L'immagine di sfondo di questa pagina, raffigurante piazza delle Ville ad Anticoli Corrado, è un dipinto dell'artista danese Viggo Rhode (1900-1976). L'ha segnalata a ScuolAnticoli il signor Peter Holck. Rielaborazione grafica di Luigi Scialanca.

ScuolAnticoli

Libera Scuola di Umanità diretta da Luigi Scialanca

 

La Terra vista da Anticoli Corrado

 

diario del Prof (scolastico e oltre)

 

luglio 2010

 

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giovedì 22 luglio

 

Il D'Alema contro il Vendola, ovvero: Diavolissimo contro Acquasantissima

Il D'Alema contro il Vendola, ovvero: Diavolissimo contro Acquasantissima

 

DAlema contro Vendola, ovvero: Diavolissimo contro Acquasantissima
 

Il DAlema, racconta La Repubblica del 22 luglio, ha confermato tutti i suoi dubbi sul Vendola: La narrazione non basta a risolvere i problemi ha detto. E la politica non è filosofia o poesia. Se fosse così avremmo peraltro poeti migliori che battono le piazze.

 

Non è grandioso? Di tutte le obiezioni possibili, il cosiddetto leader Maximo Baffino confermandosi come il migliore tra i pur grandi specialisti del Pidì nella tecnica di presentare alle Italiane e agli Italiani di Sinistra, come uniche scelte possibili, la padella e la brace è riuscito a rivolgere al Vendola la più goebbelsiana (o, a voler essere generosi, scelbiana) che si possa immaginare: dargli del poeta, come se poeta fosse un insulto; dargli del narratore e del filosofo, cioè del chiacchierone pari pari al Berlusconi e ai berluscisti, esaltatori del fare” ― come se la politica non avesse bisogno di immaginazione e di pensiero, ma solo di banche; e per soprammercato, intelligentemente non pago di aver insultato narratori, poeti e filosofi senza arrivare a torcere al Vendola un solo capello, rincarare l’ingiuria chiarendo che considera gli intellettuali italiani, se possibile, ancora più stupidi e inutili degli altri.

 

A un genio così, che in un colpo solo riesce a presentare il Pidì come cinico, senza cuore e invidioso e il Vendola come ricco di sentimento, nobile e magnanimo, il Pidì come incapace di guardare al di là del giorno per giorno amministrativo e affaristico e il Vendola come colui che sa volare alto fino a commuovere gli ascoltatori, Nichi dovrebbe immediatamente affidare la campagna elettorale. E noi, invece, restare coraggiosamente in attesa di una Donna o di un Uomo, a Sinistra, che finalmente capisca e dica forte che quel che non va col Vendola non è che sia un poeta (avercelo, un grande poeta politico che nel Pidì e in tutta la Sinistra faccia piazza pulita sia dei sentimental-fasulli alla Veltroni sia dei furbacchion-fin troppo realistici alla D’Alema) ma il fatto che ciò che il Vendola spaccia per poesia son solo giaculatorie pretesche riverniciate di sinistrese; non che sia un filosofo (avercelo, un grande filosofo politico che guidi il Pidì e tutta la Sinistra a immagini e idee davvero nuove) ma il fatto che ciò che il Vendola spaccia per filosofia è un’insalata russa di discorsetti così confusi eccettuato il chiarissimo comandamento, nefasto già cent’anni fa, che Gesù è Dio e Marx è il suo profeta che senza alcuna fatica vi si può trovar tutto e il contrario di tutto e far contento tanto un Calderoli quanto un Bertinotti, purché di non troppe pretese, come se fossero una persona sola.

 

Restiamo coraggiosamente in attesa, sì, ma poiché di leader capaci di tanto non se ne vede neanche l’ombra, per il momento continuiamo ancor più coraggiosamente a esser leader a noi stessi soli soletti: sperando di scamparla dall’infatuarci per il Vendola così come l’abbiamo scampata dal farci sedurre dal Berlusconi: non perché incapaci di innamorarci, come ci vorrebbe il lucido D’Alema, ma perché ci piacerebbe che l’amore, quando e se mai tornerà di nuovo dalle nostre parti, non ci trovi già impegnati con la prima squinzia da avanspettacolo che si è impiastricciata il viso di rosso e ci ha mostrato le cosce per far colpo sui nostri ricordi più amari.

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mercoledì 21 luglio

 

Il frontespizio del Dizionario dei Comuni della Provincia di Roma, di Tito Berti (1882)

 

L’invidioso d’Anticoli

 

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Nel 1882 Tito Berti visitò e descrisse quattro paesi della Valle dell’Aniene: Affile (che della Valle non è, ma ha con essa forti legami), Agosta, Arsoli e Anticoli Corrado. Mise in evidenza pregi e difetti dei primi due con serena imparzialità, quasi s’innamorò di Arsoli, la piccola Parigi, ma quando giunse ad Anticoli vide o piuttostò sentì qualcosa che lo fece impazzire, e odio e invidia s’impadronirono di lui.

 

Lo si intuisce, anche senza averlo conosciuto né accompagnato qui centovent’anni fa, dal fatto che nella sua descrizione del paese gli aspetti negativi reali, che chiunque avrebbe potuto constatare, si riducono, in pratica, quasi solo ai “luridi viottoli” del paese vecchio che “stillano umido e malanni”, e da cui “riceve sturbo e disgusto la vista e l’olfatto” (ma anche in questo caso il tono violento dell’enunciato, al limite dell’invettiva, denuncia l’osservatore come più soddisfatto che deluso dalle manchevolezze che riscontra). Il resto son solo insinuazioni, allusioni, sottintesi maligni: paese che si “nasconde, pauroso”, per arrivare al quale “si può rischiare la vita” ― come se Anticoli fosse l’unico comune italiano di origine medioevale che aveva cercato di mettersi al riparo da incursioni e scorrerie; paese così privo di sole che le mamme promettono ai figli, se faranno i bravi, di portarli a prenderne un po’ fuori dall’abitato; chiese in cui “non si può entrare per il rischio di sprofondare all’improvviso nei cadaveri” ― come se il fatto di aver elevato la spesa comunale per l’istruzione dai 77 centesimi per abitante del 1871 a lire 1 e 81 centesimi di dieci anni dopo (mentre Arsoli passava da 86 centesimi a lire 1, 17) non giustificasse qualche trascuratezza in altri settori; paesani che si vantano di discendere da Corrado d’Antiochia pur essendo “i più miseri fra gli Anticolani”, tra quei miseri che “non sdegnano di nutrirsi con carne di animali morti per malattia”; “avidi di liquori”, “furbi, loquaci, creduli, ignoranti”, equamente divisi tra superstiziosi che si lasciano prendere per il naso e bricconi che si approfittano di loro (famiglie che “affermano di avere il privilegio, che si perpetua nella linea mascolina, di guarire la sciatica” e poveri sprovveduti che le riempiono d’oro) e tuttavia senza religione al punto di coprir di bestemmie la Madonna del Giglio e lesinarle l’olio per le lampade ― accusa che in un tipo come il Berti, che negli altri paesi della Valle posa a rivoluzionario fieramente laico, appare del tutto strumentale al suo bisogno compulsivo di trovare ogni possibile pretesto per screditare gli Anticolani; addirittura ladri, sistematicamente dediti al furto di legna nel territorio del comune di Rocca di Mezzo; e poi, dulcis in fundo, l’incredibile quanto contraddittoria accusa di essere, al tempo stesso, troppo generosi e troppo avidi nei confronti dei “trovatelli”, dei “bastardi” e delle “projette” che a poco a poco (siamo al più “puro” razzismo di stampo positivistico) stanno contaminando il paese e provocando il “deperimento e la trasformazione del tipo anticolano”!

 

Come mai tanto odio?

 

Rileggiamo con attenzione il brano della “filippica” in cui il Berti è costretto ― non potendo negare ciò che tutta l’Europa colta già sapeva da circa un trentennio[1] ― ad ammettere la “speciale simpatia” creatasi tra gli Anticolani e gli artisti: In estate, scrive, Anticoli è luogo di villeggiatura e, cosa curiosa, è luogo di villeggiatura dei pittori. Cosa curiosa, la definisce. Già l’aggettivo mostra che per il Berti tale scelta non si spiega se non con la ben nota stramberia di pittori e scultori. Vi si recano annualmente in 20 o 30, continua il “nostro” come se parlasse di uccelli migratori, e vi passano i mesi del caldo disegnando e dipingendo le mille belle fantasie della natura. Segno che ad Anticoli e fra gli Anticolani si trovano bene le persone più dotate d’immaginazione, sensibilità, intelligenza? Ma quando mai! Un anticolano, racconta e “spiega” il Berti in tono da barzellettiere berluscista, mi accennava non è lungo tempo, un angolo di una piazzetta brutto e lurido, dicendomi con entusiasmo: “Vedete voi quell’angolo di muro? È una delle più belle cose di Anticoli: i pittori lo hanno disegnato centinaia di volte e non si saziano di ricopiarlo”. (Un discorso del genere, se l’autore fosse ben disposto, potrebbe essere interpretato nel senso che gli Anticolani, sagaci, non si fanno incantare dalle “svenevolezze” degli artisti; ma il Berti non è ben disposto, e dunque per lui l’anticolano parlava con entusiasmo, cioè non aveva affatto capito quanto doveva essere sciocco, quel pittore, per innamorarsi di un angolo così “brutto e lurido”). Io sorrisi a quel buon uomo, continua il Berti ― attenzione ché adesso arriva il bello ― ma pensai fra me se era forse l’economia del vivere che chiamava i pittori ad Anticoli, o quei begli occhi celesti che vedevo lampeggiare alle finestre prossime all’angolo lurido che è una delle più belle cose di Anticoli. A mantenere l’affiatamento credo debbano avere influito in gran parte le furbe anticolane, imperocchè alcune di esse sono riuscite a dividere la mensa ed il letto dell’ospite, con, ed anche senza, il permesso del sindaco.

 

Mettiamoci nei panni del povero Berti: vorrebbe scrivere un’opera monumentale sui comuni del Lazio, dunque ha velleità letterarie. Ma, ahimé, non è un artista ― non è neppure uno scribacchino mediocre ma almeno sinceramente visionario come l’estensore di queste righe ― e appena mette piede ad Anticoli è costretto ad accorgersene... da chi? Ma dalle belle Anticolane, diamine ― o quanto meno dalle belle tra le belle che si salvano donne facendosi modelle ― che a lui, povero Berti, non “lampeggiano con gli occhi” dalle finestre che Arturo Martini renderà immortali; che a lui, povero Berti, lasciano “lurido e brutto” quel che agli altri, agli artisti veri, tramutano in sublime coi loro sguardi. Circi all’incontrario, capaci di far innamorare sol chi non è porco già di suo, son proprio le belle Anticolane ― streghe così potenti da far piazza pulita in men che non si dica della “laicità” razionale del Berti inducendolo a rimproverarle ridicolmente, come una beghina, di lasciar scoperte le braccia ― che lo fanno impazzire d’odio e di invidia non solo per la loro fantasia, libertà e, dunque, bellezza, ma contro tutto ciò su cui si posano, da quel fatal momento in poi, gli occhi suoi ormai non più vitali: gli artisti di mezza Europa ― per il Berti ridotti a nient’altro che mattocchi e sciupafemmine senz’arte né parte; gli Anticolani in massa ― per il Berti la feccia di cui sopra; e infine il paese tutto, con annessi e connessi ― per il Berti il luogo più tristo della Valle dell’Aniene, se non del Lazio e d’Italia!

 

L’immaginazione del poveretto, “maledetta” dall’odio per le Anticolane di cui si è ammalata, ormai tramuta in sterco tutto ciò che sfiora. Il primo volume del Dizionario dei Comuni della Provincia di Roma, così, fu anche l’ultimo. Che siano state proprio le modelle di Anticoli a privarci di un tale opera privando il Berti degli occhi ― strumento di lavoro indispensabile per un esploratore ― che non erano stati capaci di reggere la loro vista?

 

 

[1] Scrive Umberto Parricchi: Raggiungono Anticoli artisti danesi e svedesi, austriaci, francesi, belgi, inglesi, olandesi, russi, norvegesi, tedeschi, svizzeri. Ernst Stückelberg, un pittore di Basilea, dopo viaggi di studio a Parigi e a Monaco, nel 1856 arriva in Italia. Da Roma, ove abita, nella stagione estiva si trasferisce in campagna, dipinge a Vicovaro, a Cervara e ad Anticoli. Del 1857 sono le Figuren aus dem Dorfleben von Anticoli in Sabinischen Gebirger, in der Nähe von Rom, tavola di disegni conservata nel Kunsthandel di Zurigo. Del 1857 o 1858 è il dipinto Sitzendes junges Mädchen in Volktracht aus Anticoli in den Sabinerbergen. Nel 1858 Stückelberg è il primo artista, di cui si hanno notizie sicure, a stabilirsi qui per alcuni mesi che egli stesso considera i più felici della sua vita. (Umberto Parricchi, a cura di, Un paese immaginario: Anticoli Corrado, Roma, 1984, Istituto poligrafico e zecca dello Stato, pp 262 – 263).

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lunedì 19 luglio

 

La vignetta di Staino su "L'Unità" del 19 luglio: "Vendola: mi candido alle primarie per sparigliare il centrosinistra. Bobo: Strano. Se c'è una cosa di cui il centrosinistra non ha bisogno, è proprio di essere sparigliato".

 

Vendola cattoberluscista?

 

Come mostra la vignetta uscita il 19 luglio su L’Unità, a Bobo non è piaciuta la frase di Nichi Vendola: Mi candido alle primarie per sparigliare i giochi del centrosinistra, se il centrosinistra si presenta come una vecchia liturgia.

 

A noi invece non sembrava accio come discorso, ma per scrupolo, non essendo esperti di Scopone scientifico, siamo andati a controllare sul vocabolario. E... sorpresa! Abbiamo scoperto che sparigliare significa far sì che una carta risulti spaiata mediante una presa che si appropri di essa senza far uso di una carta dello stesso valore.

 

Dunque, o Vendola, il centrosinistra è per te non il compagno di gioco ma l’avversario? Dunque se il centrosinistra, mettiamo, avesse due bei sette, tu gliene prenderesti uno in modo che anche l’altro cominci a vacillare? Dunque, fuor di metafora, ti proponi di sottrarre al centrosinistra i migliori di noi? Sembrano i pensieri del Berlusconi, Vendola!

 

A questo punto ci siamo sentiti così scossi, che non abbiamo potuto fare a meno di studiare il tuo discorso di ieri con maggiore attenzione. Scoprendo, così, un’altra “perla”: Le Fabbriche di Nichi saranno il più importante incubatore di nuove intelligenze e della nuova classe dirigente. Che ne dice il vocabolario? Dice che incubare significa creare le condizioni adatte perché possa svilupparsi nell’uovo fecondato l’embrione che darà vita a un nuovo individuo.

 

Dunque, o Vendola, tu ritieni che vi siano, tra di noi, Esseri Umani la cui intelligenza non si sia mai sviluppata? E che stia a te metterci tutti in incubatrice per trasformarci, da uova che siamo, nei futuri nuovi ultracorp... ehm, scusa, volevamo dire: nei futuri nuovi individui? Sembrano i pensieri del Ratzinger, Vendola!

 

Tu magari ci accuserai di essere in mala fede, dirai che noi, in questo tuo uovo, andiamo proprio a cercare il pelo... Può darsi. Ma vedi, Vendola: tutti dicono che parli così bene, così bene, così bene... e in effetti, l’abbiamo constatato, tu parli molto bene. Siamo certi, dunque, che non ignori cosa significhino esattamente termini come sparigliare e incubare. E non vogliamo farti il torto di supporre che tu li usi a sproposito.

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mercoledì 7 luglio

 

Due giovani: Ernest Hemingway e Benito Mussolini.

Due giovani: Ernest Hemingway e Benito Mussolini.

Due giovani: Ernest Hemingway e Benito Mussolini.

 

Hemingway, Mussolini, Uomini e No

 

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Una domenica di primavera, verso la metà degli anni ’20, Ernest Hemingway ventiseienne scendeva in macchina verso La Spezia in compagnia di un amico. Avevano una vecchia Ford coupé. Tra le montagne, mentre attraversavano a passo d’uomo la piazza di un paese, un giovane con una valigia si staccò da una piccola folla, venne verso l’automobile e chiese loro di portarlo alla Spezia.

 

“Abbiamo solo due posti e sono occupati”, disse Ernest.

 

“Monterò sul predellino”, disse il giovane. Introdusse un pacchetto attraverso il finestrino, strinse loro la mano, spiegò che per un fascista e uomo abituato a viaggiare come lui non era una gran cosa e, mentre due uomini legavano la sua valigia dietro alla macchina sopra le altre, saltò sul predellino sinistro dell’automobile tenendosi aggrappato con il braccio dentro il finestrino aperto. La folla agitò le braccia in segno di saluto. Egli rispose con la mano libera.

 

La strada seguiva il corso di un fiume. Al di là si alzavano i monti. Il sole scioglieva la brina sui prati. Il tempo era luminoso, ma faceva molto freddo e l’aria gelata passava attraverso il parabrezza aperto.

 

“Credi che stia bene lì fuori?” Guido, l’amico di Ernest, fissava la strada.

 

La vista, dalla sua parte, gli era impedita dall’ospite. Il giovane sporgeva dal lato della macchina come una figura scolpita sulla prora di una nave. Si era tirato sù il bavero del cappotto e abbassato il cappello fino agli orecchi; aveva il naso rosso nel vento.

 

“Ne avrà abbastanza”, disse Guido. “È dalla parte della gomma guasta”.

 

“Oh, ci lascerebbe sùbito se forassimo” disse Ernest. “Non vorrebbe impolverarsi il vestito da viaggio”.

 

“Bene, non me ne importa” disse. “Però, ha un modo di sporgersi alle curve...”

 

Dopo l’ultima salita sopra La Spezia e il mare, la strada scese con strette e ripide curve. L’ospite veniva spinto in fuori alle svolte e tirava quasi via la calotta dell’automobile.

 

“Non si può dirgli di non farlo” disse Ernest a Guido. “È il suo istinto di conservazione”.

 

“Il grande istinto degli Italiani”.

 

“Il più grande istinto degli Italiani”.

 

Vicino alla città la strada divenne pianeggiante. L’ospite ficcò la testa nel finestrino.

 

“Voglio fermarmi”.

 

“Ferma” disse Ernest a Guido.

 

Rallentarono, al lato della strada. Il giovane scese, andò dietro alla macchina e sciolse la valigia. Poi Ernest gli porse il suo pacchetto ed egli se lo mise in tasca.

 

“Quanto vi devo?”

 

“Niente”.

 

“Perché niente?”

 

“Non saprei” rispose Ernest.

 

“Allora grazie” disse; non “vi ringrazio” o “molte grazie” o “grazie mille”, tutto quello che si diceva un tempo in Italia a chi vi porgeva un orario o v’indicava la strada. Il giovane pronunziò la forma più corta di ringraziamento e li guardò sospettosamente mentre Guido rimetteva in moto la macchina. Ernest lo salutò con la mano. Era troppo dignitoso per rispondere. Proseguirono per La Spezia.

 

“È un giovane che farà molta strada in Italia” disse Ernest a Guido.

 

“Eh” rispose “ha già fatto venti chilometri con noi”.

 

A La Spezia sui muri delle case si vedevano dei ritratti stampigliati di Mussolini con gli occhi paurosamente aggrottati, e sotto scritto “evviva”, la “W” dipinta in nero che sgocciolava la tinta giù per il muro.

 

“Andiamo a mangiare in un posticino alla buona” disse Guido. Una donna che stava sulla soglia di una trattoria gli sorrise, e loro entrarono.

 

Era buio dentro e in fondo alla sala tre ragazze sedevano a un tavolino insieme a una vecchia. Davanti a Ernest e Guido, a un altro tavolo, sedeva un marinaio. Stava seduto lì senza mangiare, né bere. Ancora più in là, a un terzo tavolino, stava scrivendo un giovane vestito di blu. Con i capelli lucidi di brillantina, elegantemente vestito, aveva un aspetto impeccabile.

 

Una ragazza venne a prendere gli ordini mentre un’altra ragazza stava sulla porta. Notarono che non portava niente sotto il vestito da casa. La ragazza che era venuta a prendere gli ordini mise il braccio al collo di Guido mentre stavano guardando il menu. Poi, quando tornò dalla cucina con gli spaghetti, li posò sulla tavola, portò una bottiglia di vino rosso e sedette vicino a loro.

 

“Bene” disse Ernest a Guido “volevi mangiare in un posticino semplice”.

 

“Questo non è per niente semplice. È complicato”.

 

La ragazza indossava un abito a un sol pezzo. Si piegò in avanti sul tavolo, si mise le mani sui seni e sorrise. Sorrideva meglio da una parte che dall’altra e voltava verso Ernest e Guido la parte migliore. Il fascino della parte migliore era aumentato dal fatto che qualche incidente le aveva spianato l’altro lato del naso come se fosse stato cera calda. Il suo naso tuttavia non sembrava di cera calda. Aveva anzi un aspetto freddo e ben solido, ma era come piallato.

 

“Dille che dobbiamo andarcene” disse Guido “dille che siamo malatissimi e che non abbiamo denaro”.

 

“Il mio amico è un misogino” disse Ernest.

 

“Digli che l’amo” disse la ragazza.

 

Ernest glielo disse.

 

“Vuoi deciderti a chiudere la bocca e andarcene?” esplose Guido. “Non vorrei doverti lasciar qui”.

 

“Non saprei” disse Ernest. “La Spezia è un bel posticino”.

 

“La Spezia” disse la vecchia. “State parlando della Spezia”.

 

“È un bel posticino” ripeté Ernest in italiano.

 

“È il mio paese. La Spezia è la mia casa e l’Italia è il mio paese”.

 

“Dice che l’Italia è il suo paese” tradusse Ernest.

 

“Dille che lei somiglia al suo paese” disse Guido.

 

“Senti” disse alla vecchia il giovanotto impeccabile dal tavolo dove stava scrivendo. “Lasciali andare. Tanto son senza un soldo”.

 

Ernest e Guido pagarono il conto e si alzarono. Le tre ragazze, la vecchia e il giovanotto impeccabile sedevano insieme allo stesso tavolo, ora. Il marinaio stava seduto con la testa tra le mani. Nessuno gli aveva rivolto la parola per tutto il tempo. La ragazza portò il resto che la donna le aveva contato e tornò al suo posto. Lasciarono una mancia sul tavolo e uscirono. Quando erano già seduti in macchina pronti a partire, la ragazza uscì e si mise sulla porta.

 

Partirono e Ernest la salutò con la mano. Non rispose, ma rimase a guardarli mentre si allontanavano.

 

Passarono Genova sotto un violento temporale. Poi si fermarono di nuovo a mangiare a Sestri Ponente. Un uomo e una donna sedevano all’estremità più lontana della sala. Lui era un uomo di mezza età e lei giovane e vestita di nero. Durante tutto il pasto si vide il suo respiro nell’aria fredda e umida. L’uomo la guardava e scuoteva la testa. Mangiavano senza parlare e lui le stringeva la mano sotto la tavola. La donna era bella ed entrambi sembravano molto tristi. Avevano vicino una valigia.

 

Ernest e Guido avevano i giornali ed Ernest lesse forte a Guido il resoconto dei combattimenti a Shangai1. Dopo mangiato, Guido uscì col cameriere in cerca di un posto che nella trattoria non esisteva ed Ernest pulì con uno straccio il parabrezza, i fanali e la targa posteriore della Ford. Quando Guido tornò, voltarono la macchina e partirono. Il cameriere lo aveva portato dall’altra parte della strada in una vecchia casa. Le persone che l’abitavano erano molto sospettose e il cameriere era rimasto con lui per vedere che non rubasse niente.

 

“Ti ricordi per quale ragione siamo venuti in questo paese?” disse Guido.

 

“Sì” rispose Ernest “ma non siamo riusciti a nulla”.

 

“Ne saremo fuori stanotte”.

 

“Se possiamo arrivare dopo Ventimiglia. Vedi ancora Genova?”.

 

“Oh, sì” disse Ernest.

 

“Il prossimo promontorio dovrebbe coprircela”.

 

“La vedremo ancora a lungo. Dietro vedo ancora la punta di Portofino”.

 

Lungo il mare, dopo che il vento aveva asciugato il fango, la macchina cominciò a sollevare la polvere. Su un tratto pianeggiante li sorpassò un fascista in bicicletta con una grossa rivoltella nella fondina. Andava in mezzo alla strada e dovettero sterzare di lato per sorpassarlo a loro volta. Li guardò mentre passavano. Più avanti arrivarono a un passaggio a livello proprio quando le sbarre si stavano abbassando. Mentre aspettavano, il fascista in bicicletta li raggiunse. Il treno passò e Guido rimise in moto.

 

“Un momento” gridò il ciclista dietro la macchina “la vostra targa è sporca”.

 

Ernest scese con uno straccio. Aveva pulito la targa quando si erano fermati a mangiare.

 

“Si può leggere il numero” disse Ernest.

 

“Credete davvero?”

 

“Lo legga”.

 

“Non posso. È sporco”.

 

Ernest lo strofinò col cencio.

 

“Com’è ora?”

 

“Venticinque lire”.

 

“Cosa?” disse Ernest. “Potevate leggerlo benissimo. È solo sporco per lo stato delle strade”.

 

“Non vi piacciono le strade italiane?”

 

“Sono sporche”.

 

“Cinquanta lire”. Sputò in terra. “La vostra macchina è sporca e anche voi siete sporco”.

 

“Bene. Mi dia la ricevuta con sopra il suo nome”.

 

Tirò fuori un blocco di ricevute fatte in doppia copia e forate così da poterne staccare e darne una a chi cadeva in contravvenzione e una, riempita, da tenere come matrice. Non c’era però la carta carbone per registrare ciò che veniva scritto sulla prima.

 

“Datemi cinquanta lire”.

 

“Scrisse con un lapis copiativo, strappò il foglietto e lo porse a Ernest, che lo lesse.

 

“Qui c’è scritto venticinque lire”.

 

“Mi sono sbagliato” disse, e corresse venticinque in cinquanta.

 

“E ora scriva sulla parte che resta a lei. Ma ci scriva cinquanta”.

 

Sorrise con un bel sorriso italiano e scrisse qualcosa sulla matrice, tenendola in modo che Ernest non riuscisse a vedere.

 

“Andate” disse “prima che la targa si sporchi di nuovo”.

 

Seguitarono ancora per due ore dopo che era già scesa la sera, e quella notte dormirono in territorio francese, a Mentone. Gli sembrò allegra, pulita e deliziosa. Erano andati in macchina da Ventimiglia a Pisa e Firenze e attraverso la Romagna, fino a Rimini e al ritorno passando per Forlì, Imola, Bologna, Parma, Piacenza e Genova e di nuovo a Ventimiglia. L’intera gita era durata solo dieci giorni.

 

Naturalmente, in così poco tempo, Ernest e Guido non avevano avuto modo di farsi un’idea del paese né dei suoi abitanti2.

 

Non è vero. Un’idea del paese e dei suoi abitanti in quell’anno 1925 Ernest e Guido ce l’hanno, e molto precisa. La gita è durata solo dieci giorni, e il racconto ― nel nostro Oscar Mondadori n°64, acquistato in un’edicola di Frascati il 12 luglio 1966 ― solo dieci pagine, ma ai due giovani son più che sufficienti per decidere di interrompere la gita e di scappare dall’Italia fascista, e a noi per sentirci come alla fine di Shining3, quando nell’Overlook Hotel deserto, muovendoci come spettri tra gli spettri, scoprimmo fra centinaia di vecchie fotografie un’immagine degli anni ’20 che testimoniava che Jack Torrance, scrittore pazzo e padre e marito assassino, era già lì a quei tempi, era sempre stato lì: ci bastano, cioè, per capire che i fascisti di ottantacinque anni fa erano gli stessi di oggi, e che la loro Italia ― l’Italia fascista, non la fantastica Italia che attrasse Ernest e Guido nel 1925 e che immaginiamo e amiamo noi nel 2010 ― era la stessa dei fascisti di oggi, comunque si chiamino e azzurre o verdi che siano le loro camicie, le loro cravatte e i moccichini che portano infilati nei taschini delle giacche. Ci bastano per capire che il titolo di questo bellissimo e doloroso racconto, Che ti dice la Patria?, che Hemingway volle in italiano, è bello e doloroso come il racconto perché è la domanda che ancora oggi ci poniamo dinanzi ai milioni di nostri compatrioti che ubbidiscono infatuati a un richiamo d’oltretomba: Che vi dice la Patria?, vorremmo chiedere loro. È mai possibile che sia la stessa che parla anche ai nostri cuori e alle nostre menti, l’Italia inconcepibilmente “non morta” che vi chiama a rifarvi fascisti e nazisti dopo quasi un secolo?

 

Da quell’Italia Ernest e Guido stanno scappando perché non è il Paese ove sono nati, non è la Patria; a loro dice solo l’orrore che emana, che quasi li vince, che a ogni curva della ripida discesa verso La Spezia quasi li spinge a buttar giù dall’auto il giovane fascista sul predellino: perché paghi non solo per la folla che riempiva la piazza per lui, e muta, inguardabile, segretamente violenta, non li lasciava passare se non lo prendevano con sé, ma per tutto ciò che hanno visto e sentito nei nove giorni precedenti.

 

Un’Italia dove quel ch’è pubblico va in rovina ― le strade che un po’ di pioggia rende impraticabili, i fiumi che escono dagli argini mal tenuti, i veicoli che schizzano fango sui passanti come se non li guidassero mani umane, i muri sbrecciati e imbrattati ― quel ch’è privato è quasi sempre sporco, turpe, rapace, imbroglione ― le trattoriole bisunte che invece sono bordelli, i locali pubblici senza gabinetti, gli appartamenti da cui spiano, torvi, occhi di ladri ai quali chiunque passi sembra un ladro ― e che è la stessa che oggi riemerge non-morta dal passato ― con le stesse facce, gli stessi sguardi maligni, le stesse truffe, le stesse minacce, la stessa ignoranza, lo stesso odio, lo stesso abbandono e spreco di Esseri Umani, la stessa infelicità ― e senza pudore, senza sentimenti, senza sapere quello che fa impesta l’Italia che immaginavamo di poter amare, l’Italia che volevamo far bella e generosa per i nostri figli: Ernest e Guido, lasciandosela alle spalle, voltandosi a guardarla solo per il sollievo di vederla a poco a poco sparire, incontrano gli stessi uomini, le stesse donne, che di lì a vent’anni indurranno Vittorini, e dopo un altro mezzo secolo noi, a domandarci senza poter credere a noi stessi: ma sono Uomini o No?

 

Inquietante, in loro, è fin dal primo momento la stranezza. Il giovane fascista sul predellino, per esempio, è uomo o no? In quell’atto insensato, in quella cieca, furiosa tenacia, così diversa dall’umana morbidezza che Ernest e Guido non pèrdono neanche nella tensione della fuga, egli esibisce forse una “maschia, possente bellezza” ― si esprimeva così la retorica insieme omosessuale e omofoba del fascismo ― emana, forse, una vitalità irresistibile ― disumana, però, nel suo poter fare a meno del rapporto ― ma perché rischia la vita per arrivare a tutta velocità a La Spezia? Quale indegnità, quale abiezione si è radicata in lui, che lo fa correre a un comando come un cane senza alcun riguardo per sé? E alla fine non solo vuol pagare, per il passaggio che in fondo ha estorto, ma non capisce perché Ernest e Guido non vogliano che paghi, né perché allontanandosi lo salutino con la mano, né perché ― insomma ― tra gli Umani come loro si creino e resistano relazioni alla cui importanza essi tributano rispetto fin nei minimi gesti reciproci: è strano come un alieno, è diverso, è al di là di qualcosa che non sapremmo definire, ma di cui sappiamo che non la si può oltrepassare senza precipitarsi per una china in fondo alla quale non ci sono che mostruosità e catastrofi: di tutto ciò che si diceva e si capiva un tempo in Italia, la Patria fascista a poco a poco e impercettibilmente gli ha detto altro, gli ha versato nelle orecchie un veleno che va al cervello rendendolo incomprensibile perfino e innanzi tutto a sé stesso: come dev’esserlo una macchina, appunto, da cui non si vuol altro che funzioni come si deve quando la si mette in moto.

 

E la ragazza che invece è una prostituta, la ragazza ch’è bella dal suo lato migliore e mostruosa dall’altro? Tutto ci parla di come sarebbero potute essere, lei e l’Italia, se il fascismo non le avesse violentate entrambe: il suo star sulla porta come una donna libera, i sorrisi, il braccio al collo di Guido, l’atto di sedersi vicino ai due giovani, parlare con loro, toccarsi il seno ― non sarebbe una donna bellissima, una giovane donna stupenda da incontrare, se non fosse una giovane donna annientata e uccisa? Il fascino della sua parte migliore è stato distrutto, un incidente le ha spianato metà della faccia come cera calda: la sua morbida cera ― l’umana affettività che nei bambini, nei paesi violenti come quell’Italia lì, l’odio religioso contro l’Umano pietrifica mentre le botte cambiano i connotati per sempre, e che in Ernest e Guido è stata rispettata, invece, da madri e padri come quelli che in paesi non violenti chiamavano il ’900 agli inizi “il secolo dei bambini” ― è stata riplasmata in una maschera mostruosa (era, da sempre, la “chirurgia plastica” dei poveri) per far di lei una prostituta. E forse proprio da quel giovane in blu, coi capelli lucidi di brillantina, elegantemente vestito, dall’aspetto impeccabile, che a un tavolino scrive e fa i conti di quanto gli ha reso e gli rende, giorno dopo giorno, la distruzione della sorella... Non sono, le loro, le stesse facce di ragazze e di giovani “plastificati” che “decorano” oggi certe convention, che spiccano come prede in catene in certi cortei al seguito, che riempiono certi programmi televisivi di disperata fatuità stando sempre ben attenti a mostrarsi alle telecamere dal loro lato migliore e a nascondere, dall’altro, le cicatrici dell’intervento (oggi non è più un “incidente”) che li ha tramutati in ultracorpi? E la vecchia, orrenda, che sorveglia le ragazze nelle trattoria che invece è un bordello, non è l’esatto presentimento di certe madri e certi padri di oggi che commerciano in figlie? Che addirittura minacciano il suicidio ― straordinari venditori e venditrici senza più cuore né mente a intralciare la dedizione al profitto che da un Essere Umano si può trarre ― se per qualche contrattempo non riescono a venderle?

 

Non vi piacciono le strade italiane? dice il fascista in bicicletta, tutto rivoltella, bel sorriso italiano, corruzione e miserabile protervia. È quel che sempre insinuano i fascisti contro chi non riesce a celare la propria sofferenza per l’orrore di cui pervadono l’Italia: voi diffamate la Patria, dunque non l’amate; ed è proprio in questo ― non amando, soffrendo, sentendo dolore per la Patria ― che voi vi rivelate ancora umani, non cristiani; ancora umani, non patrioti; ancora umani, non fascisti; proprio non riuscendo a nascondere che non vi piacciono le strade, il fango, la sporcizia, lo squallore ― come domani soffrirete per la cementificazione e l’istupidimento ― proprio in questo rivelate di non essere strade, cemento, squallore, parti della macchina, ingranaggi ciecamente determinati: siete esseri umani, vi denuncia il vostro dolore, e proprio per questo si può e si deve farvi quel che non si farebbe neanche alle bestie.

 

Eppure, nell’Italia fascista da cui Ernest e Guido fuggono voltandosi soltanto per vederla sparire alle loro spalle, non tutti gli Italiani sono come il giovane sul predellino, o lo sfruttatore delle sorelle nella trattoria-bordello, o la guardia infame e pezzente che arranca in bicicletta in cerca di vittime: ci sono anche l’uomo e la donna che nella seconda trattoria siedono all’estremità più lontana della sala. Già dal loro isolarsi ― come, a La Spezia, dal tragico silenzio del marinaio seduto con la testa fra le mani, senza mangiare, senza bere, e a cui nessuno rivolge la parola ― capiamo che fanno parte dell’altra Italia, dell’Italia che si poteva amare e sognare, prima che fosse sconfitta e umiliata; e allora ci accorgiamo che hanno vicino una valigia, una sola valigia, che mangiano senza parlare, che la donna è bella ma che l’uomo guardandola scuote la testa, che entrambi sembrano molto tristi, e comprendiamo che non sono qui per il loro amore, ma come si è in un incubo finché l’incubo dura, e quindi per far sentire a noi, da personaggi di una storia quali essi sono, che è di un incubo che stiamo leggendo, che quel che la Patria ti dice, quando la Patria è fascista, te lo versa nelle orecchie mentre dormi, notte dopo notte, per far sì che un brutto mattino tu ti svegli uguale a loro, dai tuoi sonni agitati, ed è arrivato l’invasor perché da quel mattino in poi l’invasore sei anche tu: per questo hanno l’aria stanca di chi non dorme da tempo, per questo l’uomo e la donna scappano anche loro dall’Italia senza voltarsi indietro: non sopportano più neanche la vista degli Italiani, ormai per loro son tutti complici, tutti colpevoli anche solo per non aver il coraggio almeno di sedersi in fondo alle sale, sempre, per testimoniare che perfino trovarsi casualmente insieme a un fascista nello stesso ristorante crea sofferenza in chi non è capace di cercar di non essere umano.

 

Ernest e Guido non possono far niente per loro: solo rattristarsi. Americani, non italiani, da stranieri sentono e sanno che la salvezza dell’Italia non può venire da fuori dell’Italia, perché sarebbe come se alla prima curva, scendendo verso La Spezia, si fossero scrollati via come un insetto molesto il fascista sul predellino: sarebbe la guerra. Che è peggio, sempre, di ciò che tenta di combattere. Anzi: in un’Italia così ridotta, già la loro presenza ― sia pure come giovani, inermi turisti ― è un atto di guerra, e ben glielo fa capire la guardia vigliacca col suo odio istintivo, a prima vista, e poi con la grossa pistola che da un momento all’altro potrebbe spianargli contro, incredibile a dirsi, per legittima difesa: Ernest e Guido sono nemici per il fatto stesso di essere diversi, irraggiungibili, impossibili da prendere pian piano nella notte versando loro nelle orecchie il veleno di quel che dice la Patria fascista; perché a uno straniero come può la Patria parlare, dirgli di non essere umano, se lui, in quanto umano, non capisce la lingua?

 

Possono solo scappare, Ernest e Guido, per risparmiare all’Italia un tempo amata almeno di macchiarsi del delitto di ucciderli a tradimento. Scappare e poi voltarsi a guardarla ― purché da così lontano che gli occhi non la vedano più ― immaginando che non vista stia concependo una nuova nascita: la venuta di un giorno in cui anche l’Italia, come Mentone, sarà di nuovo allegra, pulita, deliziosa.

 

*

 

Uomini o No? si domanderà Vittorini vent’anni dopo, e noi dopo sessantacinque ancora. Ma nessuno è No, finch’è vivo e non morto. Non è possibile non essere umani, se si è animali umani. La lotta è sempre tra umani, umani da entrambe le parti, e dubitarne vorrebbe dire che i fascisti, benché sconfitti, avrebbero vinto: avrebbero lasciato viva in noi, pur morendo loro, l’idea che si possa e si debba riuscire, prima o poi, a non essere umani, e che questo e non altro sia il senso dello stare al mondo: preparare e forzare, per noi e per gli altri, l’avvento di un’altra vita, di un aldilà, in cui dell’umano non vi sia più traccia.

 

*

 

Nell’estate del 1914, quando la Grande Guerra era appena cominciata e l’intervento degli Stati Uniti (e di Ernest Hemingway sul fronte italiano) erano ancora di là da venire, il futuro scrittore ― che allora aveva circa sedici anni e si chiamava Nick Adams ― andò qualche giorno da solo a pescare sul Gran fiume dai due cuori4. Scese dal treno, in un luogo dove una volta c’era un villaggio abbastanza grande per avere un albergo, e la prima cosa che vide fu che adesso era solo rovine, solo pietra scheggiata e spezzata dal fuoco. Quello era tutto quanto restava del paese di Seney. Perfino la superficie era scomparsa dal terreno nell’incendio; e la vista di tanta distruzione, all’inizio di un racconto apparentemente luminoso e felice, è come la faccia spianata come cera calda della bella e orribile ragazza della trattoria a La Spezia: un orrore segreto, mostrato per un momento e poi sùbito nascosto di nuovo, che non dovremmo dimenticare ― noi lettori ― neanche se poi ci convincessimo che perfino lo scrittore se n’è dimenticato.

 

Nick era felice. Accomodò le cinghie del sacco intorno al fagotto, tirandole bene, si gettò il sacco sulla schiena, infilò le braccia nelle bretelle e liberò le spalle da una parte della tensione appoggiando la fronte contro una larga striscia di stoffa. Pure, era troppo pesante. Era davvero troppo pesante. Aveva in mano l’astuccio delle canne da pesca e chinato avanti per tenere in alto sulle spalle il peso del sacco Nick s’incamminò lungo la strada che correva parallela ai binari, lasciandosi alle spalle nel sole il paese bruciato, e svoltò poi intorno a una collina prendendo una strada che tra due colline alte e scarnite dal fuoco si spingeva verso l’interno. Camminò lungo quella strada, sentendo male per la tensione delle cinghie del sacco sulle spalle. La strada si arrampicava ripida. Era faticoso camminare in salita. I muscoli gli dolevano e faceva un gran caldo, ma Nick si sentiva felice. Sentiva di aver lasciato tutto dietro di sé, il bisogno di pensare, il bisogno di scrivere, gli altri bisogni. Tutto era dietro di lui.

 

La meticolosità di ogni azione di Nick, e la meticolosità con cui le descrive, è la stessa di cui è fatto il mondo. Come lui tira bene le cinghie del sacco, come lui è bravo e sa cosa fare per liberare le spalle da una parte della tensione, come lui si china in avanti per tenere in alto il peso, così la grossa trota che ha visto poco prima dal ponte scatta contro corrente con un forte angolo quando l’ombra dell’uccello pescatore passa sul fiume, e soltanto la sua ombra segna l’angolo, poi perde l’ombra quando compare alla superficie dell’acqua, nel sole; poi, quando torna sott’acqua, l’ombra sembra trasportata giù sopraffatta dalla corrente fino a ridursi di nuovo sotto il ponte, dove si ferma stretta accanto al pilone fronteggiando la corrente. E il cuore di Nick batte, come se comunicasse con il corpicino della trota.

 

Poiché il mondo e tutti gli esseri che ne fanno parte costituiscono un’immensa unità immensamente complessa ma anche estremamente esatta, da sé stessa perfettamente regolata ― da sé stessa, certo, ché in questo mondo per buona sorte, benché vi siano fascisti, almeno non vi è traccia di dei ― e quindi perfettamente comprensibile. E che anche Nick ne sia parte lo comprendiamo dal fatto che egli non commette sbagli che lo rendano strano, diverso, inquietante rispetto al mondo: Nick è bravo, questo vediamo, capisce sempre quel ch’è bene fare e lo fa; l’accuratezza ch’è segno che il mondo è sensato, e che sensato lo conserva, è anche di Nick e fa sì che egli è e sarà sempre uno degli Uomini, mai dei “No”.

 

Quando Nick fa una sosta e si siede, appoggiandosi a un ceppo carbonizzato, a fumarsi una sigaretta, il suo sacco è piazzato su un ceppo, con le cinghie pronte e una cavità modellata dalla schiena. Quando si rimette in cammino, mantiene la direzione osservando il sole. Sa in quale punto vuol raggiungere il fiume, e sarà lì e non altrove che lo raggiungerà. E intanto coglie rami di felci selvatiche e li pone sotto la cinghia del sacco: lo sfregamento li schiaccia ed egli sempre camminando ne sente il profumo. Poi, quando arriva nel luogo prefissato, Nick mette a terra il sacco e l’astuccio delle canne e cerca uno spazio di terreno pianeggiante. Ha molta fame, ma vuol piantare la tenda prima di far da mangiare. Fra due pini il terreno è quasi sgombro. Nick prende dal sacco un’accetta ― immaginiamo la cura con cui sarà stata scelta, le discussioni con gli amici su quale sia l’accetta migliore, l’attenzione con cui sarà stata riposta nel sacco in modo che sia sempre pronta e facile a tirarsi fuori ― e recide due radici che sporgono. Ne risulta uno spazio di terreno abbastanza ampio per potervi dormire. Nick spiana con le mani il suolo sabbioso e strappa con le radici tutte le felci. Le mani hanno un buon odore di felci ― ogni operazione esattamente compiuta ricava dal mondo il proprio piccolo o grande premio ― e Nick spiana il terreno dove ha tolto le radici. Non vuole punti duri sotto le coperte. Quando ha ben spianato il terreno distende le tre coperte. Ne piega una in due, la prima sul suolo, e vi distende sopra le altre due.

 

Con l’accetta stacca poi una grossa scheggia di pino da uno dei ceppi e ne fa paletti per la tenda. Li vuole lunghi e robusti perché si conficchino bene. Slegata la tenda e stesala per terra, il sacco appoggiato a un pino sembra molto più piccolo ― c’è addirittura un che di autistico in questa osservazione: il sacco gli appare più piccolo, a un tratto, come se Nick non sapesse più che è stato lui stesso a renderlo tale. Quindi Nick lega a un pino la corda che serve da sostegno alla tenda, e ne lega l’altra estremità a un altro albero sollevando così la tenda dal suolo. La tenda rimane sulla corda come un lenzuolo di tela messo ad asciugare. Nick mette sotto la tela un palo che ha tagliato e ne fa una tenda fissandone i lembi al suolo. Tira bene la stoffa e ficca profondamente nel terreno i paletti battendoli con la parte piatta dell’accetta finché gli anelli delle corde sono interrati e la tela tesa come un tamburo.

 

La precisione, l’abilità, la bravura di Nick ― il suo sapere come si sta al mondo ― sono quasi irresistibili per noi: ricordiamo le mille conversazioni, soprattutto fra maschi, a cui abbiamo assistito e partecipato, ritroviamo quella stessa ricerca e quello stesso vanto quasi ossessivi della perfezione nel fare, qualsiasi cosa si faccia, e sentiamo che sì, è vero, l’abbiamo sempre saputo: è così che si sta al mondo perché il mondo è così ― implacabilmente perfetto, e immancabilmente generoso con chi non perde il passo con la sua perfezione ― e dunque è solo così che si è Uomini, solo così non si diventa “No”, solo così non ci si sveglia un brutto mattino da sonni agitati per entrare in un incubo che da quel momento siamo anche noi a render tale anche se non vogliamo. E solo così si può ottenere quel poco di felicità che la vita può dare, se i “No” non vengono a sfregiarla: la stessa per ogni vivente, umano o non umano che sia ― come la piccola trota di cui, il mattino dopo, Nick sentirà, sfiorandola con la mano, il senso di tranquillità e di freschezza sott’acqua ― che del mondo riesce a rimanere parte: nell’interno della tenda la luce filtra attraverso la tela scura. C’è un buon odore di tela. Già c’è un che di domestico e di misterioso. Muovendosi carponi sotto la tenda Nick si sente felice. Non è mai stato infelice, durante tutta la giornata. Questo però è diverso. Ora la cosa è fatta. C’era questa cosa da fare e ora è fatta. È stata una marcia dura. È molto stanco ma la cosa è fatta. Si è fatta la tenda. Si è piazzato. Niente può più toccarlo. Quello è un posto buono per piantare la tenda5. È lì, nel posto buono. È in casa sua dove se l’è costruita.

 

C’è voluto tempo per diventare così bravo da essere così perfettamente nel mondo da ricavarne quel po’ di felicità che se ne può trarre. Mentre si prepara da mangiare, per esempio, Nick a un certo momento resiste alla fame perché sa che i fagioli e gli spaghetti sono ancora troppo caldi. Guarda il fuoco, poi la tenda, non vuole rovinare tutto scottandosi la lingua. E ricorda che per anni non ha potuto gustare le banane fritte perché non è mai stato capace di aspettare che si raffreddino. La sua è una lingua molto delicata. C’è voluto tempo, sì, ma oggi, finalmente ― a soli sedici anni, del resto ― Nick è diventato così bravo che la delicatezza della realtà ― l’infinita delicatezza dell’organismo del mondo, di cui la sua lingua fa parte come tutto il resto ― più niente ha da temere dalle sue azioni, dai suoi gesti, perfino dai suoi pensieri: Nick è un Uomo, ora, il che vuol dire che è quel che è non con la mente, non col corpo, e neppure con la mente e col corpo, ma semplicemente come una lingua è una lingua e una trota è una trota: come ogni ente che ha da esser sé stesso e non un “No”, per esser nel mondo, così Nick è Nick, un uomo.

 

Più tardi attraverso l’imboccatura della tenda Nick osserva il bagliore del fuoco quando il vento della notte vi soffia sopra. È una notte calma. La palude è silenziosa. Nick si distende comodamente sotto le coperte. Una zanzara gli ronza vicino a un orecchio. Nick si siede e accende un fiammifero. La zanzara è sulla tela sopra la sua testa. La zanzara nella fiamma produce un sibilo soddisfacente. Il fiammifero si spegne. Nick si sdraia di nuovo sotto la coperta. Si volta sul fianco e chiude gli occhi. Ha sonno. Sente il sonno arrivare. Si rannicchia sotto la coperta e si addormenta.

 

Il gran fiume dai due cuori è un racconto di venti pagine: il doppio di Che ti dice la Patria?, ma non lunghissimo. Eppure si divide in due parti, che però furono pubblicate insieme. Dunque il motivo della suddivisione è interno al racconto: il sonno di Nick non dev’essere disturbato, per questo Il gran fiume dai due cuori s’interrompe la sera e riprende il mattino dopo. Quando il sole è alto e la tenda comincia a riscaldarsi, Nick esce fuori a osservare il mattino. Poi fa colazione, si prepara, prende con sé quel che gli occorre, cattura una cinquantina di cavallette, le chiude in una bottiglia con una scheggia di pino come turacciolo, in modo da non farle scappare ma da lasciare spazio per il passaggio dell’aria ― insomma: fa ogni cosa alla perfezione, come la sera prima, e con la contentezza, col pieno sentimento di sé nel mondo che la perfezione nell’agire gli dà ― e finalmente, sentendosi professionalmente felice, va a pescare.

 

Si dà prova di sapere come si sta al mondo non soltanto in quel che riguarda sé stessi, in ciò che si fa per sé, ma anche ― e forse soprattutto ― in ciò che si fa nei confronti degli altri. Il giorno precedente, per esempio, durante il cammino, Nick a un certo momento ha allungato una mano e ha afferrato una cavalletta per le ali. L’ha rovesciata, con tutte le zampine che si muovevano nell’aria, e ha osservato l’addome segmentato. Poi: “Vai, insetto” ha detto. “Vola via in qualche posto”. Ciò non vuol dire, naturalmente, che Nick sia san Francesco. La zanzara infatti l’ha uccisa, non l’ha invitata affabilmente a uscire, sorella zanzara, dalla tenda. E ucciderla non ha significato escludersi ― farsi strano e violento, fuori e contro l’ordine delle cose ― poiché è stata piuttosto la zanzara a mettersi fuori e contro il mondo disturbando il sonno di Nick. Ma come, si dirà, Nick può cibarsi delle trote ma le zanzare non possono cibarsi del suo sangue? Proprio così, poiché è così che il mondo è: fra tutti gli esseri, solo Nick è dotato di ragione, solo Nick può ricostruire l’ordine del mondo e apprendere a rispettarlo, e perciò solo Nick è in grado di decidere, per non infrangerlo, cosa si possa o non si possa fare. Si può uccidere la zanzara, dunque ― anzi: si deve farlo, o privati del sonno non si sarà presenti a sé stesso l’indomani ― ma certo non si può togliere la vita alla cavalletta quand’è ancora lontano il momento in cui si avrà bisogno di essa come esca.

 

Lo stesso, naturalmente, vale per le trote: Nick sente uno strappo al filo. Tira. È il primo colpo. Tenendo contro corrente la canna ora viva, ritira il filo con la mano sinistra. La canna si curva a scatti, come la trota punta contro corrente. Nick capisce che è una trota piccola. Solleva diritta la canna, che si curva per la tensione. Vede nell’acqua la trota puntare a scatti col muso e col corpo contro la mutevole tangente del filo nel fiume. Nick prende con la sinistra il filo e tira alla superficie la trota che si dibatte estenuata contro corrente. Ha il dorso colore chiaro dell’acqua tra i sassi, i fianchi luccicano al sole. Con la canna sottobraccio Nick immerge nell’acqua la mano destra. Tiene con la mano bagnata la trota che guizza e stacca l’amo dalla bocca del pesce e lo lascia ricadere nel fiume. La trota oscilla nella corrente, poi si ferma sul fondo dietro un sasso. Nick allunga la mano per toccarla, infila nell’acqua il braccio fino al gomito. La trota è immobile nel fiume in movimento, se ne sta sulla ghiaia dietro un sasso. Quando le dita di Nick la toccano, toccano il suo senso di tranquillità e di freschezza sott’acqua, la trota guizza e scompare, veloce come un’ombra sul fondo del fiume. Sta benone, Nick pensa. Era soltanto stanca. Si è bagnato la mano prima di toccare la trota in modo da non rovinare il muco delicato che la copre. Se si tocca una trota con la mano asciutta, un fungo bianco attacca il punto rimasto senza protezione. Anni prima, quando pescava su fiumi frequentati, con pescatori a monte e a valle di lui, a Nick è capitato moltissime volte di trovare trote morte, pelose per il fungo bianco, portate alla deriva contro una roccia oppure galleggianti col ventre in aria in qualche stagno. A Nick non piace pescare quando c’è altra gente sul fiume. A meno che siano della vostra comitiva, rovinano tutto.

 

La piena validità di ogni azione di Nick nel Gran fiume dei due cuori è come la danza perfetta del torero dinanzi al toro: entrare “in risonanza” col toro, muoversi ― il torero e il toro ― come se fossero un unico essere, è il solo modo per vincerlo degnamente: entrare nel mondo del toro, esser con lui in esso.

 

Ma le comitive, è chiaro, sono due: la comitiva di chi sa stare al mondo, con gli Esseri umani e con gli altri esseri, e la comitiva di chi non sa. Quelli che non sanno son quelli che non hanno voluto apprendere a farlo, che volontariamente ― fortuna e sfortuna non esistono nel mondo di Nick: o si vuol esser bravi, e prima o poi vi si riesce, o non lo si vuole, e prima o poi lo si ottiene ― si sono esclusi e messi fuori e contro l’ordine delle cose. Essi pertanto non sono semplicemente sgradevoli: sono pericolosi. Non solo per le trote, ma per il mondo intero. Lucidamente rinunciando al posto ch’è solo dell’Uomo nell’Universo, cioè a essere Dio ― poiché non vi è altro Dio che l’Uomo, nel mondo di Nick ― essi si son resi simili a demoni: se dispettosi o malvagi, se attaccabrighe o feroci, se pasticcioni o devastatori, dipende solo dalle circostanze. E dunque può ben accadere che Nick ― il cui saper stare al mondo lo rende capace di combattere con assoluta efficienza, invariabilmente fa di lui il vincitore, e soprattutto gli conferisce il diritto di uccidere (stavamo per scrivere la licenza, in fondo James Bond gli è fratello minore) ― si trovi un giorno a dover entrare in guerra contro di essi dopo aver visto e sentito, in Italia, cos’ha detto loro la Patria; e che in guerra, come a pesca ― nella piena capacità e legittimità, che il suo saper stare al mondo gli conferisce, di stabilire chi possa sopravvivere e chi debba morire ― uccida quanti più fascisti gli è possibile6. Poiché Nick è Adams: Nick, figlio di Adamo, è l’Uomo, custode dell’Universo. Mentre i fascisti sono l’altra comitiva: quelli che ucciderebbero anche la più piccola delle trote, pur di sentirsi non umani.

 

Ma se le cose stanno così, se Nick è così bravo, se la sua bravura, lungamente e duramente appresa, lo rende così infallibile nel capire e nel fare, se la sua battaglia come la sua pesca, sempre perfettamente condotte, sono anche sempre perfettamente vincenti, come mai al mondo vi sono ancora ― non trote, che a pieno titolo sono parte dell’ordine del mondo e lo saranno per sempre, finché vi sarà Nick a restituire al fiume le troppo piccole e a bagnarsi le mani prima di toccarle ― ma come mai al mondo vi sono ancora tanti cattivi pescatori, tanti che delle trote distruggono perfino le uova e mutano i fiumi in deserti d’acqua, come mai al mondo vi sono ancora tanti fascisti anche se Nick li ha sconfitti una volta per sempre sessantacinque anni fa? Come mai l’Overlook Hotel è ancora in piedi e Jack Torrance è ancora lì, dopo ottantacinque anni, a tramutare l’ordine in disordine come se Nick non fosse mai esistito? Peggio: com’è potuto accadere che Nick in persona sia stato talvolta un fascista, in Vietnam e in Irak?

 

E a questa terribile domanda ― per quanto sia doloroso entrare in conflitto con uno come Nick, che sul Gran fiume dai due cuori ci ha insegnato a stare al mondo, in Che ti dice la Patria? a riconoscere i fascisti d’allora e di oggi, e ne Il Vecchio e il Mare, se vogliamo, perfino a star al mondo da vecchi ― come possiamo non rammentare che questo racconto inizia in un luogo dove non c’è paese, ci son solo i binari e la campagna bruciata? Dei tredici negozi che si allineavano lungo la strada principale di Seney non vi è più traccia. Le fondamenta dell’albergo Maison House sorgono dal terreno. La pietra è scheggiata e spezzata dal fuoco. Questo è quanto rimane del paese di Seney. Perfino la superficie è scomparsa dal terreno nell’incendio. Dunque è accaduto qualcosa, prima, che ha devastato il punto di partenza, l’origine dell’avventura di Nick sul Gran fiume dai due cuori. Ma cosa? Perché proprio in un luogo di distruzione e di morte egli è venuto al mondo in cui poi ha imparato a stare così validamente? È per la sua nascita disgraziata, allora, che il tempo invariabilmente tramuta in fallimenti i suoi invariabili successi?

 

Tre racconti precedenti, ma anch’essi del 1925 La fine di qualcosa, Tre giorni di burrasca e Neve fra due paesi ― rispondono che no, Nick non è nato disgraziato. Niente può non andare nell’origine, nessuna storia può davvero iniziare in un paese distrutto o incendiato: Nick è nato, come ognuno nasce, perfettamente umano. Ma dopo, un giorno, ha fatto qualcosa per cercare di esserlo meno. Non per non esserlo più, o non saremmo qui a parlar con lui, ma per esser meno umano quel tanto che basta ― ammesso e non concesso che nella diminuzione di sé ci si possa fermare dove si vuol fermarsi ― a incardinarsi senza troppe pretese trasformative in un ordine del mondo che in sé è della Natura, non dell’Uomo7.

 

Anche il primo racconto, La fine di qualcosa, inizia con un paese che non c’è più: Hortons Bay, che molti anni fa era un paese rumoroso, è morto quando non vi furono più tronchi per far legna: le case dormitorio a un piano, la mensa, il magazzino della compagnia, gli uffici del mulino e il mulino stesso rimasero abbandonati in mezzo alla distesa di segatura che copriva il terreno paludoso presso la spiaggia della baia. Lo dicevamo poc’anzi: è come se non possa non esservi una distruzione, là dove la vicenda di Nick ― la vicenda umana ― ha origine. E tuttavia ne La fine di qualcosa, nonostante la rovina di Hortons Bay e del titolo stesso del racconto, l’inizio non è nella rovina, non è nella fine, ma nell’unico suo opposto possibile: nel rapporto uomo-donna. Con Nick, infatti, all’inizio c’è Marjorie. E Nick e Marjorie vanno a pescare assieme, e Marjorie non è meno brava di Nick, anzi: lo è almeno altrettanto. Sta sempre attenta alla canna, anche mentre parla. Le piace pescare. Le piace pescare con Nick. E non è brava solo nella pesca: dopo, Marjorie va a prendere nella barca una coperta; e poiché la brezza della sera porta il fumo del fuoco verso la punta, Marjorie distende la coperta tra il fuoco e il lago...

 

Ma allora, se Marjorie non è meno perfetta di Nick, perché Nick deve lasciarla? Non potrebbe restare con lei per sempre? Andar con lei a pescare sul Gran fiume dei due cuori? Con lei in Italia nel 1925 (con lei aveva parlato d’andare in Italia insieme, dirà Nick in Tre giorni di burrasca) a riconoscere l’orrore fascista? Non potrebbe vincere con lei, nel 1945, in modo che i fascisti non tornino mai più?

 

“Che cos’hai, insomma?” dice Marjorie.

 

“Non lo so.”

 

“Invece lo sai.”

 

“No, io no.”

 

“Avanti, dillo.”

 

Nick guarda la luna, che sale in alto sopra le colline.

 

“Non è più divertente” dice.

 

Ma ha paura di guardare Marjorie. E poi ammette: “Mi pare come se tutto dentro di me fosse andato al diavolo.”

 

Marjorie non sta lì a pregarlo. Perfetta anche in questo, semplicemente prende la barca e se ne va. Ma Nick non la chiama. Rimane disteso per molto tempo. È ancora disteso quando sente Bill giungere allo scoperto dal bosco. Sente Bill avvicinarsi al fuoco. Non si muove, non gli importa di Bill.

 

“Allora è andata via?” dice Bill.

 

“Sì” Nick dice, disteso, con la faccia sulla coperta.

 

“Successe scene?”

 

“No, nessuna scena.”

 

“Come ti senti?”

 

“Oh, va’ via, Bill! Va’ via per un po’.”

 

Bill sceglie un sandwich dal cestino della cena e si muove per andare a dare un’occhiata alle canne.

 

Sembra proprio che non vi sia alcun motivo per lasciare Marjorie. Niente non va, in lei. Niente importa a Nick di Bill. E Nick, dopo, è infelice per averla lasciata. Ma allora perché lasciarla? E perché “sostituirla” con Bill, perché pescare con lui invece che con Marjorie, se di Bill non gli importa?

 

Nel racconto successivo, Tre giorni di burrasca, Nick e Bill, soli in casa di Bill mentre il padre di Bill è a caccia, si ubriacano con estrema bravura, mantenendo perfettamente il controllo e vantandosi per questo con sé stessi e reciprocamente. Ma il whisky in qualche modo riesce lo stesso a farli star male, pur senza che se ne accorgano e che alcun segno esteriore lo manifesti, e star male li induce a parlare di quella che è stata, per entrambi, la fine di qualcosa: la cacciata di Marjorie dal mondo.

 

Dice Bill: “Hai fatto proprio bene.”

 

“A far cosa?” chiede Nick.

 

“A piantarla con quella faccenda di Marge” dice Bill.

 

“Credo anch’io” dice Nick.

 

“Era l’unica cosa da fare. Se non l’avessi fatto, adesso saresti a casa a cercar di far soldi per sposarti.”

 

Nick non dice niente.

 

“Quando un uomo si sposa è fregato per sempre” Bill continua. “Non gli resta altro. Niente. Un accidente di niente. È fregato. Forse è stato poco bello piantar tutto” Bill dice. “Ma si finisce sempre per prendere un’altra cotta e tutto si aggiusta. Va bene prender le cotte, ma non bisogna farsi rovinare dalle donne.”

 

“Sì” dice Nick.

 

Il whisky è passato, l’ha lasciato solo. Bill non è presente. Egli non è più seduto davanti al fuoco, non andrà a pescare il giorno dopo con Bill o suo padre o chi altro. Non è ubriaco: è tutto finito. Tutto quel che sa è che una volta aveva Marjorie e che ora l’ha perduta. Ora lei se n’è andata, è stato lui a mandarla via. Questo soltanto conta. Probabilmente mai più la rivedrà. Finito. È finito tutto.

 

(Anni dopo, in Neve fra due paesi, Nick si sposerà perfino. Con una certa Helen, in Europa. E tuttavia incredibilmente si rammaricherà, quando lei aspetterà un bambino e dovranno tornare negli States, di dover per questo interrompere l’amata consuetudine di recarsi a sciare con l’amico George...).

 

Non le donne, dunque, sono sparite dalla vita di Nick, quando egli ha lasciato Marjorie. Non con le donne è finito tutto, quella sera sul lago. È sparita la donna. È finita con la donna. E per non altro motivo che questo: che Marjorie, la donna, è la donna. E che con la donna non si può stare, al mondo.

 

Questa è la fine di Hortons Bay, questo l’incendio che rade al suolo Seney e con Seney perfino la superficie del suolo: imparare a stare al mondo, alla maniera di Nick e dell’America di Hemingway e del mondo ch’è il nostro che dall’America viene, semplicemente non si può, se c’è Marjorie. Non perché vi sia in Marjorie qualche difetto ― Bill pagherebbe per pescare come lei, George per sciare, e Helen, probabilmente, per saper posizionare una coperta in modo che niente disturbi, mentre si fa l’amore ― ma proprio perché Marjorie è donna. Solo perché è donna, e a maggior ragione quanto più perfettamente lo è. Poiché non tutte le donne ― poche, forse ― sono o son riuscite a rimanere così donne che sia impossibile star con loro, se si vuol stare al mondo e andare a pesca e a caccia di fascisti bene come lo fa Nick.

 

E allora non possiamo non domandarci: che cosa, nella donna, la rende così incompatibile con un saper del mondo e un saperci stare che pure è così valido che non solo non commette alcun errore, nel rapporto col mondo e con i viventi e con gli umani, ma soprattutto riconosce i fascisti per quel che sono?

 

Va bene prendere le cotte, dice Bill, ma non bisogna farsi rovinare dalle donne. Quel che porta alla “rovina”, dunque, non è stare con le donne, e nemmeno prendersi delle cotte per loro. È stare con la donna in un modo che va oltre lo stare con lei, che va oltre il prendersi una cotta per lei: è stare con una donna, e una donna con un uomo, in un modo che, per il suo essere oltre, non può non portare entrambi ― anche se la donna è brava, anche se pesca bene come Marjorie, anche se non commette alcun errore, né più né meno che il più in gamba degli uomini su un piano di realtà che non è compatibile con lo stare al mondo come vi stanno tutti gli altri esseri e tutte le cose; e dunque alla rovina, al fallimento di quell’esatto rapporto col mondo che è il solo modo di starci da uomini. Con tutto ciò che esiste al mondo, Nick, l’uomo, non solo può ma deve stare interamente e totalmente, con tutto sé stesso, se vuol essere un uomo, se vuol restare umano, se non vuole ― come quelli dell’altra comitiva ― render sé stesso non umano. Solo con la donna, fra tutte le creature e le cose del mondo, invece è il contrario: solo con la donna, per saper stare al mondo, bisogna stare non del tutto, non con tutto sé stesso, ma solo fino a un certo punto. E questo ― se addirittura non significa che quelli dell’altra comitiva ne sono entrati a far parte proprio per non aver saputo o voluto restare al di qua di quell’oltre, nel rapporto con la donna: ma che significhi ciò come si può ammetterlo, senza che il conflitto con Nick diventi totale? ― significa che Marjorie, la donna, per Nick, per Hemingway, per l’America di Hemingway e per noi che (anche) da quell’America veniamo, non è nel mondo, è estranea al mondo, introduce nel mondo un disordine che, per quanto sia doloroso perderla, non averla più ― poter prendersi d’ora in poi solo cotte ma non poter più essere con lei fino in fondo ― ciò nondimeno rende impossibile portarla nel mondo con sé senza perdere sé stessi.

 

La chiave che apre la porta della comprensione del delirio è proprio in quell’oltre, in quello star troppo intensamente con una donna di cui però non si sa descrivere la misura, di cui si può parlare solo vagamente, come di un troppo, appunto, ma senza poter dire esattamente quanto: andare oltre con una donna, cioè ― e d’altra parte soltanto con una donna questo può accadere, ché con tutto il resto, l’abbiamo visto, solo e proprio il massimo della sintonia è la perfezione ― significa entrare in una realtà di cui non son possibili misurazioni, dove non valgono le leggi della fisica deterministica (ma di un’altra fisica forse sì...) e dove quindi non si può che perdere il rapporto col mondo perché il mondo invece è misurabile, esattamente conoscibile, razionale, mentre con una donna, se si va oltre, si va nell’irrazionale. E nell’irrazionale non si corre il rischio di distrarsi e dimenticare, una volta o l’altra, di bagnar la mano nell’acqua prima di toccare una piccola trota? O forse no? O forse è vero assolutamente l’opposto? O forse proprio il continuo, ossessivo controllo razionale della realtà è il mostro che alla lunga ci opprime, ci soffoca, ci estranea dall’irrazionale nostra natura umana e prima o poi, per stanchezza e insofferenza, innesca e fa esplodere la ribellione del matto, fascista e nazista, di non esser più umani e sterminarli tutti?

 

Il fallimento, l’impotenza non tanto di Nick o di Hemingway quanto di un’intera Società maschile, sincronicamente e diacronicamente, non a riconoscere i fascisti, non a distinguersi da essi, non a combatterli e sconfiggerli (quasi) ogni volta, ma a far sì che non vi siano più, ha qui e non altrove la sua vera origine: nell’idea insensata che si possa essere uomini, umani, non dell’altra comitiva, solo se dall’interezza e completezza tenacemente perseguite dello stare al mondo l’uomo altrettanto tenacemente esclude l’interezza e completezza dello star con la donna (e la donna dello star con l’uomo) che dal mondo, come se l’uno per l’altra non ne fossero parte anch’essi, ineluttabilmente li porterebbero fuori. Come se solo l’umano, diverso da ogni altro vivente, trovasse sé stesso nel non esser pienamente sé stesso, nel non essere fin in fondo con sé stesso, l’uomo con la donna e la donna con l’uomo. Come se quel che ci rende animali umani ― il poter immaginare e realizzare di andare oltre ― sia invece un subdolo nemico da tener lontano e a bada l’uno nell’altro: l’uomo nella donna, la donna nell’uomo, e tutti contro tutti.

 

Dunque nessuna zanzara, se dipendesse da noi, Nick troverebbe in tenda al momento di coricarsi. Bravo com’è, non può aver commesso lo sbaglio di lasciarla entrare fissando male o troppo tardi la zanzariera. Eppure quella zanzara non è lì per un errore di Hemingway, ma per un motivo preciso: distrarre Nick ― e noi ― dal ricordo di Marjorie, dal pensiero, dal dolore, di averla cacciata dal mondo e perduta per sempre. Questo sì che non lo farebbe dormire, altro che la zanzara! La zanzara non avrebbe alcun potere sulla stanchezza di un ragazzo di sedici anni che ha marciato tutto il giorno nei boschi. Ma Hemingway non vuole che Nick ― e noi, che poche pagine fa abbiamo letto La fine di qualcosa ― pensiamo più a Marjorie, altrimenti... Altrimenti cosa? La pesca domani andrebbe male? Nick perderebbe la seconda guerra mondiale? L’America dovrebbe dire addio al suo posto nel mondo? O piuttosto entrerebbe in crisi, in Nick e in noi, il pensiero millenario ― che anche Nick come tanti si è rassegnato a far proprio dimezzandosi la complessità, la profondità, l’intensità, la bellezza della vita ― che per stare al mondo da umani, per non piombare nell’orrore fascista e nazista di non voler esserlo più, si debba riuscire... a non essere umani fin in fondo, fin in quell’irrazionale oltre che umani ci rende? E perciò si debba riuscire a tenere a bada, lontano da sé, l’altro essere umano, la donna per l’uomo, l’uomo per la donna, che è il solo al mondo con cui non si possa stare senza essere umani fino in fondo? E si debba rinunciare, dunque, la donna con l’uomo, l’uomo con la donna, ad attingere quell’assoluta estraneità, rispetto al fascismo e al nazismo di non voler più essere umani affatto, che senza guerra, senz’armi, senza fare una sola vittima, eradicherebbe una volta per sempre il fascismo e il nazismo dalla faccia della Terra? Nella notte, sul Gran fiume dai due cuori, Nick potrebbe capire tutto questo, se il dolore per la sparizione di Marjorie dal suo mondo, una buona volta, si facesse così intenso da non lasciarlo dormire. Ma Ernest Hemingway, che veglia su di lui, gli manda una zanzara da uccidere per poi addormentarsi tranquillo. E fa sparire la notte, dividendo la prima dalla seconda parte del Gran fiume dei due cuori, non per proteggere i bei sogni di Nick dai nostri sguardi indiscreti, ma per non dover ammettere che invece sono incubi. Gli incubi che versa la Patria ― la Terra dei Padri ― nelle orecchie degli uomini senza donne.

 

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Poi, certo, molta acqua è passata sotto i ponti sul Gran fiume dai due cuori. Si è capito che qualcosa non andava. Si è inventato perfino l’antieroe. Ma a chi va oltre, guarda caso ― un uomo con una donna, una donna con un uomo ― si continua ottusamente a minacciar sfracelli, se appena osano.

 

 

(Anticoli Corrado, 29 giugno – 8 luglio 2010)

 

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Note

 

[1] Dunque potremmo essere alla fine di maggio del 1925, quando la polizia britannica a Shangai sparò contro una dimostrazione di studenti nazionalisti e comunisti, o nel 1927, quando, dopo la rottura tra i nazionalisti e il partito comunista, i comunisti di Shanghai, di Canton e di Pechino furono massacrati dai nazionalisti. Per ovvi motivi, propendiamo per il 1925.

 

[2] Ernest Hemingway, I quarantanove racconti, traduzione di Giuseppe Trevisani, Arnoldo Mondadori editore, Milano, 1966. Il testo completo del racconto, Che ti dice la Patria? (in italiano nell’originale) ― pubblicato per la prima volta in New Republic il 18 maggio 1927, col titolo Italy, e il 14 ottobre 1927 nella raccolta Men Without Women (Uomini senza donne) cliccando qui.

 

[3] di Stanley Kubrick (Gran Bretagna, 1980), con Jack Nicholson, Shelley Duvall, Danny Lloyd e Scatman Crothers.

 

[4] Ernest Hemingway, I quarantanove racconti, traduzione di Giuseppe Trevisani, Arnoldo Mondadori editore, Milano, 1966. Il testo completo del racconto, Il gran fiume dai due cuori (Big two-hearted River) ― pubblicato per la prima volta in This Quarter nel maggio 1925, e nell’ottobre dello stesso anno nella raccolta Nel nostro tempo (In our time) cliccando qui.

 

[5] Un posto pulito, illuminato bene...

 

[6] Come “Nick” farà, sotto altro nome, in Per chi suona la campana.

 

[7] Non per niente l’uomo di Hemingway, antropologicamente, non esce mai dagli inizi dell’avventura della nostra specie: cacciatore e raccoglitore, non ha ancora neanche immaginato di poter trasformare il panorama del mondo; grande narratore, senza dubbio, ma del mondo com’è, non di mondi immaginari.

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L’immagine di sfondo di questa pagina, raffigurante piazza delle Ville ad Anticoli Corrado, è un dipinto dell’artista danese Viggo Rhode (1900-1976).

L’ha segnalata a ScuolAnticoli il signor Peter Holck. Rielaborazione grafica di Luigi Scialanca.

 

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