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Pratarelle di Vicovaro

 

mercoledì 7 giugno 1944

 

Gino Ventura aveva vent’anni. Era alle Pratarelle, Vicovaro, Roma.

Venticinque morti. Tra cui due bambini di tre anni e uno di quattro.

 

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Gino Ventura il 7 giugno 1944 aveva vent'anni. Era alle Pratarelle, Vicovaro, Roma. Venticinque morti tra cui due bambini di tre anni e uno di quattro... (Da "Io ho visto", di Pier Vittorio Buffa, Nutrimenti, Roma, 2013).

 

da

Io ho visto

di Pier Vittorio Buffa

Nutrimenti - Roma, 2013

(Fotografie di Pier Vittorio Buffa)

 

Gino

La fiammata

 

(Clicca qui per scaricare il testo in formato pdf - Clicca qui per scaricare il testo in formato Word)

 

Gino Ventura il 7 giugno 1944 aveva vent’anni.

Era alle Pratarelle, Vicovaro, Roma.

Venticinque morti tra cui due bambini di tre anni e uno di quattro.

 

Lo sento avvicinarsi perché i suoi scarponi si muovono nell’erba alta di giugno con ritmo cadenzato, da soldato senza fretta che sa cosa deve fare.

Lo vedo vicino a me perché sono sdraiato, prono, ma la faccia è girata, la guancia destra nell’erba, gli occhi a cercare di guardare più alto che possono.

Non vedo il suo volto, arrivo appena a immaginare il cinturone. Non mi muovo perché un istante prima avevo deciso di fare il morto. Deciso così, come un ragazzo di vent’anni può decidere cosa lo avvicina alla vita e cosa lo allontana. Nell’impulso di un attimo, nell’intuizione che quella è la cosa migliore che posso fare.

Il tedesco non crede che io sia davvero morto. Altrimenti non impugnerebbe la pistola come si fa quando si vuole uccidere. Con calma, mirando.

So che ha fatto così perché da quando si è fermato sopra di me a quando ho visto la fiammata è passato del tempo, tanto, un pugno di secondi che non conto ma che sembrano non finire mai.

Sono le otto e mezza di una bella serata di giugno, è quasi buio.

La fiammata è violenta e breve. C’è solo lei a dirmi che il colpo di grazia è partito verso la mia testa. Non ricordo nessun rumore di grilletto e otturatore, nessuna esplosione.

Solo la fiammata.

Non so cosa pensa un uomo negli attimi nei quali sa che sta per morire.

Non lo so perché in quegli attimi non si pensa niente.

Non lo so perché non sono morto.

Il sangue scende sugli occhi, il dolore è come di una bruciatura intensa.

Forse ho il sussulto di un uomo colpito a morte. O forse riesco a fare come avevo deciso, non muovermi per niente, come fossi già morto.

Chiudo gli occhi, o è il sangue a chiuderli. Comunque non vedo il tedesco andarsene, né sento i suoi passi nell’erba.

Ho dolore alla gamba, alla spalla, adesso anche alla testa. Ma resto immobile. Devo convincerli che mi hanno ucciso come volevano.

Io ero arrivato alle Pratarelle verso sera. È una bella zona a monte del paese. La gente di Vicovaro vi aveva costruito delle capanne per stare più al sicuro, lontano dalla guerra.

Noi che stavamo in montagna scendevamo giù per dormire e per rifornirci. Io ero nella banda partigiana Ziantoni e quella sera ero sceso per incontrare la mia fidanzata, Celeste Ziantoni. Ci sentivamo più sicuri, Roma era già stata liberata, i tedeschi si ritiravano verso nord e noi aspettavamo da un momento all’altro l’arrivo degli alleati.

Nella capanna di Celeste ci sono almeno una ventina di persone. Sono arrivato da poco quando sentiamo le urla dei tedeschi. Mi affaccio con cautela alla porta della capanna, sono tanti e non sembrano proprio in visita di cortesia. Torno dentro di corsa, una ragazza, Romana Febi, mi indica il retro della capanna.

“Vieni, ti faccio un buco con la roncola, scappa di qua”.

Appena il varco è sufficiente mi ci infilo, salto fuori e per quindici-venti metri vado avanti tenendomi più basso che posso per non farmi vedere. Scavalco un cancello e via di corsa verso la grotta, dov’è più difficile che i tedeschi ci trovino.

Ci sono già donne e bambini e altri tre uomini, un mio zio con suo figlio e un carabiniere. Tutti e quattro ci infiliamo nella grotta mentre le donne, insieme ai bambini, si mettono davanti all’ingresso per cercare di nasconderlo alla vista.

I tedeschi arrivano in pochi minuti. Forse hanno seguito delle tracce, oppure i fascisti del paese gli hanno detto della grotta.

Non si curano di chi cerca di proteggerci, in sei entrano e quando ci vedono ci puntano addosso i fucili e urlano agli altri rimasti fuori.

Usciamo dalla grotta con le mani in alto e vediamo gli altri, altri sei tedeschi con le armi pronte a sparare. Ci fanno un cenno brusco che vuol dire “camminate” e uno di loro ci fa capire, con parole che proprio non ricordo, che andiamo a cercare un posto dove fucilarci.

Ci siamo allontanati di poco dalla grotta quando, a lato del viottolo, c’è una donna uccisa. La conosco bene, è Maria Ventura. Accanto a lei, in piedi, gli occhi sbarrati, suo suocero, Giuseppe Carboni, che ha più di ottant’anni. Non lo lasciano stare, lo spingono verso di noi e anche lui viene a cercare il posto adatto alla fucilazione.

Ho fatto il soldato e anche se non ho mai combattuto so che non bisogna mai rinunciare a salvarsi, anche quando sembra che non ci sia più nessuna speranza. Mi guardo intorno, studio come si muovono i soldati tedeschi, cerco possibili vie di fuga. Niente, siamo praticamente circondati dai dodici soldati.

Si fermano in uno spiazzo. “Voi partigiani, kaput”, dice quello che sembra il comandante, giovanissimo.

Si allontanano, il momento sta per arrivare.

Alla mia destra c’è un piccolo burrone, un pendio ripido con sassi, un po’ d’erba e molti rovi.

Ecco, alzano i mitra.

Mi butto sulla destra, nel burrone, proprio mentre parte la raffica. Rotolo giù ma mi hanno colpito. Alla spalla e alla gamba sinistra mi troveranno i fori di quattordici proiettili.

Cerco di muovere la gamba ferita, non risponde, saprò poi che si è spezzata in quattro punti.

Striscio facendo forza sul braccio destro.

Quando sento il tedesco venire verso di me, mi blocco, mi fingo morto.

Il colpo di grazia non mi uccide. Il proiettile arriva alla mia testa, nella parte sinistra della fronte e scivola via.

In quelle ore il mio cervello gira come su sé stesso. Non pensi a nulla quando sei solo, ferito e immobile in un posto dove sai che non passa mai nessuno.

Provi una solitudine totale, come non ho mai più provato nella vita, e un’impotenza che ti impedisce di ragionare.

Della notte del 7 giugno ricordo solo quattro colpi di cannone passati sopra le Pratarelle. E la convinzione, più forte ora dopo ora, che sarei morto lì e che nessuno mi avrebbe trovato.

Poi la voce di una donna. Prima lontana, molto lontana. Poi sempre più vicina.

“Armandooo ... Nandooooo”.

Cerca mio zio Armando Duvalli e suo figlio Nando, catturati insieme a me.

Cerco di tirar fuori un po’ di voce. Esce un sibilo.

Respiro più profondamente che posso. Il sibilo diventa un po’ più alto e al terzo tentativo si trasforma in un grido di aiuto.

Rosalia Riccetelli, moglie di Duvalli, è vicina a me. Dice che sopra ci sono Armando e Nando, morti, e anche Luigi Cubello e Carboni.

Con una piccola carezza mi rassicura, corre via. Tornano in cinque o sei con una scala a pioli, mi ci mettono sopra, mi portano giù al paese.

Non importano i dolori degli scossoni, la testa che gira, il cielo che si confonde con gli alberi ai bordi del sentiero. Adesso sono salvo davvero.

Il medico mi guarda per pochi secondi, dice che non ho niente di grave, in una settimana sarò in piedi. Per fortuna arrivano i francesi a liberare Vicovaro e il loro comandante, appena mi vede, ordina di portarmi all’ospedale di Tivoli.

Ne uscirò dopo sei mesi.

Quello che è successo alle Pratarelle dopo che sono scappato dalla capanna me lo hanno raccontato subito, forse mentre ero ancora sulla scala a pioli e scendevamo in paese. Ma non ne sono sicuro, i ricordi di quelle ore si confondono e si mischiano.

Della capanna dalla quale sono fuggito attraverso il buco fatto da Romana non c’è più nessuno, questo mi hanno detto.

Sono entrati e hanno mitragliato uccidendoli tutti. Nessun uomo, solo donne e bambini, anche Celeste, la mia fidanzata di diciassette anni. Sul monumento, in paese, ci sono tutti i loro nomi, anche quelli dei bambini.

Mario Ziantoni, tre anni, Giovanni Rotondi, tre anni, Elettra Giardini, quattro anni, Angela Ziantoni, otto anni.

Io per loro, non per me, per loro, li ammazzerei i tedeschi.

Quello non è stato un atto di guerra. Nemmeno di guerra ai partigiani, come volevano far credere. Soltanto crudeltà e vendetta perché stavano scappando, stavano perdendo, non erano più i padroni. Perché, altrimenti, uccidere donne e bambini, così, con le sventagliate di mitra?

Io, con gli anni, ho imparato a controllarmi abbastanza quando ricordo quel giorno. Ma quando dormo i sogni hanno il sopravvento. Gli ultimi sono di tre giorni fa. Mi sono svegliato di notte, a sedere sul letto, nella testa l’urlo che avevo appena sognato. “Scappa, scappa, ci sono i tedeschi, scappa”.

 

Gino Ventura, nato a Vicovaro il 27 gennaio 1924, alla fine del racconto si commuove e si tocca la fronte, a sinistra, dove c’è ancora il segno della pallottola che doveva ucciderlo. Con il dito indice corre lungo il cranio e indica il percorso che ha fatto prima di andarsene lontana.

“Si è mangiata anche un po’ di osso”, dice, “qui è più molle”. E spinge come per far vedere che è molle sì, ma tiene ancora bene.

Gino è uno dei cinque sopravvissuti della strage delle Pratarelle, la località di Vicovaro dove nel 1944 sfollarono in molti per mettersi al riparo dalle truppe di occupazione tedesche. Si salvarono, tra gli altri, Arturo Ziantoni, che aveva quattro anni e venne protetto dai cadaveri, compreso quello di sua
madre, e Angelo Rotondi, cui venne poi amputata la mano ferita.

Un gruppo di militari tedeschi di stanza a Vicovaro, probabilmente di un reparto di guastatori rimasto nelle retrovie per far saltare i ponti, aggredì gli sfollati delle Pratarelle senza nemmeno un apparente pretesto, uccidendo indiscriminatamente anche donne, bambini e anziani. In tutto i morti furono venticinque.

Il fascicolo sull’eccidio, istruito dai carabinieri di Vicovaro, è poi finito nell’Armadio della vergogna. Non è mai stato celebrato un processo.

 

Marcellina, Roma, 10 gennaio 2013

 

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Vicovaro (Roma). Monumento ai Martiri delle Pratarelle.

Vicovaro (Roma). Monumento ai Martiri delle Pratarelle.

 

Vicovaro (Roma). Monumento ai Martiri delle Pratarelle. Particolare

Vicovaro (Roma). Monumento ai Martiri delle Pratarelle. Particolare

 

Vicovaro (Roma). I nomi dei Martiri delle Pratarelle sulla lapide affissa sulla parete della Scuola elementare.

Vicovaro (Roma). I nomi dei Martiri delle Pratarelle sulla lapide affissa sulla parete della Scuola elementare.

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