L'immagine di sfondo di questa pagina, raffigurante piazza delle Ville ad Anticoli Corrado, è un dipinto dell'artista danese Viggo Rhode (1900-1976). L'ha segnalata a ScuolAnticoli il signor Peter Holck. Rielaborazione grafica di Luigi Scialanca.

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settembre 2008

 

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mercoledì 24 settembre 2008

 

Ci servono 7 miliardi e 800 milioni. 2 li useremo per la Scuola, gli altri non ve lo diciamo...

 

Asini Malvagi al potere in Cacàlia

 

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La più piccola repubblica del mondo non è San Marino, come molti credono, ma la Cacàlia. Piccola non tanto perché di modesta estensione, ma perché piccina nei sentimenti e nell’intelligenza, povera di cervello e di cuore, meschina in quasi tutto ciò che vi si fa, vi si dice e vi si pensa. Al punto che un brutto giorno, senza sputare un raglio né sparare un calcio ma vincendo regolari elezioni, in Cacàlia andarono al potere gli Asini. Calzati e vestiti.

 

Asini, sia chiaro, non nel senso di quegli incolpevoli erbivori dell’ordine dei perissodattili che tutti conoscono almeno in effigie, dalla testa grande, le orecchie lunghe e diritte, il mantello grigio più o meno scuro e la coda provvista di un fiocco di peli all’estremità. Asini nel senso di membri dell’ASN, Associazione per la Santificazione della Nazione. Cioè del partito, fondato e presieduto dall’onorevole Fulvio Bertuccioni, che alle elezioni, nell’infausto anno 20.., ebbe i voti della maggioranza dei Cacaliani, dimostrando al mondo che è ora che qualcuno inventi un sistema politico meno freddamente razionale, più umano, più affettivo, più intelligente della democrazia.

 

Non si sa chi ricavò dalla sigla ASN il nomignolo Asini, reso oltremodo spregiativo dal fatto che esso aveva già allora perduto le connotazioni positive un tempo assicurategli dalla mansuetudine e dalla laboriosità di quei mammiferi per conservare solo quella, negativissima, della più stupida e testarda ignoranza che il mondo conosca. Certamente fu un oppositore di Fulvio Bertuccioni e dei suoi seguaci. Un avversario, anzi. O, per meglio dire, un nemico.

 

Perfino in un Paese miserando come la Cacàlia, infatti, gli Asini (nel senso di membri e sostenitori dell’ASN) avevano fieri oppositori, avversari, nemici. Non nell’opposizione ufficiale ― guidata in Cacàlia da asini (veri e propri) asinizzati dall’indifferenza, dalla religione e dall’avidità di denaro e di potere ― ma tra le persone per bene. Che però scarseggiavano, tra i Cacaliani. E gli Asini ne approfittarono. Poiché essi non erano solo (stupidamente e testardamente) ignoranti. Erano anche malvagi (malvagi ― s’intende ― per il solo motivo per cui malvagi si diventa: perché odiati e disprezzati da piccoli) ed essendo malvagi ― cioè pieni d’odio e disprezzo per sé e i propri simili ― altro non avevano in cuore che una violenta e trista bramosia di sopraffare e depredare Uomini, Donne e Bambini fino a ridurli in condizioni così disumane da sembrar davvero spregevoli, e da far parere veritieri e sensati ― di conseguenza ― l’odio e il disprezzo che spregevoli li rendevano nella guasta immaginazione degli Asini.

 

Sopraffare e depredare a vantaggio di chi? Degli Asini medesimi, naturalmente. E poi, se qualcosa avanzava, a vantaggio anche di quelli che al potere li avevano mandati e li sorreggevano nella turpe speranza che gli Asini sopraffacessero e depredassero un pochino anche per loro, oltre che per sé.

 

Tuttavia, mentre sopraffare è sempre e dovunque possibile, depredare lo è solo nei Paesi in cui c’è ancora qualcosa da depredare. E in Cacàlia non ce n’era quasi più, poiché prima degli Asini i Cacaliani si erano fatti governare a lungo dai Maiali Pii. E prima dei Maiali Pii, dai Topi di Fogna.

 

In un solo luogo, in Cacàlia, c’era ancora qualcosa da arraffare: nella Scuola.

 

Bisogna sapere che le fondamenta della Scuola cacaliana erano state gettate in un’epoca ― alla fine del XIX secolo, quando Topi di Fogna, Pii Maiali e Asini Malvagi erano ancora di là da venire ― in cui le migliori menti cacaliane erano state dell’idea (e ne avevano persuaso i governanti) che i gravi problemi della Nazione, prima e più che da qualsiasi altra causa, avessero origine dall’odio e dal disprezzo di una parte dei genitori per i propri figli. Onde risarcire i quali s’era deciso di creare e stipendiare un apposito corpo di Intellettuali, gli Insegnanti, il cui solo compito fosse quello di offrire ai Bambini e ai Ragazzi traditi tutto l’affetto, l’interesse, la fermezza e le amorevoli risposte (su di sé, sugli esseri umani, la vita, il mondo) che le madri e i padri gli avevano negato.

 

Insegnanti remunerati in Cacàlia meno che in ogni altro Paese del mondo (non si sa se per l’invidia suscitata da una così splendida professione o per evitare che a essa si accostassero individui attratti solo dai suoi proventi) ma talmente numerosi ― non perché lo fossero i Bambini, ma perché innumerevoli erano le esigenze che in molti di essi erano state ignorate o disattese da chi li aveva messi al mondo ― che i loro stipendi costituirono per un secolo la principale voce del bilancio della Cacàlia, approvvigionato dai tributi che i Cacaliani per bene non si esimevano dal pagare.

 

Nessuno, in Cacàlia, aveva mai tentato di scassinare la Scuola. Non i Topi di Fogna, che la Scuola avevano anzi rafforzato nel tentativo di servirsene per trasformare in ratti anche i Bambini e i Ragazzi i cui genitori non avevano già provveduto alla bisogna. Non i Maiali Pii (e i loro finti avversari, i Compagnucci della Parrocchietta) che con la Scuola si erano proposti di tramutarli in rassegnati biasciconi di litanie pieni di livore contro chi non si sente così cattivo da dover farsi continuamente sorvegliare da una qualche divinità religiosa o razionale. Gli Asini invece sì, lo fecero: scassinarono la Scuola, la depredarono di tutto, non lasciarono pietra su pietra. Non perché ce l’avessero in modo particolare con essa, o con gli Insegnanti, o con i Bambini o i Ragazzi ― ce l’avevano, in realtà, con chiunque non avesse passato la vita a torturare e rovinare le proprie umane fattezze ― ma perché nelle casse della Scuola era racchiuso, ancora intatto, il monte-stipendi di più d’un milione di Insegnanti e Collaboratori scolastici.

 

Con una parte del denaro della Scuola, gli Asini avevano promesso di incrementare gli stipendi degli Insegnanti sopravvissuti ai licenziamenti di massa. Furono di parola ― cosa che sul momento parve incredibile agli oppositori del regime ― solo perché speravano di fare di quei superstiti dei complici. Ma non vi riuscirono del tutto poiché vi fu, tra quelli, chi non se la sentì di partecipare a una rapina così efferata, all’abbandono dei Bambini e dei Ragazzi alle televisioni e al crimine organizzato, alla rovina del presente e del futuro di milioni di esseri umani: vi fu, dico, chi bruciò nelle piazze quel denaro maledetto, e sùbito dopo offrì i polsi alle manette per aver distrutto proprietà dello Stato. Proprietà dello Stato! Come se lo Stato e le sue proprietà fossero ancora legittimi e degni di rispetto, in Cacàlia, ora che la genìa degli Asini ne aveva fatto, a un tempo, pascolo per le sue mascelle e deposito del suo letame.

 

E il resto del bottino, miliardi e miliardi di talleri cacaliani? Che fine fece? Anziché intascarlo e basta, gli Asini Malvagi, con il denaro dei Bambini e dei Ragazzi, tagliarono le tasse a tutti i cittadini. Non solo perché confidavano di assicurarsi in tal modo l’omertà di chi non li aveva votati, ma perché sapevano ― essendo stupidi, certo, ma anche astuti ― che la maggior parte dei Cacaliani guadagnavano così poco (e pagavano, quindi, tasse relativamente così modeste) che il beneficio sarebbe stato per loro del tutto infimo. Mentre i ricchi e i potenti di cui gli Asini erano soci occulti ne avrebbero ricavato miliardi, e milioni la massa di padronacci e padroncelli sfruttatori che li avevano portati al potere.

 

Sotto gli Asini, i poveri ebbero niente, i benestanti gli spiccioli. Ma ricchi e ricchissimi s’impinguarono fino a scoppiare. Fino a non saper più che farne, del denaro che gli usciva dalle tasche, dalle orecchie, dal buco del culo. Ma non per questo furono sazi e satolli, anzi: ne vollero ancora, e ancora, e ancora. Poiché il denaro, una volta che il ricco ha comprato tutto ciò che gli occorre e non occorre, riempito tutte le pance spietate che il suo stesso vuoto gli scava dentro ed intorno (e umiliato chiunque col denaro si possa umiliare) cambia natura, si fa vivente, diventa padrone del suo padrone, fa del ricco il proprio servo e lo usa per crescere ancora, per farsi smisurato grazie a lui. Ragion per cui, sperando di raddoppiarlo, triplicarlo, moltiplicarlo, i ricchi e ricchissimi fra i Cacaliani investirono le montagne di denaro che gravavano sui loro gropponi in titoli d’ogni sorta, in buoni di questo o quel Tesoro, in obbligazioni a Caio e Tizio, in pezzi di carta che ormai, comprato tutto il comprabile, non erano nemmeno più di carta perché non erano oggetti materiali, ma bites di memoria negli hard disk dei computer delle banche.

 

Fu così che il denaro rubato alla Scuola ― che un tempo era stato il generoso e affabile soccorritore dei Bambini e dei Ragazzi ― in pochi anni fece pullulare ovunque, germinati come scarafaggi dagli anfratti delle Borse e di migliaia di uffici d’intermediazione, una sordida genìa di speculatori senz’arte né parte usi a passar le giornate giocandosi sui mercati finanziari il frutto del lavoro altrui; e per loro tramite, sempre sotto forma di bites di memoria, volò e frullò per tutto il pianeta uscendo e rientrando nei computer delle banche centinaia e migliaia di volte, apparendo e scomparendo sotto nomi sempre diversi e più fantasiosi, svestito e rivestito in confezioni virtuali sempre più sofisticate, misteriose, impenetrabili ― e tutto ciò era senza dubbio inquietante ― ma partendo e tornando, a quel che sembrava, ogni volta raddoppiato, triplicato, moltiplicato, sempre più forte, più potente, più padrone ― e tutto ciò era senza dubbio rassicurante. E i banchieri, allora, di nuovo forzati ad accrescerlo ancora, potevano forse lasciarlo languire nei caveau, lentamente mangiucchiato dall’inflazione come il malloppetto d’una vecchia strozzina chiuso in una calza spaiata dentro un cassetto tarlato? Cosa potevano farne, i banchieri ― di quel denaro frutto del lavoro umano, umanamente donato ai Bambini e ai Ragazzi e poi invece rubato, truccato, venduto, violentato come un figlio di nessuno dagli Asini Malvagi, dai loro compari, dai loro servi ― cosa potevan fare di quel denaro loro padrone sempre più possente, più ingordo, più mostruoso, se non prestarlo? Affinché un giorno tornasse a montarli, naturalmente, reso ancor più pesante sui loro gropponi dagli interessi da usurai con cui i debitori lo avrebbero remunerato?

 

Ma prestarlo a chi? I ricchissimi, resi ancor più ricchi dal denaro rubato alla Scuola, certo non chiedevano prestiti. Né li chiedevano i ricchi, i padronacci e padroncelli d’ogni risma a cui gli Asini Malvagi permettevano di approvvigionarsi di denaro, senza intaccare il capitale, intensificando lo sfruttamento dei lavoratori e rendendo sempre più scadenti ed effimeri i prodotti che rifilavano ai clienti. Era proprio questa gentaglia, anzi, che direttamente o indirettamente prestava denaro a banche e speculatori affinché essi li rendessero ancora più ricchi. Solo chi un tempo era stato benestante aveva bisogno di prestiti, perché la distruzione della Scuola l’aveva impoverito costringendolo ad arricchir banditi anche per l’istruzione dei figli (se ai figli teneva) dopo che la cessione di ogni altro servizio pubblico a grassatori privati già lo aveva obbligato a svenarsi per tutto ciò che, necessario come l’aria, non dovrebbe generar profitti che nell’immaginazione malata dei profittatori: per un tetto, per l’acqua, per il calore, per la luce, per comunicare coi propri simili, per esser curato per le malattie causate dallo sfruttamento, dall’inquinamento, dalle sofisticazioni alimentari, dallo stress, per esser portato da casa a farsi sfruttare e da farsi sfruttare a casa, per esser difeso contro poveracci come lui divenuti ladri per essere impazziti per l’orrore di ciò che anche lui temeva di non riuscire a sopportare a lungo senza impazzire come loro; e per le mille altre spese causate da tutti gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l'uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana: ostacoli alla cui eliminazione la Cacàlia governata dagli Asini dedicava la centesima parte delle ricchezze che dilapidava per mantenere i privilegi di qualche milione di piccoli e grandi farabutti in doppio petto e non... Dover pagare anche l’istruzione dei figli, dopo che già si svenava per tutto il resto, per la maggior parte dei Cacaliani significò non farcela più, esser costretti a indebitarsi. E fu così che il denaro che gli era stato rubato scassinando la Scuola dei loro figli tornò a loro sotto forma di prestiti: furono i prestiti agli impoveriti, nella Cacàlia violentata e depredata dagli Asini Malvagi, l’ultima mostruosa incarnazione del denaro, rapinato alla Scuola, che non sapeva più a che santo votarsi per moltiplicarsi ancora.

 

Ma prestare migliaia di miliardi ai poveri è rischioso. Soprattutto se intanto ― sempre in cerca di sfoghi per la catastrofica valanga di denaro creata dalla detassazione e dalle privatizzazioni, cioè (ribadiamolo) dalla svendita a manigoldi e schiavisti dei servizi pubblici e delle infrastrutture una volta patrimonio della collettività, luoghi del lavoro, del rapporto sociale, della realizzazione reciproca degli esseri umani ― si impegnano altre migliaia di miliardi in speculazioni naziste sui prezzi delle materie prime, dell’energia e dei beni di prima necessità che quegli stessi poveri non possono fare a meno di acquistare per sopravvivere. E tuttavia fu proprio ciò che i banditi che imperversavano sulla Cacàlia fecero: con una mano prestarono denaro a Uomini e Donne che avevano dissanguato, e con l’altra (ammesso che le si possa ancora chiamar mani, quando son ridotte ad artigli) tolsero a quegli Uomini e Donne ogni sia pur minima possibilità di metter da parte qualche tallero per restituire i prestiti.

 

Tanta stupidità può sembrare incredibile. Ma gli stupidi non si riconoscevano come tali. Anzi: si credevano furbi. E da furbi pensarono, i banditi e i loro banchieri e finanzieri e maneggioni assortiti, di poter liberarsi dal rischio che gli sfruttati non restituissero i prestiti accollandolo fraudolentemente ad altri banditi, ad altri banchieri, ad altri ricchi e ricchissimi: a gentaglia come loro, insomma, ma nei confronti della quale non si sentivano certo più solidali che verso gli altri o, se è per questo, verso i loro stessi figli. Ragion per cui nascosero i titoli di credito, carichi di rischio, dei prestiti fatti a quelli che avevano reso poveri, dentro pacchetti di titoli apparentemente più sicuri ― e invece altrettanto pericolosi, perché costruiti su scommesse sui futuri esiti di attività economiche che essi stessi, volenti o nolenti, stavano minando ― e così camuffati cominciarono a rifilarseli a vicenda, in un’oscena gara d’astuzia fra mascalzoni resa al contempo oscenamente comica dalla sua somiglianza con una danza infernale di miserabili dannati che si lanciano a vicenda i carboni ardenti che li torturano, ma che non possono lasciar cadere.

 

Le leggi un tempo in vigore in Cacàlia ― distillate nelle migliori menti cacaliane da secolari esperienze di catastrofi e massacri, ma strappate ai governi solo dalle lotte di generazioni di sfruttati ― avrebbero impedito a tutti quei criminali incravattati di truffarsi a vicenda, o quanto meno avrebbero limitato la portata delle loro malversazioni. Ma gli Asini, per compiacere i ricchi e i ricchissimi che li sostenevano (e contando sull’ignoranza o la stupidità dei non ricchi che li votavano contro i propri interessi) avevano promulgato leggi insensate che abolivano le leggi sagge e liberavano i criminali da ogni controllo, autorizzandoli e spingendoli così a impiegare ogni loro umana creatività (resa asinina dall’odio e dal disprezzo per sé stessi e per gli altri) nell’escogitare sempre nuovi metodi e sempre più raffinati per ficcarsi l’uno nelle tasche dell’altro quei prestiti inesigibili, perduti per sempre, in cambio di... altri prestiti altrettanto inesigibili, altrettanto e per sempre perduti, ma truccati meglio!

 

Così il denaro della Scuola, e con esso l’intero patrimonio collettivo, le migliaia di miliardi rubati nel corso del tempo alla Cacàlia, tornarono ai cittadini cacaliani sotto forma di denaro vero, che si può spendere giorno per giorno, e i colossi di denaro assisi sui gropponi dei banditi si tramutarono invece in montagne di bites di memoria che non erano più nemmeno bites di memoria, che non erano più neanche virtuali, che erano niente, puro nulla, vuoto assoluto ― oh, quanto simile al vuoto che quegli stessi gropponi avevano dentro ― poiché i contanti su cui quei titoli accampavano pretese (pretese che i banditi, come tutti i gangster, scambiavano per diritti) non sarebbero mai più riapparsi nei file dei loro computer, si erano dispersi in mille rivoli per le città e i paesi della Cacàlia, erano passati dalle tasche di chi li aveva avuti in prestito a quelle di altri Uomini, di altre Donne, di altri Bambini, e poi di altri, e di altri ancora: spesi per vivere, insomma ― poiché si deve pur vivere ― nel mondo reale in cui gli Uomini, le Donne e i Bambini pur sempre vivevano, nella Cacàlia vera che pur sempre esisteva, anche se resa plumbea e desolata dall’immane nuvolaglia dell’immaginario mondo-sopra-il-mondo di cui gli Asini, i loro padroni e i loro servi si credevano i privilegiati abitanti pur mentre si truffavano e riducevano a bestie a vicenda.

 

Allora, quando quel mostruoso Castello di prepotenze e di truffe crollò sulla Cacàlia rivelandosi il verminaio che era, chi più soffrì dovette anche sopportare l’accusa, da parte degli Asini e dei loro pennivendoli, di non aver potuto restuituire i prestiti per averli sperperati in ogni sorta di paccottiglia consumistica, anziché investirli in attività produttive: le vittime si sentirono dare degli spendaccioni dai carnefici, cioè dagli stessi affamatori che gli avevano venduto beni e servizi di prima necessità a prezzi di poco inferiori (e talvolta superiori) a quelli dell’oro! La canea durò poco, poiché ben presto ci fu più nessuno, in Cacàlia, che avesse il tempo per far altro che cercar qualcosa da mettere sotto i denti. E tuttavia essa non era stata del tutto bugiarda: i poveri e gli impoveriti della Cacàlia avevano davvero consumato montagne di talleri ― oltre che per procurarsi il necessario, il piacevole, il bello ― per acquistare montagne di cianfrusaglie di cui non avevano alcun bisogno e nemmeno il desiderio. Ma l’avevano fatto per sfogare la rabbia che gli era cresciuta in corpo per il bestiale sfruttamento che subivano dai cosiddetti imprenditori e per le bugie e fatuità che gli venivano propinate dai cosiddetti intellettuali ogni volta che si azzardavano ad aprire i cuori e le menti alla ricerca di verità umane; l’avevano fatto perché non c’era più una Scuola che gli insegnasse che un essere umano ridotto a mero consumatore non si distingue da una bestia, ma solo agenzie scolastiche private (per la messa a profitto del desiderio di conoscenza) il cui compito era precisamente quello di deluderlo, il desiderio di conoscenza, per incrementare anch’esse la rabbia e la conseguente compulsione all’acquisto: la verità, cioè, è che Uomini e Donne e Bambini erano stati indotti e quasi costretti a indebitarsi, poiché ogni mezzo era stato impiegato per convincerli di poter guarire solo accumulando oggetti dotati di valore economico dall’infelicità di vivere in un Paese, la Cacàlia, ove il valore di ogni nato da Donna era negato fin dal primo istante dalla pretesa che fossero i sacramenti e la coercizione, anziché la sua stessa natura, a renderlo umano fra gli altri animali.

 

E venne il giorno ― l’indimenticabile giorno d’orrore ― in cui fu chiara ed evidente a tutti, in Cacàlia, la tremenda verità che il denaro rubato alla Scuola non c’era più, era sparito, si era dissolto irrimediabilmente e per sempre. Non era, infatti, nelle casse dello Stato, poiché gli Asini l’avevano stupidamente e malvagiamente elargito, riducendo le tasse, ai ricchi e ricchissimi profittatori che li sostenevano; non era nelle grinfie di quei profittatori, poiché essi l’avevano affidato alle banche perché li rendessero ancora più ricchi; non era nelle banche, poiché i banchieri per moltiplicarlo l’avevano prestato a chi non poteva restituirlo e poi, accortisi che non sarebbe tornato indietro, avevano nascosto la sua scomparsa dentro prodotti finanziari apparentemente sani che si erano venduti l’un l’altro rovinandosi a vicenda; non era nelle misere tasche dei poveri e degli impoveriti cacàliani a cui era stato prestato, poiché essi l’avevano speso per vivere, e per illudersi consumando beni d’avere ancora un qualche valore in una Società che non gliene riconosceva alcuno... Ma dov’era, allora? Dov’era finito il denaro rubato alla Scuola? Poteva non esser più in alcun luogo una ricchezza che era pur esistita ed era stata tangibile?

 

Poteva sì, certo che poteva. Il denaro non ha alcun valore di per sé, ma solo come rappresentazione di realizzazioni umane, e dunque è naturale e ovvio che la distruzione di quelle realizzazioni lo privi di ogni valore, lo faccia sparire, lo renda nulla, e che del denaro non rimanga allora che l’anima, cioè niente, né più né meno come non resta che l’anima, cioè niente, dei sentimenti e dei pensieri di chi muore. Dopo di che ci si può ancora illudere, come no!, e i Cacaliani lo fecero: con i pezzi di carta e i bites di memoria seguitarono per qualche tempo a trastullarsi così come alcuni continuano a parlare con le anime dei defunti. Ma alla fine dovettero accettare la tragica realtà: la Scuola che gli Asini Malvagi di Fulvio Bertuccioni avevano distrutto non esisteva più ― anche se per fortuna o sfortuna ne sopravviveva nelle menti il ricordo ― e dai pezzi di carta e dai bites di memoria per i quali era stata svenduta non si sprigionava più né tanto meno si moltiplicava alcuna ricchezza, ma solo il fetore della decomposizione. L’immenso patrimonio di più generazioni d’Uomini, di Donne e di Bambini della Cacàlia era stato depredato solo per elargirlo a una manica di grandi e piccoli farabutti che, per averlo, agli Asini avevano dato il potere e leccato il culo per anni; e che poi, avutolo, altro non avevano saputo farne che giocarselo e perderlo alla roulette fannullona e criminale delle speculazioni finanziarie.

 

Quel giorno, quando si sparse la voce che la ricchezza della Cacàlia non c’era più, gli Uomini e le Donne e i Bambini ai quali era stata rubata caddero in preda al terrore, piansero, si disperarono. Ma gli Asini e i loro compari, i banchieri, gli speculatori ― i padroni, insomma, delle grandi istituzioni politiche e finanziarie della Cacàlia: un termine pomposo, istituzioni, ma atto a camuffare come meglio non si potrebbe i vascelli dei moderni pirati da bastimenti benevoli, protettivi, perfino ricreativi ― avrebbero ben potuto provare sollievo nel raddrizzarsi, nel tornare alla stazione eretta, nel sentirsi di nuovo umani per essersi finalmente dissolto, sui loro gropponi, il peso insopportabile del denaro rubato alla Scuola e imperiosamente deciso a moltiplicarsi. E invece non ci fu sollievo, per quella gentaglia: per alcuni solo panico, solo un insensato starnazzare, e poi ― abbattuti l’uno dopo l’altro dal susseguirsi dei tracolli ― un correre di qua e di là come galline atterrite prima di cadere tramortiti; mentre altri, i peggiori, nella catastrofe divennero ancora più folli e malvagi, e senza requie, senza più dormire neanche le tre ore per notte che la follia al servizio del denaro gli concedeva prima, si diedero a lambiccarsi il cervello per trovare il modo di salvare sé stessi rendendo ancor più tremenda la rovina di tutti gli altri.

 

Per la Cacàlia fu il principio della fine. Si smise di prestar denaro, poiché nessuno più s’illudeva che i prestiti sarebbero stati restituiti. Si smise di spender soldi, poiché la maggior parte dei Cacàliani ne aveva a mala pena per sopravvivere e non poteva più chiederne in prestito. Si smise di produrre, poiché la maggior parte delle merci restava invenduta. Si smise di sfruttare i lavoratori, non perché gli sfruttatori avessero ritrovato l’umanità ma perché sfruttare per produrre merci che non si vendevano non era più conveniente. Si smisero e smantellarono le aziende, poiché nemmeno i licenziamenti di massa riuscivano a risollevarle se non vendevano, e denaro in prestito per tenerle in vita non l’ottenevano più neanche padronacci e padroncelli per la semplice ragione che di denaro da prestare non ce n’era. Si smise di lavorare, poiché gli sfruttatori del lavoro erano falliti o scappati ma i lavoratori che tentavano di rilevare le imprese abbandonate non trovavano clienti, ai quali vendere l’invenduto che marciva nei magazzini, né soldi per acquistare le materie prime e l’energia con cui produrre dell’altro invenduto. Si smise, a poco a poco, perfino di riscaldare, di illuminare, di vestirsi, di abitare, di mangiare, di respirare...

 

O meglio: si sarebbe smesso, se gli Asini di Fulvio Bertuccioni, che imperterriti governavano la Cacàlia ragliando e scalciando come se non fossero umani, astutamente non avessero stampato denaro finto con cui rimpiazzare il denaro vero che essi stessi avevano gettato al vento come se fosse finto. Denaro finto da prestare, denaro finto con cui pagare salari e stipendi, denaro finto per comprare le merci che altrimenti sarebbero rimaste invendute: denaro finto che per qualche tempo fermò la Cacàlia sull’orlo del baratro come se fosse vero, poiché i Cacaliani non poterono non crederlo vero, o avrebbero dovuto rifiutarlo e morire. E al contempo, insieme al finto denaro che per finta avrebbe tenuto in vita i corpi finché non avessero scoperto d’esser morti, astutamente gli Asini e i loro compari attraverso i media spacciarono ai Cacaliani insinuazioni e menzogne con cui le menti più fragili potessero illudersi di resuscitare dal terrore e dalla disperazione riempiendosi di rabbia, anziché contro i responsabili della catastrofe ― cioè gli Asini stessi ― contro gli Immigrati, i Lavoratori statali, i Bambini, i Ragazzi: tutti accusati d’ogni sorta di nefandezze, segnati a dito come i veri colpevoli della rovina del Paese, sacrificati come capri espiatori a una vendetta collettiva che gli Asini non solo non temevano, ora che potevano sperare di scatenarla contro altri, ma anzi auspicavano e fomentavano. Astutamente? Stupidamente? Astuto o stupido stampar denaro finto per prolungare l’agonia del Paese? Astuto o stupido mettere i Cacaliani gli uni contro gli altri per conservare il potere a costo di scatenare la guerra civile che di lì a poco l’avrebbe distrutto una volta per sempre? In realtà, le azioni degli Asini erano sempre state astute e stupide insieme. Astute come gli animali non umani che gli Asini credevano di essere, stupide come può esserlo solo l’animale umano quando non conosce e addirittura non sa più neanche immaginare la propria umanità.

 

Non solo: convinti di essere più astuti dei loro soci e compari, dei loro padroni, dei loro servi e di tutti i grandi e piccoli manutengoli e parassiti del regime, che nel tentativo di imbrogliarsi l’un l’altro si erano reciprocamente rovinati, gli Asini finsero di abbandonare lo sfrenato liberismo in nome del quale avevano distrutto la Scuola e l’intero patrimonio collettivo della Cacàlia: dissero che era stato un gravissimo errore, anzi: una deliberata, micidiale aggressione ― commessi e perpetrati non da loro, ci mancherebbe, ma da un’onnipotente e segreta consorteria internazionale le cui quinte colonne in Cacàlia erano appunto gli Immigrati, gli Statali, i Bulli, i Graffitari, le Prostitute, i Comunisti e tutti gli avversari degli Asini ― e si convertirono a un ancor più sfrenato statalismo. Il cui vero scopo, naturalmente, non era quello, proclamato, di salvare l’Economia per il Bene del Popolo, ma (più coerentemente con la stupidità e la violenza degli Asini) quello di far incetta d’ogni azienda cacaliana ancora recuperabile pagandola (con denaro finto) un tozzo di pane. E per sembrar più sinceri, rammentandosi che per meglio gabbare beghine e bigotti il loro partito si era chiamato ASN, Associazione per la Santificazione della Nazione, gli Asini presero dall’oggi al domani a mostrarsi religiosissimi e virtuosissimi (mentre erano stati fino ad allora disonesti e puttanieri quant’altri mai) e a prosternarsi davanti a tutti i preti della Cacàlia supplicandoli di aiutarli a edificare una Suprema Teocrazia mistico-asininina che per i secoli dei secoli (sul modello di certe teocrazie asiatiche, ove la paura del potere religioso che si ramifica e s’annida ovunque e la simulazione collettiva che la paura suscita rendono la Società tanto più apparentemente virtuosa quanto più la sua reale violenza è autorizzata a scaricarsi in segreto sulle Donne e sui Bambini) avrebbe governato l’economia, la Società, lo Stato, la politica, le aziende, le famiglie e ogni singola mente di sventurato Cacaliano nell’interesse... di chi? Dei preti fatti Asini e degli Asini fatti preti, è ovvio. Ma di Asini ritti sugli altari come statue, divinizzati, inanellati, calzati e vestiti di paramenti sacri, scarrozzati su troni dorati ovunque, perfino dalla camera da letto al gabinetto: irriconoscibili, insomma, benché pur sempre Asini, come in ogni epoca e luogo lo è stato ogni omuncolo che sia riuscito a farsi creder sacro.

 

Solo che non andò così.

 

All’inizio dell’ultimo inverno, quando con un miliardo di talleri non si comprò più neanche la carta per stamparli, il finto denaro fu bruciato in un istante nei camini perché almeno lasciasse nelle menti e nei cuori un’ultima, fugace sensazione di calore. La sua definitiva scomparsa troncò tutti i rapporti fondati solo sull’interesse economico, mentre gli altri ― quelli che solo gli umani vicendevolmente immaginano e fanno ― li soffocò a poco a poco il terrore delle razzie, delle stragi, dei predoni che uccidevano per una crosta di formaggio e di quelli che non andavano più in cerca nemmeno di sfamarsi, perché a tenerli in vita bastava la sete di sangue alimentata dall’odio. Da allora non si son viste che porte e finestre sprangate, in Cacàlia, e nelle case, buie di giorno come di notte, agli Uomini e alle Donne e ai Bambini che gli Asini non son riusciti a rendere belve non rimane che sperare, mentre per le strade gli altri si ammazzano per niente, che il resto del mondo ancora civile, inorridito, intervenga a fermare il massacro.

 

 

Poiché chi ruba alla Scuola è condannato alla catastrofe. Non potrà che legarsi una pietra al collo e annegarsi, presto o tardi, chi ha nella mente e nel cuore l’orribile consapevolezza d’aver sacrificato i propri figli. Quale che sia il dio d’annullamento, religioso o ideologico o economico, al quale li ha sacrificati.

 

 

(Anticoli Corrado, 24 settembre - 19 ottobre 2008)

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L’immagine di sfondo di questa pagina, raffigurante piazza delle Ville ad Anticoli Corrado, è un dipinto dell’artista danese Viggo Rhode (1900-1976).

L’ha segnalata a ScuolAnticoli il signor Peter Holck. Rielaborazione grafica di Luigi Scialanca.

 

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