventando, cioè, meno adatto dei suoi predecessori non umani alla convivenza coi propri simili di cui però, per quelle stesse leggi, non può fare a meno.

 

Essendo nato umano, non sono del tutto umano. C’è in me ― nel corpo, nella mente ― qualcosa che per nascita, per natura, non va. Qualcosa che non è sano: è brutto, è ripugnante, è pericoloso per me e per gli altri. Qualcosa che, essendo per natura, non si può correggere né mitigare: solo controllare, forse, ma controllando tutto me stesso. Solo uccidere, forse, ma uccidendo tutto me stesso... Un delirio così, quanto può far impazzire un bambino, se la famiglia e la società non solo non vogliono o non sanno più imporgli un rito che stregonescamente lo faccia sentire assistito e sostenuto, ma addirittura celebrano contro di lui (e non sempre senza rendersene conto) “riti” e pratiche che all’opposto rafforzano il suo sentirsi fisicamente e moralmente affetto da incurabile insania? Se gli adulti ― i genitori, i familiari, gli insegnanti ― anziché gioia, fiducia, certezze, dal suo essere al mondo non traggono che sempre nuovi impulsi al pessimismo, alla diffidenza, al dubbio che ciò che in lui per natura in quanto umano non va si consolidi, si rafforzi e un domani trionfi in una definitiva apocalisse esistenziale? Se negli adulti, giorno per giorno (magari con mesta “dolcezza”, con quella sinistra parodia d’amore che è la premura della buona infermiera quando anziché verso i malati si manifesta contro i sani) il “miglior” sentimento che traspare per lui è uno stoico e rassegnato scetticismo?

 

In Occidente, da decenni, molti bambini crescono in questa condizione. E l’ipotesi che mi sembra lecito avanzare, dunque, è che proprio essa sia il primo motore delle tante forme di suicidio più o meno consapevole che nelle società avanzate sono la prima causa di morte tra gli adolescenti e i giovani: l’alcolismo, la guida spericolata, le tossicodipendenze. E l’anoressia.

 

Di quest’ultima, in particolare (benché consapevole della cautela a cui mi impegna lo status di non “addetto ai lavori”) cinque sono le caratteristiche che mi paiono confermare l’idea che la si possa descrivere come una sorta di disperazione della nascita, fantasticata come incurabile, in un contesto sociale e familiare abbastanza secolarizzato da non offrirle più alcun conforto mitico e rituale, e tuttavia ancora così permeato di inconsapevole religiosità da non permetterle alcun approccio (o da farla naufragare nel tentativo) a una cura fondata su una scienza della condizione umana:

 

1. La strenua, disperata ricerca (anziché di perfezione, come superficialmente si crede) di una sorta di martirio dell’imperfezione, che la innesca e la alimenta;

2. L’assoluto ― più che autocontrollo ― autocontrasto di sé, che la “soddisfa” e la perpetua;

3. Il trionfo sul corpo di una mente vissuta come “puro” anti-corpo, che rende l’anoressia inesorabile;

4. Il senso di superiorità su chi non vi si sottomette, barriera impenetrabile contro ogni tentativo di metterla in crisi;

5. La tendenza a organizzarsi in una rete di “solidarietà”, complicità e reciproche consolazioni negative del tutto analoga a quella che offre agli adepti ogni fede organizzata in una Chiesa.

 

L’anoressia, cioè, fra le malattie mentali, non solo (com’è stato già notato) è la più simile alla religione, ma è religione essa stessa: la religione (anzi: il fanatismo antiumano “allo stato puro”, senza storia, né tradizioni, né sovrastrutture di alcun tipo) di un soggetto nel quale la famiglia ― e attraverso essa, come per il crollo di una diga, la sfrenata potenza della società, della cultura, dei media, della scuola ― sono riuscite a istillare una assoluta, mortale sfiducia nell’umano (inteso non in astratto ma come propria nascita, propria natura, corpo e mente propri, carne, sangue, immagini e idee di ogni minuto della vita) e altresì hanno sistematicamente destituito di valore ogni “palliativo” mitico-rituale più o meno “magico”, o ideologico, o culturale, o anche solo affettivo, che possa contrastarne la deriva verso un assoluto, mortale pessimismo di sé.

 

L’anoressica, cioè (ma sempre più anche l’anoressico, a mano a mano che nelle famiglie il rapporto con il figlio maschio tende a non distinguersi, psicologicamente e culturalmente, da quello con la femmina) è la bambina e poi la ragazza che a un dato momento cessa di resistere alla sistematica (benché più o meno inconsapevole) proposizione (non assertiva ma, per così dire, per sottrazione di alternative) che la famiglia le fa (e attraverso essa la società, la cultura, i media, la scuola) di una immagine di sé come entità mostruosa, come creatura “aliena” in cui in ogni momento possono insorgere (e alla pubertà le sembrano effettivamente insorgere) idee e volontà che ella “sa” del tutto difformi da quelle che una ragazza “ideale” (tra virgolette, poiché l’anoressica non ne ha idea: di lei sa soltanto che è il suo opposto assoluto) dovrebbe albergare in sé.

 

In quanto “aliena” ― e in quanto “non figlia di Dio”, poiché l’anoressica è stata e si è convinta che non vi è alcun Dio ― tale “creatura” è un mostro non domesticabile: solo la forza fisica, solo la violenza può averne ragione, domarlo, sottometterlo all’idea di come dovrebbe essere: un’idea che però (per l’immediato annullamento di ogni propria o altrui idea sana, “virtuosa”, a cui la “creatura”, per aver ceduto allo scetticismo familiare, non è in grado di dar credito “sapendola” a priori insensata) non può “prender corpo” che attraverso la contrapposizione assoluta, fermissima, spietata, a tutti gli impulsi, le volontà, le fantasie, che nella non umana natura della “creatura” si formano spontaneamente, naturalmente: tutto (letteralmente tutto) ciò che viene dalla “creatura” è “maledetto”, e tutto perciò deve essere contrastato, respinto, amputato, incenerito, cauterizzato. La sua vita deve diventare un’antivita, il corpo un anticorpo, la mente un’antimente, la morte un’antimorte. Ma poiché la “creatura” non può parlare né ascoltare né pensare (capisce e usa il linguaggio, ma le è impossibile condividerlo semanticamente e affettivamente) il solo modo per costringerla è domarla fisicamente con spietata violenza: obbligandola ad acconsentire quando vorrebbe esimersi, a sorridere quando vorrebbe piangere, a tacere quando vorrebbe parlare, a far silenzio quando vorrebbe urlare, a studiare quando vorrebbe giocare, a digiunare quando vorrebbe mangiare, a vomitare ciò che vorrebbe digerire, a consumarsi quando vorrebbe crescere. E poiché, nonostante ciò, la “creatura” è incurabile, intrasformabile (non può muovere neanche un passo verso l’ignoto “ideale” che vorrebbe imporsi, poiché una nascita non umana non è umanizzabile più di quella di un animale non umano) altro non se ne può fare che ucciderla: solo da morta la “creatura” sarà, in qualche modo, pazzescamente, inconcepibilmente “umana”: poiché solo nei morti, finalmente, non c’è più alcunché di mostruoso.

 

Noi altri, per colei che dal nulla (poiché l’anoressica esiste per noi, non per sé) rintuzza ferocemente e disperatamente il mostro, la “bimba scambiata” che nessuno ha saputo impedire alle streghe di sostituire a lei nella culla (quale che sia il rapporto che tentiamo di fare: noi altri da relegare in un limbo di “tollerante” e “affabile” noncuranza, se la contrastiamo; noi altri da compatire con “affettuosa” delicatezza, se pur non contrastandola non capiamo che dovremmo invece assisterla e seguirla) siamo individui senza Dio dinanzi a un’illuminata: infelici che vagano nel buio senza sapere perché soffrano, inetti a spiegarsi la propria infelicità; o al contrario agenti nemici da isolare, sì, ma senza aggredirli, continuando a sorridere loro, ma senza sfiorarli nemmeno col pensiero; e comunque tutti lontanissimi, tutti di gran lunga inferiori, tutti minuscoli, laggiù, in un mondo di mostri illusi di essere umani che quasi le fanno tenerezza, perché no? ― in fondo siamo meno mostruosi di lei: un po’ come sembra meno brutta della propria, a chi si sente brutto, la bruttezza di un altro ― ma che niente potrà mai elevare fino a lei, finché ci ostineremo ad aver cura di noi come matti che coltivino erbacce. Lei che invece non si illude. Che sa. Che da un Dio inesistente, ma proprio per questo invincibile dall’immaginazione, ha avuto in dono, contro di sé, l’antimiracolo di poter guarirsi dalla propria nascita.

 

Come abbiamo potuto lasciarla morire? è la domanda che ci tormenta dopo che la fanciulla ha eseguito la condanna a morte che la negazione dell’umanità della nascita umana scaglia contro ogni nato di donna. Non prima: dopo. Poiché prima non riuscivamo neanche a immaginare che la condanna a morte contenuta nella negazione religiosa (o “laica”) dell’umanità della nascita umana, né più né meno che la fattura di uno sciamano, porti davvero alla morte chi non riesce a sottrarsi alla sua mortale fascinazione. “Se un terremoto avesse sepolto viva la fanciulla sotto le macerie della sua casa” (chi ha visto The miracle worker ha già udito queste terribili parole) “noi con le unghie e coi denti avremmo scavato, senza riposo, fino a schiattare avremmo scavato, pur di tirarla fuori di lì”. Ma dalla fanciulla condannata a morte invece no, non siamo corsi a scavare fino a farci sanguinare le mani, e solo ora, solo dopo ci tormentiamo: come abbiamo fatto a lasciarla morire? E la risposta è che l’abbiamo fatto (razionalmente “protetti” dallo “scientifico” “sapere” che non c’è Dio né Dei, che anatemi e fatture non hanno potere, che non si muore per essere stati maledetti, e nemmeno per esserlo stati fin da prima di nascere) poiché alla condanna a morte non abbiamo creduto neanche mentre coi nostri occhi vedevamo la fanciulla eseguirla, e giorno per giorno dinanzi ai nostri occhi morire.

 

Non ha dunque funzionato, il nostro “laico” e “scientifico” “sapere” che in un’occidentale società avanzata nessuno più muore perché maledetto? Era dunque in realtà un saper niente, un amuleto, un cornetto rosso appeso al parabrezza degli occhi e della mente? Un saper niente che niente ha potuto contro la condanna a morte che la fanciulla ha lucidamente e implacabilmente dedotto da una certezza ― di non essere, in quanto umana, umana ― che era in lei infinitamente più salda e più “scientifica” del nostro impotente amuleto? Come abbiamo potuto lasciarla morire? ci domandiamo ora, dopo, tormentandoci quando il tormento è finito. E la risposta è che ci siamo riparati dietro il nostro razionale, “scientifico” e “laico” “sapere” che di maledizioni non si muore, poiché non abbiamo voluto sapere, non abbiamo voluto sentire, non abbiamo voluto neanche immaginare di star fingendo di sapere, recitando a “fare i laici”, illudendoci che gli anatemi non esistano o non funzionino più e che l’annullamento religioso della nascita umana non sia ormai, nelle nostre società, niente di più serio del divieto di mangiar carne il venerdì o dell’obbligo per le donne di entrare in chiesa velate.

 

Come quelli di cui ridiamo, tronfi (sì, come i creduloni che vanno dai maghi in cerca di filtri d’amore e di numeri al lotto) anche noi andiamo dai “sapienti” a farci raccontare che non c’è pericolo, che possiamo benissimo ― “tranquilli” e “sereni” benché si tratti di vita o di morte ― fingere di non esser più religiosi seguitando tuttavia a credere che non si nasca del tutto umani, e al contempo illudendoci che nessuno ne sarà davvero colpito, che nessun punto di non ritorno sarà varcato, che in nessuna famiglia, e tanto meno nelle nostre, per un tragico concorso di circostanze (una nascita fisicamente difficile, una dura tradizione contadina cancellata senza risolverla, un comunismo materialista inconsciamente cinico come il peggior affarismo, un’anaffettività, un silenzio, un’impotenza al rapporto trasmessi di generazione in generazione, o tutte queste cose assieme e anche altre) scatterà il conto alla rovescia di una condanna a morte lucidamente e implacabilmente dedotta dalla fede che la vita sia morte: come nelle mistiche medioevali (anzi: molto peggio, per il fanatismo dell’odio mortale che può arrivare a nutrire, per il proprio corpo creduto non umano, chi non crede di avere in esso un’anima che possa riscattarlo) ma senza la devozione che impediva alle mistiche medioevali di usurpare la volontà divina dandosi la morte da sole.

 

Come abbiamo potuto lasciarla morire? Non vedendo e non sentendo quel che vedevamo e sentivamo. Non volendo neanche immaginare quel che vedevamo e sentivamo. Poiché, altrimenti, ci saremmo sentiti indifesi, come e più dei nostri superstiziosi progenitori, dinanzi a una malattia mentale che può colpire e condannare a morte chiunque e ovunque ― se il maggior fattore di rischio, l’annullamento della nascita umana, continua a essere ripetuto e creduto e trasmesso come un germe mortale in una guerra batteriologica ― e che in effetti sta colpendo e condannando a morte dinanzi ai nostri occhi. Mentre vedere e sentire quel che vedevamo e sentivamo, o almeno immaginarlo, ci avrebbe spinti ad andare in cerca di vera laicità, di vero sapere, di una vera scienza della nascita che davvero renda immuni alla maledizione: una scienza che c’è1, e che potevamo almeno tentare di recare alla fanciulla condannata a morte, se non avessimo temuto di mettere in crisi il nostro “laico” e “scientifico” “sapere” fasullo molto più che di agitare per aria amuleti mentre la fanciulla dinanzi ai nostri occhi moriva.

 

Post scriptum. È solo un’ipotesi. Nata, oltre che dall’aver tanto pensato, dal dolore, dal rimorso, dalla vergogna per non aver saputo impedire la morte di una ragazza che avevo conosciuto bambina... Ma, tuttavia, solo un’ipotesi di un “non addetto ai lavori”. La si può, volendo, facilmente falsificare: basta dimostrare che mi sbaglio, che non c’è nesso tra l’anoressia e l’illusoria “laicità” (o l’illusorio “scetticismo”) di società, culture e famiglie invece permeate, più o meno consapevolmente, di religioso fanatismo antiumano. E per dimostrarlo è sufficiente, volendo, effettuare uno screening delle famiglie coinvolte in casi di anoressia: andare a vedere se è vero o no che la maggior parte di esse (poiché “laiche” o poiché “scettiche”) vivono come se il divino, esista o meno, non significhi più alcunché, e al contempo come se l’umano non abbia mai nemmeno iniziato a significare tutto: senza più stregoni né preti, e va bene, ma anche senza medici. Senza più fatture né amuleti né sacramenti, ma anche senza medicine.

 

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[1] Il riferimento è alle scoperte e ai libri di Massimo Fagioli.

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