L'immagine di sfondo di questa pagina, raffigurante piazza delle Ville ad Anticoli Corrado, è un dipinto dell'artista danese Viggo Rhode (1900-1976). L'ha segnalata a ScuolAnticoli il signor Peter Holck. Rielaborazione grafica di Luigi Scialanca.

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La Terra vista da Anticoli Corrado

 

diario del Prof (scolastico e oltre)

 

marzo 2012

 

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sabato 24 marzo

 

Mario Monti: tecnico o cannibale?Elsa Fornero: tecnico o cannibale?

 

“tecnici” e sterminatori

 

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Strage in Norvegia, a Utoya. Strage in Italia, a Firenze. Strage in Francia, a Tolosa.

 

Terroristi? No, perché non ce l’hanno “solo” con i loro “nemici”: odiano l’Umanità tutta.

 

Terrorismo? No. Tentativi di innescare una pazzia di massa. E, da essa, uno sterminio di massa.

 

Domande: Perché in Europa si torna a volere, a tentare, a incitare, ad approvare lo sterminio?

 

Resterà “individuale” (ammesso e non concesso che i Breivik, i Casseri, i Merah non siano l’espressione dei fanatismi già collettivi che da decenni allevano e addestrano individui come loro)?

 

O ancora una volta dobbiamo prepararci ad affrontare e sconfiggere, costi quel che costi, l’odio di massa contro l’Umanità che ancora una volta si accinge a devastare il mondo?

 

Una cosa è certa: fra le stragi di Utoya, di Firenze e di Tolosa e l’iperliberismo che da un quarto di secolo trionfa nel mondo è evidente un nesso analogo a quello che legò l’iperliberismo trionfante degli anni ’20, l’emersione del fascismo in Italia e dei suoi emuli in Germania e altrove, la Grande Depressione iniziata nel 1929 e poi la Seconda guerra mondiale e la Shoah. Un nesso a cui è ora di dare un nome, per così dire “metastorico”, che ci permetta di smascherarlo ogni volta che sotto diverse spoglie e denominazioni torna ad avvelenare le menti e a farle impazzire: disprezzo e odio contro l’Essere umano.

 

Sì, l’odio contro l’Umanità che il naziliberismo ha capillarmente globalizzato dagli anni ’80 a oggi ― il dogma pieno d’odio che l’Umanità e quanto si spende per aver cura di essa e della sua dignità, dei suoi affetti, della sua bellezza e intelligenza, rappresentino un costo insostenibile, da ridurre il più possibile, da ridurre a zero ― il dogma naziliberista delle destre e delle finte sinistre di potere non è un’idea come le altre, da tollerare e perfino rispettare, e nemmeno è “solo” un’ideologia stupida e fanatica da criticare e deprecare: è malattia mentale in atto, follia lucida, razionale, follia da serial killer astuti, abili a sembrar normali, che giorno dopo giorno da trent’anni diffondono disprezzo e odio contro ognuno di Noi insinuando che ognuno di Noi sia tanto più un costo insostenibile quanto meno denaro produce, quanto più spese richiede, quanto più è debole e indifeso e necessita di aiuto. Sì, i “maestri” del naziliberismo, i “tecnici” del naziliberismo, gli “intellettuali organici” del naziliberismo ― di destra o di finta sinistra che dicano di essere ― in verità sono malati di mente gravissimi, serial killer astuti, abili a sembrar normali, che giorno dopo giorno da trent’anni delirano che ognuno di Noi sia il Male.

 

Sono loro, è il loro odio contro di Noi ― è l’odio che da trent’anni proclama che ognuno di Noi è un costo insostenibile, che l’umanità, gli affetti, la dignità, la bellezza, l’intelligenza, la vita stessa di ognuno di Noi siano perdite da ridurre a zero ― è questa efferata menzogna ripetuta ovunque, che l’idiozia dei media tramuta in verità di fede, che l’abbandono e il procurato deterioramento di tutto ciò che è pubblico conficcano nelle menti violentandole giorno dopo giorno nei luoghi che dovrebbero invece testimoniare la nostra cura per Noi stessi ― è questa mostruosa menzogna che tanto più fa impazzire quanto più importanti sono le istituzioni che se ne fanno portatrici ― sono loro, i “maestri”, i “tecnici”, gli “intellettuali organici” del naziliberismo, sono loro che aizzano gli sterminatori e innescano l’odio di massa contro l’Umanità che per la seconda volta in meno di un secolo dobbiamo a tutti i costi affrontare e sconfiggere.

 

Con la cancellazione dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, con la “libertà” di licenziare, e licenziando rovinare e distruggere vite ― con la “libertà” di trattare gli Esseri Umani come bestie ― sta per cadere l’ultima barriera che impedisce al naziliberismo di attaccare i Diritti Umani fondamentali: l’ultima difesa, abbattuta la quale il naziliberismo potrà aggredire i pilastri costituzionali, e prim’ancora mentali, che lo trattengono dal proporsi, contro l’Umanità che odia, lo sterminio.

 

La battaglia è decisiva, per Tutti e per Ognuno, per chi è vecchio, chi è giovane e chi ancora non è nato. E il naziliberismo e i suoi “maestri”, i suoi “tecnici” e i suoi sterminatori non si illudano di vincerla facilmente, quanto meno nel nostro Paese. Poiché l’Italia ― non lo dimentichino i “maestri”, i “tecnici” e gli sterminatori naziliberisti ― è in guerra civile, con qualche pausa, da più di duecento anni: da più di due secoli è un Paese che non si lascia ridurre in schiavitù senza farla pagar cara.

 

Post scripta.

 

A.

 

Per il Partito democratico l’articolo 18 è l’ultima occasione: rompa l’alleanza insensata

coi berluscisti e i tecno-fascisti Monti e Fornero e si separi da quelli che ha nelle sue file,

o si prepari a essere definitivamente rifiutato dagli Italiani e condannato dalla Storia.

 

B.

 

Leggo sul Venerdì di Repubblica del 23 marzo un incredibile sondaggio, secondo cui, alla domanda “Lei politicamente dove collocherebbe Mario Monti?”, ben il 21% degli Elettori di... centrosinistra hanno risposto: “A sinistra (6%) o nel centrosinistra (15%)” rivelandosi così molto più creduloni degli elettori di centrodestra (3%-8%) e del Terzo polo (0%-9%). Per quegli sciocchini ― non so come potrei chiamarli più gentilmente... vogliamo dire per quei begli addormentati? ― mi sembra utile ripercorrere qui brevemente le tappe principali del rapido processo che ci ha condotti a questo punto di (quasi) non ritorno...

 

1. Il governo Berlusconi non è stato fatto cadere perché era impresentabile o perché stava portando l’Italia alla rovina. È vero il contrario: la rovina a cui il governo Berlusconi stava portando l’Italia è stata volontariamente accelerata ― con un’operazione segreta, avventuristica e irresponsabile che ha coinvolto forze istituzionali, politiche, ecclesiastiche ed economiche italiane ed estere ― per far cadere il governo Berlusconi giudicato da quelle forze troppo poco di destra o, per meglio dire, incapace di portare in fondo la politica di estrema destra che il naziliberismo globale gli chiedeva e che esso pur condivideva.

 

2. Gli eventi successivi alla caduta di Berlusconi hanno infatti dimostrato che lo spread (differenza di valore) fra i titoli di Stato italiani e tedeschi può essere “manovrato”, per qualche tempo, attraverso (a) ingenti prestiti concessi dalla Bce (Banca centrale europea) alle banche nostrane e (b) ingenti acquisti di titoli di Stato italiani da parte delle banche medesime. Allo stesso modo, prima che Berlusconi cadesse, lo spread è stato fatto salire. Col rischio tremendo, però ― ed è per questo che la definisco avventuristica e irresponsabile ― che l’operazione sfuggisse di mano agli “stregoni” e avviasse nei veri mercati un’inarrestabile “reazione a catena” psicologica che avrebbe condotto alla catastrofe.

 

3. Se Berlusconi avsse resistito, l’operazione intrapresa (contro l’Italia) per liberarsi di lui sarebbe stata interrotta per evitare che il nostro default (fallimento) coinvolgesse l’Europa intera e gli Stati Uniti. Che a interromperla si riuscisse era un altro paio di maniche (cfr. punto 2) ma gli “operatori” si sentivano abbastanza sicuri del fatto loro poiché sapevano che il Cavaliere ― che dell’Italia e perfino dei suoi elettori se ne infischia ― avrebbe immediatamente ceduto allo shock del crollo dei titoli Mediaset.

 

4. L’operazione (che di qui in poi chiameremo golpe soft) sarebbe fallita, rivelandosi un bluff, anche nel caso che il Partito democratico non le si fosse arreso e avesse imposto le elezioni: non ci sarebbe stato alcun default dell’Italia e lo spread sarebbe risalito così com’è risalito (anche se con un andamento altalenante e insicuro) nei mesi successivi all’insediamento del governo Monti. È un punto fondamentale, questo, poiché il ricatto del default dell’Italia ha contribuito a indurre il Partito democratico a cedere ed è stato determinante nel persuadere la parte meno “avvertita” dell’opinione pubblica di Sinistra (con l’aiuto dei media complici) che al golpe soft non ci fossero alternative. (“Argomento”, quello della “mancanza di alternative”, che non avrebbe alcun valore neanche se fosse vero, poiché un governo “senza alternative” è per definizione un regime dittatoriale; e a un regime dittatoriale c’è sempre un’alternativa, ed essa sì è unica: farlo cadere a qualunque costo).

 

(5. Quanto sopra non vuol dire che l’economia italiana, europea e mondiale stiano bene: procedono verso la catastrofe. E la crisi non si arresterà finché non sarà stato sconfitto il naziliberismo, che l’ha provocata e la intensifica con le sue politiche recessive e aggredendo ovunque i Diritti fondamentali: prim’ancora che per la sua folle bramosia di ricchezza, per puro odio contro l’Umanità).

 

6. Il Partito democratico, tuttavia, ha ceduto al golpe soft non tanto per il bene dell’Italia, come vuol credere e far credere, ma per il “bene” che dal 1922 è “condizionato” a ritenere necessario e sufficiente al bene del Paese: l’unità e la sopravvivenza del partito stesso. Che nelle more del golpe soft erano davvero in pericolo, poichè la destra interna complice ― il partito nel partito, cattofascista e naziliberista, il cui capo, molto poco segreto, risponde al nome di Giorgio Napolitano ― ha effettivamente minacciato la scissione se Bersani si fosse “intestardito” ― com’era suo dovere nei confronti non del partito, che nell’emergenza doveva passare in secondo piano, ma della Democrazia Italiana ― a pretendere il voto. Considerazione, quest’ultima, che ci porta al successivo punto 7.

 

7. Il golpe soft aveva (e ha tuttora) due obiettivi: attuare la politica di estrema destra ― contro i Diritti dei Lavoratori non tanto perché essi esistano ancora, quanto soprattutto per abbattere l’ultima barriera difensiva dei Diritti Umani in quanto tali ― che il governo Berlusconi, più per vanagloriosa strafottenza che per autentica impotenza, non conduceva fino in fondo; impedire che il Partito democratico, sull’onda del crescente discredito del berluscismo, (a) vada alle elezioni con una legge elettorale (il Porcellum) che permetterebbe a Bersani e alla Sinistra del partito di accrescere la propria “delegazione” in Parlamento a spese della veltro-napoletanista, (b) vada al potere con Bersani presidente del Consiglio e la Sinistra del partito fortemente rappresentata nel governo, e soprattutto (c) continui a esistere, mentre quel che il naziliberismo vuole è la definitiva scomparsa della parte (forse tuttora maggioritaria) della Sinistra italiana che si “ostina” a rimanere una vera Sinistra. Che si ostina, cioè, a voler difendere l’Umanità, in Italia e in Europa, contro la criminalità naziliberista finanziaria globale.

 

8. La Sinistra del Partito democratico si è miseramente impaurita dinanzi al bluff e ha avallato il golpe soft perché ― diversamente dalla destra del partito, che ha le “idee” cattofasciste e naziliberiste di cui si è infarcita il cervello per non inabissarsi nel proprio vuoto ― di idee è invece drammaticamente a corto: come dimostra il fatto desolante che individui come il Fassina, in teoria i migliori di cui disponiamo, anziché continuare almeno a restar sospesi su quel vuoto appendendosi a sé stessi ― come il barone di Munchausen, che si calava dalla Luna con una cordicella tagliandola sopra di sé per allungarla sotto ― stiano cominciando anch’essi a elemosinare “idee” nelle sacrestie come dei Fioroni qualsiasi. La facciano finita, una buona volta, e si guardino intorno: di Donne e Uomini davvero capaci di pensare, nel Partito democratico, ce n’è quanti se ne vuole, purché la si smetta di pretendere altezzosamente di guidarli e si abbia finalmente il coraggio e la forza di lasciarsi guidare da loro.

 

9. Cedere al ricatto e accettare di appoggiare (o di subìre) il golpe soft non è stata una buona idea non solo ― com’è ormai ovvio ― per il Paese, ma nemmeno per il ristretto interesse di partito che Bersani deve aver immaginato di veder coincidere con quello del Paese: tutti i sondaggi dicono che il Pd sta di nuovo calando nei sondaggi e, quel ch’è peggio, che l’astensionismo cresce a dismisura e rappresenta ormai la maggioranza degli Italiani. Bel risultato, eh? Ma forse, Pier Luigi, puoi ancora salvarti e salvarci, se tu e i tuoi vi renderete conto (alla svelta) che l’articolo 18 è l’ultima occasione: rompete l’alleanza insensata coi berluscisti e i tecno-fascisti Monti e Fornero e separatevi dalla destra veltro-napoletanista, o preparatevi a essere definitivamente rifiutati dagli Italiani e condannati dalla Storia.

 

C.

 

Leggo che “Ripudiare il debito sarebbe una catastrofe. L’idea di sottrarsi agli impegni presi e fare da soli è disastrosa. Qualcuno nella sinistra (sic, la minuscola è nel testo, n.d.r.) radicale la coltiva. Ma la scelta comporterebbe il ritorno alla lira con conseguente crollo del sistema bancario, della produzione, dei redditi e dei consumi. Una tragedia innanzitutto per i più deboli (Salvatore Biasco, l’Unità, martedì 20 marzo 2012). Il Biasco non si rende conto di due cose molto importanti: 1, il naziliberismo globale provocherà comunque, nel medio-breve periodo, una catastrofe altrettanto globale e forse una guerra: uscirne, per quanto gravemente ci possa esser fatto pagare (ma ripeto che non lo credo probabile, poiché le tirannie finanziarie sanno bene che l’Italia “è troppo grande per lasciarla fallire”), è dunque nostro dovere, accada quel che accada, analogamente a come sarebbe stato nostro dovere, nel 1940, non entrare in guerra a fianco di Hitler; 2, il Biasco dipinge una situazione senza alternative. Ribadiamo dunque: si rende conto, il Biasco, che in politica una situazione senza alternative si chiama regime? Si rende conto, il Biasco, che contro un regime si ha addirittura il diritto, visto che la Repubblica Italiana è tuttora fondata sulla Resistenza, di prendere le armi? Il Biasco è per caso un fautore della guerra civile? Ritengo di no ― e in ogni caso non lo sono io ― e dunque lo prego di “pulirsi ben bene la bocca”, prima di dire che alla sottomissione al naziliberismo (globale, europeo, nostrano) non ci sarebbero alternative.

 

D.

 

Leggo che il Monti, dopo la strage di Tolosa, ha espresso “profonda indignazione e sconcerto” per un episodio “ancora più grave perché dettato dall’antisemitismo che, come la xenofobia e l’intolleranza, è totalmente estraneo ai principi fondanti della nostra convivenza civile e al patrimonio di valori sui quali poggia l’umanità (sic, l’iniziale minuscola è nel testo, n.d.r.) tutta”. Non penso che il Monti sia uno stupido ― non, almeno, per quella parte di stupidità che non è compatibile con l’astuzia. Ritengo dunque che egli si renda perfetto conto, da (ex)esponente di spicco del gruppo Bilderberg fondato da un nazista, che l’azione del governo da lui presieduto minaccia a tal punto il Patrimonio di Valori sui quali poggia l’Umanità, che si può ben ritenere e dire (visto che per il momento si è ancora liberi di pensare ed esprimerci) che massacratori come quello di Tolosa trovino proprio in essa ispirazione, consolazione e incoraggiamento, anche se (probabilmente) non la causa prima della loro malattia mentale.

 

E.

 

L’insensata alleanza del Partito democratico coi berluscisti e i tecnofascisti Monti e Fornero è stata preceduta ― e in qualche modo, ne diamo atto, “profetizzata” ― ad Anticoli Corrado dall’Unione tra una parte del Pd locale e i berluscisti “estremi” ― assai poco “tecnici” ma certo assai di destra ― da cui la parte migliore dell’Arcobaleno si era generosamente e intelligentemente separata. Anticoli, “grazie” a questo (mini) golpe soft, versa in condizioni e prospettive anche peggiori, se possibile, di quelle in cui è stata messa l’Italia tutta. La speranza, per il paese come per il Paese, è la medesima: che la parte migliore della base del Partito democratico ― le Cittadine e i Cittadini anticolani, cioè, che a quell’operazione sono stati indotti a dare il voto ma che mai, in cuor loro e nella loro intelligenza, l’hanno davvero creduta valida ― trovino la forza di sfiduciare, anche pubblicamente, l’attuale dirigenza del partito.

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domenica 18 marzo

 

Don Chisciotte Eco a difesa della Realtà

 

Don Chisciotte Eco a difesa della Realtà

 

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Forse è così: la Realtà, il Tutto, hanno perduto le maiuscole, l’aspetto intimidente dei tempi e luoghi ove l’Umanità è ancora “neonata”, per assumere a loro volta quello di bambini in balia di adulti non sempre amorevoli o, se anche ben disposti, non di rado inetti. Come accadde al pastorello che Don Chisciotte incontrò in un bosco il secondo giorno delle sue avventure, legato a un albero e picchiato a sangue da un feroce padrone per non so quali mancanze presunte o effettive: il “raddrizzator di torti” volle difenderlo, animosamente lo liberò, con tremendo cipiglio ingiunse all’uomo di non azzardarsi mai più ad alzar le mani su di lui e… se ne andò, lasciando il ragazzo alla mercè dell’aguzzino e sé stesso a ignorare per l’eternità ― una tragicomica eternità ― che un mondo migliore non basta immaginarlo e volerlo, e neanche tentar con impegno di costruirlo: bisogna saper farlo. E per saper farlo si deve esserci.

 

Mi è tornato in mente, quel fallimento così comico ma così amaro del Mancego1, leggendo su La Repubblica il testo che Umberto Eco ha scritto per il convegno su “Postmoderno e Neorealismo” organizzato nel novembre scorso a New York da Maurizio Ferraris2: testo pubblicato su Alfabeta2 e, appunto, su La Repubblica. Mi è tornato in mente perché anche Eco parte come Don Chisciotte, lancia in resta, in difesa del realismo (o di quel che lui crede realismo); anche Eco infligge al postmodernismo e al pensiero debole di Gianni Vattimo colpi apparentemente risolutivi; e anche Eco, alla fine (a quella che lui crede la fine) lascia il campo beatamente ignaro che il vero vincitore è l’avversario.

 

E pensare che l’incipit dell’articolo ― come si conviene alla discesa in campo di un cavaliere senza macchia né paura ― per sicumera suona perfino insolente: “Ho letto (...) che sarei coinvolto nel lancio di un Nuovo Realismo, e mi chiedo di che si tratti, o almeno cosa ci sia di nuovo (per quanto mi riguarda) in posizioni che sostengo almeno dagli anni Sessanta e che avevo esposte poi nel saggio Brevi cenni sull’Essere, del 1985”. Cioè: La questione l’ha risolta il sottoscritto mezzo secolo fa, che altro c’è da dire? E infatti: “Nel convocarci oggi qui, ieri a New York, domani a Bonn e poi chissà dove a discutere di queste cose, Maurizio Ferraris ha fissato dei confini alla nostra discussione. Il Nuovo Realismo sarebbe un modo di reagire alla filosofia del postmodernismo. (...) Ma non vedo come possa articolarsi un cosiddetto Nuovo Realismo, che non rischi di rappresentare un ritorno al Vetero”, cioè a quella “teoria corrispondentista della realtà,” sostenuta, tra gli altri, da Tommaso d’Aquino, secondo la quale “il mondo sta fuori di noi indipendentemente dalla conoscenza che ne possiamo avere” e “noi possiamo conoscere il mondo quale è come se la nostra mente fosse uno specchio...”. Cioè: Si può sapere cosa vuole, caro Ferraris? Non pretenderà mica di tornare al Vetero Realismo, ormai screditato da secoli? E se no, perché non vede che un Realismo pienamente comme il faut l’ho messo a punto io da un bel pezzo, e che la battaglia contro il postmodernismo è vinta (da me) da quando sia lei che Vattimo portavate ancora i calzoni corti?

 

Ma Eco non è “solo” un illustre studioso, un acclamato scrittore, un benemerito divulgatore e un docente di gran vaglia; è anche ― o che raddrizzator di torti sarebbe? ― un uomo buono e generoso. Che per Ferraris e per noi (che a petto di un Vattimo probabilmente gli sembriamo per l’appunto bambini indifesi minacciati da un energumeno) dopo la battagliera sparata iniziale si dedica per ben quattro paginone a ripeterci con più che santa pazienza la lezione che già ci impartì per vent’anni fra i Sessanta e l’85:

 

“Quel che (...) emerge (nel cosiddetto postmodernismo filosofico), passando attraverso la decostruzione (...) e le forme del pensiero debole, è un tratto molto riconoscibile (...), e cioè il primato ermeneutico dell’interpretazione, ovvero lo slogan per cui non esistono fatti ma solo interpretazioni. A questa curiosa eresia avevo da gran tempo reagito, a tal segno che a una serie di miei studi degli anni Ottanta avevo dato nel 1990 il titolo I limiti dell’interpretazione, partendo dall’ovvio principio che, perché ci sia interpretazione, ci deve essere qualcosa da interpretare. (...) È vero che quando si cita lo slogan per cui non esistono fatti ma solo interpretazioni, anche il più assatanato tra i postmodernisti è pronto ad asserire che lui o lei mai hanno negato la presenza fisica (...) del tavolo a cui sto parlando3. Il postmodernista dirà semplicemente che questo tavolo diventa oggetto di conoscenza e di discorso solo se lo interpreta come supporto per un’operazione chirurgica, come tavolo da cucina, come cattedra, come oggetto ligneo a quattro gambe, come insieme di atomi, come forma geometrica imposta a una materia informe, persino come tavola galleggiante per salvarmi da un naufragio. Sono sicuro che anche il postmodernista a tempo pieno la pensi così, salvo che quello che stenta ad ammettere è che non può usare questo tavolo come veicolo per viaggiare a pedali fra Torino e Agognate lungo l’autostrada per Milano”.

 

Un colpo durissimo. Par di vederli, il povero postmodernista e quel meschino del debole pensatore, “abbassar la testa” dinanzi a Eco come l’aguzzino del pastorello dinanzi “a quella figura carica d’armi che gli brandiva in faccia la lancia”. Ma il “raddrizzator di torti” non si lascia intenerire: “Noi possiamo certo interpretare un cacciavite come strumento per avvitare le viti; (...) un cacciavite può servire anche per aprire un pacco (visto che è strumento con una punta tagliente, facilmente manovrabile per far forza contro qualcosa di resistente); ma non è consigliabile per frugarsi dentro l’orecchio. (...) C’è (...) qualcosa, sia nella conformazione del mio corpo che in quella del cacciavite, che non mi permette di interpretare quest’ultimo a capriccio”. (...) Se è principio ermeneutico che non ci siano fatti ma solo interpretazioni, questo non esclude che ci possano essere per caso interpretazioni “cattive”. Dire che non c’è figura vincente del poker che non sia costruita da una scelta del giocatore (magari incoraggiata dal caso) non significa dire che ogni figura proposta dal giocatore sia vincente. Basterebbe che al mio tris d’assi l’altro opponesse una scala reale, e la mia scommessa si sarebbe dimostrata fallace. Ci sono, nella nostra partita con l’essere, dei momenti in cui Qualcosa4 risponde con una scala reale al nostro tris d’assi? Tornando al cacciavite (...) si noti che la mia obiezione non escludeva che un cacciavite possa permettermi infinite altre operazioni: per esempio potrei utilmente usarlo per uccidere o sfregiare qualcuno, per forzare una serratura o per fare un buco in più in una fetta di groviera. Quello che è sconsigliabile farne è usarlo per grattarmi l’orecchio. Per non dire (il che sembra ovvio ma non è) che non posso usarlo come bicchiere perché non contiene cavità che possano ospitare del liquido. Il cacciavite risponde di SÌ a molte delle mie interpretazioni ma a molte, o almeno a una, risponde di NO”.

 

“Di lì,” continua Eco, “l’idea di un Realismo Negativo che si potrebbe riassumere, sia parlando di testi che di aspetti del mondo5, nella formula: ogni ipotesi interpretativa è sempre rivedibile (e come voleva Peirce sempre esposta al rischio del fallibilismo) ma, se non si può mai dire definitivamente se una interpretazione sia giusta, si può sempre dire quando è sbagliata. Ci sono interpretazioni che l’oggetto da interpretare non ammette. (…) In altre parole: esiste uno zoccolo duro dell’essere6, tale che alcune cose che diciamo su di esso e per esso non possano e non debbano essere prese per buone. (…) Non sapremo mai definitivamente se una interpretazione è giusta ma sappiamo con certezza quando non tiene”.

 

Cosa non va in questo discorso?

 

Intendiamoci: parlo di Eco come di un Don Chisciotte (similitudine tutt’altro che disonerevole, a ogni modo) ma se mi esiliassero su un’isola deserta imponendomi la compagnia di Umberto Eco o, a scelta, di Gianni Vattimo, opterei senza esitare per il primo e lo accudirei come il più amorevole dei badanti per il resto dei miei giorni. Almeno non mi annoierei: su ogni aspetto dell’isola, dell’oceano, del cielo, di noi, su ogni piccola o gran decisione da prendere ― sulla Realtà e sul Tutto, insomma ― con Eco avremmo da discutere e litigare all’infinito, anziché all’infinito non poter che ripeterci Tanto è uguale come se fossimo morti e dannati a vagare, ombre disincarnate, in un Limbo di totale anaffettività e insensibilità. E però anche con lui la disperazione sarebbe sempre in agguato, poiché fra il nostro dire e noi, come fra noi e il Mondo, si frapporrebbe senza soluzione di continuità un senso di minaccia imperscrutabile, onnipotente, e con esso tutta l’impotenza e il fatalismo che un tal sentimento non può non portare con sé.

 

Non sapremo mai se un’interpretazione è giusta ma sappiamo con certezza quando non tiene… L’unica certezza a noi possibile, secondo Eco, è la certezza negativa: che non ci si può frugare in un orecchio con un cacciavite, che “se cerco di attraversare un muro, batto il naso”, che ogni volta che abbiamo detto “cose che non si possono dire (…) abbiamo (...) «sbattuto la testa»”… Lo zoccolo duro dell’essere scalcia come un mulo infuriato, meglio confinarsi nel (meta)mondo relativamente sicuro delle interpretazioni, dove il peggio che può accaderci (purché badiamo a restar fra di noi, occidentali civili, corretti, ben educati, tutti realisti minimi, negativi, tutti in fondo un po’ deboli come pensatori, tutti incapaci di capire che il fanatico, deciso a sostituire una volta per sempre al Mondo la propria interpretazione di esso, è figlio, o allievo, della nostra impotenza al rapporto con la Realtà) è d’infognarci per una tragicomica eternità con un Vattimo in qualche accademico vicolo cieco di cerimoniose dispute sulla lana caprina. Ché lo zoccolo duro dell’essere è davvero troppo duro, per noi cavalieri che ne “sappiamo” solo dai libri di altri cavalieri come noi, troppo duro per non far paura: “Noi abbiamo (…) la fondamentale esperienza,”, dice Eco, “di un Limite di fronte al quale il nostro linguaggio sfuma nel silenzio: è l’esperienza della Morte”. Codesto solo oggi possiamo dirti, / ciò che non siamo, ciò che non vogliamo...

 

Il realista negativo, o minimo (come il postmodernista e né più né meno di Don Chisciotte) ha a che fare col Mondo reale solo attraverso le interpretazioni altrui e talvolta le proprie, solo attraverso i libri di cavalleria. Certo, su un’isola deserta può sembrar meglio aver come compagno d’avventure e di sventure il realista negativo, o minimo, piuttosto che il pensatore debole: se arrivassero i cannibali e si accingessero a fare arrosto Venerdì, il realista minimo (mentre il postmodernista discetterebbe amabilmente sulla relativa equipollenza degli usi e dei costumi nostri e loro) saprebbe almeno dirci che no, uccidere un umano e cibarsene sono “interpretazioni che l’oggetto da interpretare non ammette”, e come Don Chisciotte partirebbe, lancia in resta, al salvataggio del povero ragazzo da una morte orrenda. Ma riuscirebbe nell’impresa? Anche se sì, solo per fortuna. O meglio: per quel poco o tanto di rapporto inconscio con la Realtà di cui sarebbe ancora capace, malgrado il suo fallimentare realismo minimo.

 

Altrimenti egli fallirebbe, poiché le motivazioni profonde del suo agire, a dispetto delle buone intenzioni coscienti, avrebbero in comune con quelle dei cannibali di Robinson Crusoe, o del feroce padrone in cui s’imbatté il Mancego, una concezione della “realtà” come luogo di Morte e d’orrore (di cacciaviti conficcati nelle orecchie e di nasi sanguinanti) che assai poco avrebbe avrebbe a che vedere con la Realtà del ragazzo in pericolo ma del tutto vivo lì davanti a lui: e perciò anziché salvarlo lo perderebbe, brancolerebbe con le mani come un cieco senza cogliere di lui che un’interpretazione libresca; e con essa gli toccherebbe poi di tentare invano di consolarsi del fallimento ― ammesso e non concesso che un residuo di rapporto con la vera Realtà gli permettesse almeno di rendersene conto, di aver fallito ― mentre dagli stomaci ben rimpinzati dei biechi antropofagi sentirebbe venir sù tanti insopportabili burp.

 

Mi sembra di vederli, il postmodernista e il realista negativo, affratellati dall’avversione per il nostro dire, crollare il capo e paternamente ricordarci, l’uno che non esistono fatti ma solo interpretazioni, l’altro ― differenza davvero minima ― che non esistono fatti, solo interpretazioni, alcune delle quali “cattive” poiché a seguirle non si guadagna che di andare a sbattere contro l’unico fatto che c’è: la Morte.

 

“Ciò che voglio dire,” spiega Eco, “si ispira a una teoria non metafisica ma semiotico-linguistica, quella di Hjelmslev. Noi usiamo segni come espressioni per esprimere un contenuto, e questo contenuto viene ritagliato e organizzato in forme diverse da culture (e lingue) diverse. Su che cosa viene ritagliato? Su una pasta amorfa, amorfa prima che il linguaggio vi abbia operato le sue vivisezioni7, che chiameremo il continuum del contenuto, tutto l’esperibile, il dicibile, il pensabile (...). Chiamiamolo pure essere o Mondo, come ciò che presiede ogni costruzione e donazione di forma operata dal linguaggio. Parrebbe che, prima che una cultura non l’abbia linguisticamente organizzato in forma del contenuto, questo continuum sia tutto e nulla, e sfugga quindi a ogni determinazione. (…) Tuttavia ha sempre imbarazzato studiosi e traduttori il fatto che Hjelmslev chiamasse il continuo, in danese, mening, che è inevitabile tradurre con «senso» (ma non necessariamente nel senso di «significato» bensì nel senso di «direzione», nello stesso senso in cui in una città esistono solo sensi permessi e sensi vietati). Cosa significa che ci sia del senso, prima di ogni articolazione sensata operata dalla conoscenza umana? Hjelmslev lascia (...) capire che per «senso» intende il fatto che espressioni diverse (...) come piove, il pleut, it rains, si riferiscano tutte allo stesso fenomeno. Come a dire che nel magma del continuo ci sono linee di resistenza e possibilità di flusso, come nervature del legno o del marmo che rendano più agevole tagliare in una direzione piuttosto che nell’altra. (…) Se il continuum ha linee di tendenza, per impreviste e misteriose che siano, non si può dire tutto quello che si vuole. Il mondo può non avere un senso, ma ha dei sensi; forse non dei sensi obbligati, ma certo dei sensi vietati. Ci sono cose che non si possono dire”.

 

La lunga citazione era necessaria per certificare che per Eco, come per Hjelmslev, prima e al di là delle interpretazioni, cioè del linguaggio, non si dà e non può darsi esperienza poiché non ve n’è la possibilità: “espressioni diverse (...) come piove, il pleut, it rains, si riferiscono”, sì, “tutte allo stesso fenomeno”, ma il fenomeno in sé, senza le espressioni che lo rendono esperibile, non può essere distinto da alcun altro: non può, cioè, suscitare alcun sentimento in chi non ha parole per suscitarlo in sé.

 

E quando, appena nati, non avendo ancora un linguaggio non eravamo in grado di comprendere le interpretazioni altrui né di avanzarne di nostre? Cosa c’era, prima delle interpretazioni? Esistevano fatti, allora, per noi, o non avendo le interpretazioni, che sole esistono, noi semplicemente non esistevamo?

 

Ci sono cose che non si possono dire. Ci sono momenti in cui il mondo, di fronte alle nostre interpretazioni, ci dice NO. Questo NO è la cosa più vicina che si possa trovare, prima di ogni Filosofia Prima o Teologia, all’idea di Dio o di Legge. Certamente è un Dio che si presenta (se e quando si presenta) come pura Negatività, puro Limite, pura interdizione”. L’avevamo notato: il “Qualcosa che risponde con una scala reale al nostro tris d’assi” va scritto con l’iniziale maiuscola. Poiché l’amorfo, se oltre che amorfo è limite invalicabile e inevitabile Morte, come può non esser Dio onnipotente?

 

Tutto qui? L’ottimo Eco “raddrizzator di torti” (come don Chisciotte della Mancia al bieco padronaccio) al postmodernista pensatore debole non sa opporre altro che un Bada, scellerato, ché al di là delle interpretazioni c’è pur sempre Dio, e sia pure un Dio quanto mai minaccioso e corrucciato? Per poi andarsene tronfio e soddisfatto? Fiducioso, come un fra’ Cristoforo, che il tristo poi ci pensi e si ravveda?

 

Allora meglio Nietzsche, che di Dio non volle mai saperne. La cui ricerca era cioè permeata da una sincerità d’intenti che mai gli avrebbe consentito di uscirne “a tarallucci e vino” rifugiandosi in una “certezza” dell’esistenza della Realtà come “certezza” dell’esistenza di Dio. E che tuttavia non impazzì per questo ― come temono all’unisono, tremebondi, tanto il pensatore debole che il minimo ― ma perché, pur avendo “intuìto qualcosa, o anche molto,” “non tenne il rapporto con la realtà della veglia”8...

 

“Che non vi siano fatti ma solo interpretazioni,” racconta Eco, “viene attribuito a Nietzsche e credo che persino Nietzsche ritenesse che il cavallo che aveva baciato (…) esistesse come fatto prima che lui decidesse di farlo oggetto dei suoi eccessi affettivi. Però ciascuno deve assumersi le proprie responsabilità, e queste responsabilità emergono chiaramente in quel testo che è Su verità e menzogna in senso extramorale. Qui Nietzsche dice che, poiché la natura ha gettato via la chiave, l'’ntelletto gioca su finzioni che chiama verità, o sistema dei concetti, basato sulla legislazione del linguaggio. Noi crediamo di parlare di (e conoscere) alberi, colori, neve e fiori, ma sono metafore che non corrispondono alle essenze originarie. Ogni parola diventa concetto sbiadendo nella sua pallida universalità le differenze tra cose fondamentalmente disuguali: così pensiamo che a fronte della molteplicità delle foglie individuali esista una «foglia» primordiale «sul modello della quale sarebbero tessute, disegnate, circoscritte, colorate, increspate, dipinte ― ma da mani maldestre ― tutte le foglie, in modo tale che nessun esemplare risulterebbe corretto e attendibile in quanto copia fedele della forma originale». L’uccello o l’insetto percepiscono il mondo in un modo diverso dal nostro, e non ha senso dire quale delle percezioni sia la più giusta, perché occorrerebbe quel criterio di «percezione esatta» che non esiste, perché «la natura non conosce invece nessuna forma e nessun concetto, e quindi neppure alcun genere, ma soltanto una x, per noi inattingibile e indefinibile». Dunque un kantismo, ma senza fondazione trascendentale”.

 

“A questo punto,” continua Eco, “per Nietzsche la verità è solo «un mobile esercito di metafore, metonimie, antropomorfismi» elaborati poeticamente, e che poi si sono irrigiditi in sapere, «illusioni di cui si è dimenticata la natura illusoria», monete la cui immagine si è consumata e che vengono prese in considerazione solo come metallo, così che ci abituiamo a mentire secondo convenzione, avendo sminuito le metafore in schemi e concetti. E di lì un ordine piramidale di caste e gradi, leggi e delimitazioni, interamente costruito dal linguaggio, un immenso «colombaio romano», cimitero delle intuizioni9. (…) Nietzsche non sembra chiedersi se e perché e da dove un qualche giudizio fattuale possa intervenire a mettere in crisi il sistema-colombaio. Ovvero, a dir la verità, egli avverte l’esistenza di costrizioni naturali e conosce un modo del cambiamento. Le costrizioni gli appaiono come «forze terribili» che premono contuinuamente su di noi, contrapponendo alle verità «scientifiche» altre verità di natura diversa; ma evidentemente rifiuta di riconoscerle concettualizzandole a loro volta, visto che è stato per sfuggire ad esse che ci siamo costruiti, quale difesa, l’armatura concettuale10. Il cambiamento è possibile, ma non come ristrutturazione, bensì come rivoluzione poetica permanente: «Se ciascuno di noi, per sé, avesse una differente sensazione, se noi stessi potessimo percepire ora come uccelli, ora come vermi, ora come piante, oppure se uno di noi vedesse il medesimo stimolo come rosso e un altro lo vedesse come azzurro, se un terzo udisse addirittura tale stimolo come suono, nessuno potrebbe allora parlare di una tale regolarità della natura». (...) Per Nietzsche l’arte (e con essa il mito) «confonde continuamente le rubriche e gli scomparti dei concetti, presentando nuove trasposizioni, metafore, metonimie; continuamente svela il desiderio di dare al mondo sussistente dell’uomo desto una figura così variopinta, irregolare, priva di conseguenze, incoerente, eccitante ed eternamente nuova, quale è data dal mondo del sogno11».

 

Affascinante la citazione di Nietzsche. Ma Eco, a mio avviso ― e lo dico con dispiacere ― non la utilizza in modo corretto. Da essa, infatti, il “raddrizzator di torti” balza arditamente a parlar di poeti (“Bella coincidenza: queste righe vengono scritte due anni dopo che Rimbaud, nella lettera a Demeny, aveva proclamato che «le Poète se fait voyant par un long, immense et raisonné déréglement de tous le sens»”) e da qui balza a concludere che, se si dà retta a Nietzsche, “l’essere, oltre che (come ha detto una volta Vattimo con efficace piemontesismo) «camolato», malleabile, debole, sarebbe puro flatus vocis. A questo punto esso sarebbe davvero opera dei Poeti, intesi come fantasticatori, mentitori, imitatori del nulla, capaci di porre irresponsabilmente una cervice equina su un corpo umano, e far d’ogni ente una Chimera”.

 

Ma Nietzsche, anche nei brani da Eco citati, non disse così. Non parlò di poeti (né con la maiuscola di cui li onora Rimbaud né con quella con cui li disprezza Eco) bensì di “ciascuno di noi”: immaginò un “mondo dell’uomo desto”, di tutti gli uomini desti, che prendesse “una figura così variopinta, irregolare, priva di conseguenze, incoerente, eccitante ed eternamente nuova, quale è data dal mondo del sogno”. E soprattutto non invitò a realizzare un tale rapporto con la Realtà attraverso un “raisonné dérèglement de tous les sens”, cioè ragionando sulla sensibilità fino a liberarla da ogni regola (così come don Chisciotte, a furia di almanaccare su quel che leggeva, “liberò” il Mondo da tutto ciò che col fantastico Mondo della cavalleria non collimava) ma parlò esplicitamente di intuizioni, sepolte vive nell’immenso “colombaio romano” di delimitazioni artificiali costruito dal linguaggio, e a esse cercò sempre di tornare: a quel rapporto irrazionale con la Realtà, cioè, simile a quello che si ha in sogno, che Nietzsche fu tra i primi a intuire e di cui arrivò persino a varcare la soglia. Ma da cui tragicamente non riemerse ― confermando così, contrariamente a quel che si proponeva, la millenaria idea religiosa delle “forze terribili” perennemente in agguato contro chi tenta di avventurarsi dove il “verbo” non arriva ― perché non riuscì a mantenere distinti “il mondo del sogno” e “il mondo sussistente dell’uomo desto”...

 

“La ribellione di Nietzsche approdò all’affermazione del principio dell’eterno ritorno dell’uguale e in un pensiero che veniva avvertito come sempre più ermetico, mentre l’autore stesso precipitava nella malattia mentale. La prospettiva, che egli aveva fatto balenare, di un diverso approccio alle dimensioni irrazionali della psiche umana finiva per concludersi in una riaffermazione della loro oscurità, dell’impossibilità di rivelarne i segreti e in fondo anche del rischio che comporta ogni tentativo di addentrarvisi”12.

 

“Nietzsche aveva intuito qualcosa, o anche molto, ma come si dice a Roma non ha retto; a un certo punto disse: «Io non sono più io, sono Dioniso», e si mise ad abbracciare il cavallo. Finì in un angolo di manicomio e morì nel 1900, completamente impazzito perché aveva perso l’identità: non c’era più l’Io, quasi a dimostrare che al di là della ragione, se uno si immerge nel dionisiaco, c’è la fine, la pazzia. A me non è successo? Speriamo che me la cavo, ancora per qualche anno! Forse non mi è successo perché invece di fermarmi a pensare alla ragione e all’irrazionale, all’apollineo e al dionisiaco ho voluto farmi innanzitutto una solida preparazione medica e biologica studiando il funzionamento anatomofisiologico del corpo e le relative malattie. Nietzsche non aveva fatto niente del genere, faceva il filosofo. Nonostante la ricerca sull’invisibile, sul pensiero, sulle cose nascoste io ho mantenuto sempre  il rapporto con la realtà concreta della veglia; lui che ha fatto? (...) Mi viene da dire che non ha tenuto il rapporto con la realtà della veglia. Quando afferma: «Io sono Dioniso», è come se avesse fatto un sogno; però non ha distinto il sogno dalla realtà della veglia ed è finito come è finito. Se avesse semplicemente sognato di essere Dioniso al più sarebbe stato paranoico, ma non completamente pazzo. (...) A Nietzsche (...) il pensiero è andato in tilt perché non c’era questo passaggio dal sogno alla veglia: non si era svegliato”13.

 


[1] Miguel de Cervantes, Don Chisciotte della Mancia, traduzione di Vittorio Bodini, Giulio Einaudi editore, Torino, 1967; capitolo secondo Che tratta della prima uscita che il fantastico don Chisciotte fece dalla sua terra.

 

[2] Maurizio Ferraris, ordinario di filosofia teoretica all’università di Torino e autore del Manifesto del nuovo realismo (Laterza) e di Anima e iPad (Guanda), è stato intervistato da Simona Maggiorelli per left del 9 marzo 2012.

 

[3] I postmodernisti “mettono a posto” i realisti vivi come Hegel “sistemava” Kant morto ne (se non vado errato) l’Enciclopedia delle scienze filosofiche. Cito a memoria, scusandomi per la più che certa imprecisione: Avrebbe potuto risparmiarci, invero, un argomento a tal punto triviale come quello che cento talleri sonanti in saccoccia sono ben altra cosa che cento talleri nel mondo delle idee...

 

[4] Non voglio interrompere il dire formidabile del nostro Paladino: voglio solo far notare l’iniziale maiuscola di quel Qualcosa (il corsivo è mio) perché ne riparleremo più avanti…

 

[5] Corsivo mio: come se fra i testi e gli aspetti del mondo non ci fosse alcuna differenza: come se non ci fosse un tempo, per l’Umanità e per ogni Essere umano, in cui gli aspetti del mondo ci sono già e i testi non ci sono ancora.

 

[6] Corsivo dell’Autore.

 

[7] Corsivo mio.

 

[8] Massimo Fagioli, Fantasia di sparizione – Lezioni 2007, a c. di D. Armando, l’Asino d’oro edizioni, Roma, 2009, pp 212 – 213. (Questo brano di Massimo Fagioli è citato per esteso più avanti).

 

[9] Corsivo mio.

 

[10] Corsivo mio.

 

[11] Corsivo mio.

 

[12] David Armando, Antonio Marinelli, Verso una definizione del concetto di inconscio, in Daniela Colamedici, Andrea Masini, Gioia Roccioletti, La medicina della mente – Storia e metodo della psicoterapia di gruppo, l’Asino d’oro edizioni, Roma, 2011, p. 30.

 

[13] Massimo Fagioli, Fantasia di sparizione – Lezioni 2007, cit., pp 212 – 213.

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lunedì 5 marzo

 

L'incipit dell'articolo del professor Shea su "Le Scienze" del marzo 2012.

 

Umani fin dal primo... millennio

 

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Ogni Homo Sapiens è umano fin dalla nascita. Quindi non è da umanizzare, incivilire o educare, ma da sostenere con amore, fantasia e intelligenza nel suo realizzarsi.

 

Chi lo nega? Chi odia l’Umanità per partito preso religioso o ideologico-razionale. O chi, ahilui, dagli odiatori dell’Umanità si è lasciato confondere e ingannare.

 

E l’Homo Sapiens inteso come specie? È stato umano fin dalla nascita in Africa né più né meno di quanto lo è oggi? O lo è diventato, a poco a poco, nei 200.000 anni (circa) da allora trascorsi?

 

Mi pare evidente (adesso che Le Scienze di marzo mi ci ha fatto pensare!) che dalla risposta a questa domanda dipende, almeno in parte, anche la credibilità delle affermazioni iniziali di questo articolo.

 

Se rispondo, infatti, che l’Umanità era in origine primitiva e si è pian piano umanizzata, come posso poi respingere sul serio l’idea che certe popolazioni siano, per così dire, rimaste indietro rispetto ad altre e siano perciò ancora oggi meno umane di altre? E quel ch’è peggio: se credo alla panzana di un fantomatico processo di umanizzazione dal cui progressivo dispiegarsi dipenda il grado di umanità raggiunto dagli Umani in una data epoca e in un dato luogo, come posso respingere l’idea (perfino più devastante) che anche ogni singolo neonato umano cominci a vivere da umanamente primitivo, cioè da meno umano di quanto a poco a poco potrà diventare o non diventare a seconda delle circostanze?

 

Su Le Scienze di marzo, dicevo, John J. Shea, professore di antropologia alla Stony Brook University e research associate al Turkana Basin Institute in Kenia, in un articolo originariamente pubblicato sul numero di marzo-aprile 2011 di American Scientist, risponde alla domanda avanzando l’interessante ipotesi (suffragata con indizi e argomenti di peso) che il livello di Umanità di una popolazione di Sapiens (del passato o attuale) non debba in alcun modo esser fatto coincidere con il suo livello di progresso.

 

È indiscutibile, dice Shea, che Homo sapiens in 200.000 anni sia progredito (e talvolta regredito) in ogni campo in cui si può progredire o regredire. Ma che nel corso dei millenni sia diventato più umano è invece discutibilissimo, perché il sostenerlo equivale ad affermare che l’Umanità che ci distingue dagli altri animali non venga dall’evoluzione ma dall’imposizione: di certi popoli su altri, dell’adulto sul bambino e (Shea non lo dice, ma mi permetto di aggiungerlo io) di un qualche Dio su tutti quanti.

 

Ma come stabilire, allora, se una specie è umana o non lo è? E, cosa di gran lunga meno facile, se Homo Sapiens lo sia più di quanto lo fossero i Neanderthal o gli Australopitechi?

 

Non dobbiamo guardare al livello di progresso, risponde Shea, ma al livello di variabilità del comportamento. Al fatto, cioè, che i comportamenti umani si distinguono da quelli non umani perché sono immensamente (o piuttosto infinitamente) più variabili.

 

LHomo Sapiens fu straordinariamente diverso in questo dagli ominini suoi predecessori sulla Terra, e per questo progredì, nel corso dei millenni, molto più di essi: per la sua immensa (o piuttosto infinita) versatilità comportamentale. Cioè per la sua capacità, fin dalla nascita e in ogni individuo, di immaginare e realizzare sempre nuove, appunto infinite (e, finché mentalmente sano, mai ripetitive) modalità di approccio e di reazione alle infinite contingenze ambientali, sociali e relazionali dell’esistenza.

 

È in questo che non si nota differenza alcuna tra 150.000 anni e 30.000 e 1.000 anni fa, o tra un luogo e l’altro del pianeta, o tra diverse culture: la variabilità comportamentale è sempre massima. Come lo è in ogni neonato, sempre e dovunque. Certo: un newyorkese di oggi è incomparabilmente più progredito, più raffinato, più colto e più civile di un Sapiens africano del 195.000 a. C., o di un aborigeno australiano attuale, o di un neonato di Bombay... ma non può essere più umano.

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L’immagine di sfondo di questa pagina, raffigurante piazza delle Ville ad Anticoli Corrado, è un dipinto dell’artista danese Viggo Rhode (1900-1976).

L’ha segnalata a ScuolAnticoli il signor Peter Holck. Rielaborazione grafica di Luigi Scialanca.

 

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