L'immagine di sfondo di questa pagina, raffigurante piazza delle Ville ad Anticoli Corrado, è un dipinto dell'artista danese Viggo Rhode (1900-1976). L'ha segnalata a ScuolAnticoli il signor Peter Holck. Rielaborazione grafica di Luigi Scialanca.

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La Terra vista da Anticoli Corrado

 

diario del Prof (scolastico e oltre)

 

febbraio 2010

 

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martedì 23 febbraio

 

L’Aquila, piazza Duomo.

L’Aquila, piazza Duomo.

 

L’Italia è l’Aquila, non Sanremo

 

 Domenica 21 febbraio 2010, i Cittadini de L’Aquila sono entrati nel centro storico, chiuso dal 6 aprile 2009, e hanno manifestato contro i grandi e piccoli sciacalli e avvoltoi che da quella notte se la ridono sul corpo della loro (e nostra) Città ancora vivo sotto le macerie.

 

Poi, dopo aver simbolicamente deposto mille chiavi, hanno intonato un canto che non abbiamo avuto la gioia di ascoltare con le nostre orecchie, ma che solo leggendolo ci ha fatto venire le lacrime agli occhi: L’Aquila bella mè / tu che me sci vist’ ’e nasce / tu che me sci vist’ ’e cresce / te vojo revedé (La Repubblica, lunedì 22 febbraio 2010).

 

Questo mentre a Sanremo, a quanto ci dicono (essendo liberi dalla tv non lo sappiamo per esperienza diretta, ma ci fidiamo di chi ce l’ha raccontato) otteneva la “vittoria” un motivetto clerico-fascista che pretenderebbe di esprimere ― secondo le nostre fonti ― l’amor di patria degli Italiani.

 

Se questo è vero si vergogni chi l’ha scritto, chi l’ha cantato e chi l’ha votato, per aver osato confondere col proprio odio i nostri sentimenti per l’Italia. E sappia che noi, invece ― e con noi gli Italiani degni di questo nome ― eleggiamo a nostro inno il Canto dei Cittadini de L’Aquila: Italia bella mè / tu che me sci vist’ ’e nasce / tu che me sci vist’ ’e cresce / te vojo revedé.

 

Poiché chi rappresenta gli Italiani e la loro sofferenza, oggi, sono i Cittadini de L’Aquila, non i televotanti telecomandati di Sanremo. Poiché l’Italia è l’Aquila, non Sanremo. E perché vogliamo rivederla, libera dagli sciacalli e dagli avvoltoi, e libera la rivedremo.

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sabato 20 febbraio

 

"Harvey", 1950, diretto da Henry Koster e interpretato da James Stewart.

Harvey, 1950, diretto da Henry Koster e interpretato da James Stewart.

 

La lingua di Harvey

 

 

(intervento del prof. Luigi Scialanca al convegno Dialetti a Confronto nei Paesi della Valle dell'Aniene, Anticoli, 20-21 febbraio 2010)

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Luogo in cui non si parla: questa è una definizione di scuola che molti, e non solo tra i bambini, troverebbero appropriata. A scuola si fa lezione, si sta attenti, si fa silenzio, si è interrogati, ecc. Non si parla. O, se si parla, lo si fa di nascosto. Parlare, essere in rapporto e comunicare verbalmente, a scuola ― come in chiesa e al cimitero ― è fare contrabbando. Ed è causa di rimorso. Perfino noi insegnanti ci sentiamo in colpa quando parliamo coi bambini. Ci sembra di rubare.

 

Nel primo anno di vita, invecemese più, mese meno ― ognuno canta liberamente, per sé e per gli altri, le immagini di volta in volta gioiose o malinconiche che crea. Esprime, anche se in una “lingua” povera e stereotipata, contenuti immensi, variopinti, personalissimi. In parte irripetibili. Ma poiché ― razionalmente ― non lo si comprende, ed egli stesso pare non comprendere né sé né gli altri, c’è chi teorizza che nel primo anno di vita non vi sia comunicazione. Mentre è vero l’opposto: il piccolo umano e chi è in rapporto con lui, non solo a gesti, non solo con le espressioni del viso, parlano di continuo ― comunicano verbalmente, bidirezionalmente, affetti e immagini ― e i suoni che emettono, benché reciprocamente incomprensibili, raggiungono e toccano e premono la pelle l’uno dell’altro in modo sempre diverso, e sempre più o meno piacevole o spiacevole. Che poi è tutto ciò che importa sapere da un comunicare che non è ancora informativo, ma che certo è del tutto affettivo. Tanto che a volte resta insuperato.

 

È un parlare che tutti abbiamo in comune da che mondo è mondo. Ed è tale il desiderio che suscita, e che cresce col rapporto, di capire ed essere capiti sempre più e meglio, che ogni bambino accetta di racchiudere ― e di costringere ― il libero canto del primo anno di vita entro le strutture (flessibili quanto si vuole, ma che all’irrazionale libertà creativa originaria non possono che risultare rigide, dure, fredde anche solo a sfiorarle) di un linguaggio verbale che invece è impossibile da modificare.

 

Mammasole non si può dire, non esiste, non c’è in alcuna lingua una parola che significhi il farsi il mondo luce nel volto della donna che riappare nel campo visivo del neonato. E come questa tante, infinite altre “parole”. Ci vogliono decenni perché la padronanza del linguaggio verbale arrivi ad approssimarsi, sia pur vagamente, al libero fluire delle immagini umane. E non a tutti è dato. E il fluire, in alcuni, si è fatto intanto d’immagini buie, mendaci, paurose. Talora irrimediabilmente.

 

La comunicazione umana ― intendiamoci ― rimane affettiva per tutta la vita. Veicola affetti, lo si voglia o no, perfino quando si chiede l’ora. Ma il linguaggio verbale, la cui utilità informativa è incommensurabile, affettivamente invece quasi ci ammutolisce, intorno al nostro primo compleanno, se e finché non arriviamo a usarlo così liberamente e così bene da ritrovare con esso il canto libero originario. Un po’ come un pennello, che non diventa uno strumento solo umano finché non si è in grado con esso di dipingere, oltre che di tracciare ― per esempio ― grandi caratteri su un’insegna.

 

Il bambino sperimenta così che il portentoso strumento, il linguaggio verbale (che portentoso è, non c’è dubbio) però è anche un padrone, e tanto più rozzo e incomprensivo quanto più il bambino è lontano dall’immaginare che possa essere ― benché sempre severo ― tuttavia un amico. E tanto più padrone, rozzo e incomprensivo, quanto più è usato come “cavallo di Troia” per la conquista e sottomissione della mente da parte di fedi, ideologie, istituzioni, strutture economiche fondate su “verità assolute” (e perfino mode e pratiche “diversive” da esse derivanti) che del libero, irrazionale fluire delle immagini umane non vogliono saperne. Lo chiamano pazzia.

 

A sei anni, poi, il bambino va a scuola. E lì spesso scopre che il padrone vuol esser soltanto “cavallo di Troia”. Soltanto insegnare. E che pretende ubbidienza.

 

Le difficoltà a cui i bambini vanno incontro nel farsi del linguaggio verbale un amico non hanno altra origine: esso è tanto meno un amico, per loro ― e perciò lo rifiutano a buon diritto, anche se a proprio discapito ― quanto più: 1, è parlato solo per informare; 2, essendo solo informativo, è anaffettivo; 3, pur essendo anaffettivo, e cioè disprezzando e odiando il bambino, tuttavia pretende ubbidienza; 4, vuol sottomettere a “verità” e a strutture logico-razionali immodificabili, e in tal modo fa male alla mente. (Il che non significa, beninteso, che non si possa insegnare facendo esattamente l’opposto...)

 

Tutto ciò vale anche per il dialetto? Solo fino a scuola. Salvo eccezioni più o meno encomiabili, a scuola ― come in chiesa ― il dialetto non entra. Ed è a scuola, dunque, che esso inizia ad acquisire, per altro senza merito, quell’aura di linguaggio segreto ― da piccoli esploratori e poi, via via, da iniziati, da affiliati a una comunità di parlanti speciali e specialmente solidali, e perfino da cospiratori ― che manterrà per tutta la vitaL’esclusione da scuola, dalla chiesa, dalle accademie, dai luoghi istituzionali ― nonché dallo sterminato bla bla massmediatico che impesta il mondo di razionalità per di più mediocrissima ― fa del dialetto un amico invisibile, un compagno segreto, un Harvey che presentiamo solo a chi ci piace, agli amici più intimi, o quanto meno a quelli con i quali desideriamo un rapporto di particolare fiducia, confidenza, “complicità”. Al punto che chi non conosce il dialetto, chi ha per madrelingua solo l’idioma ufficiale della nazione, finisce col sentirsi, più che un escluso, un diversamente abile ― anziché a scuola, al cimitero e nelle sedi istituzionali ― in tutti i contesti in cui desidererebbe con tutto il cuore trovarsi a suo agio con gli altri.

 

Guai, dunque, a insegnare il dialetto a scuola! Guai a farne una disciplina! Sì, invece, all’insegnante che ― laddove, è ovvio, un dialetto sopravvive ― accetta (se è “forestiero”) di farsene allievo dei propri allievi, e/o gli riconosce (se è “autoctono”) il prestigioso ruolo di “lingua franca” dei momenti ― belli e impossibili? ― in cui a scuola si vorrebbe (e la renderebbe enormemente più “produttiva”, per esprimerci nel linguaggio solo verbale e solo razionale della tirannia commerciale) essere davvero in rapporto, comunicare affettivamente, esporsi gli uni agli altri per quelli che si è, ritrovare quei canti liberi che ogni piccolo o grande potere, fin dal nostro primo anno di vita, sconcerta e intimidisce per mezzo delle sue lingue ufficiali sino a renderli per sempre nemici.

 

Con due avvertenze conclusive:

 

1. I bambini si accorgono se si cerca di servirsi delle loro “lingue franche” segrete come di ulteriori “cavalli di Troia”. E giustamente si trasformano in altrettanti cinesini: Io no capile, io no capile, scusale, scusale.

 

2. La “riscoperta” del dialetto come la concepiscono i leghìsti-nordìsti è anch’essa un tentativo di liberazione espressiva dell’irrazionale profondo. Ma di un irrazionale che ha avuto tutto il tempo di ammalarsi gravemente, negli anni successivi al primo.

 

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giovedì 18 febbraio

 

Antropologicamente Diverso

Antropologicamente diverso

 

Carne di Porco all’Italiana

 

La notte del 6 aprile 2009, mentre in tutta l’Italia centrale Noi spaventati fuggivamo dalle nostre case e telefonavamo con il cuore in gola ai nostri cari per assicurarci che stessero bene, Loro ridevano dentro al letto. Tre giorni dopo, mentre Noi con orrore cominciavamo a renderci conto che la portata della tragedia de L’Aquila superava la nostra immaginazione, Loro si rallegravano: Lì adesso ci fanno carne di porco, lì.

Giustamente, dunque, il Berlusconi va dicendo che Noi siamo antropologicamente diversi da Loro. Ha ragione, è vero, è proprio così.

Noi, infatti, non siamo capaci di parlar di Loro come di carne di porco. Eppure avremmo una gran voglia di chiamar Porci quelli che il 6 aprile ridevano nel letto e il 9 si preparavano a far carne di porco de L’Aquila e di Noi. Avremmo una gran voglia di chiamar Porci i sottosegretari che (non sentendo, vicino a gente di quella risma, la puzza di porcile che sentiremmo Noi anche solo a passar lì vicino per caso) sono evidentemente simili a Loro. Avremmo una gran voglia di chiamar Porco chi (poiché si sceglie sottosegretari di quella risma senza sentire quel che sentiamo Noi anche solo a vederli in fotografia) evidentemente è simile a Loro. E avremmo una gran voglia di chiamar Porci perfino Voi, tutti e 25 milioni quanti siete, che neanche in quindici anni siete riusciti a sentire il puzzo che Noi sentivamo già fortissimo dieci anni prima di quei quindici.

Ne avremmo una gran voglia, ma non possiamo farlo. Poiché sappiamo ancora, Noi, ciò che Voi vi siete lasciati strappare dal cuore e dalla testa: che un Essere Umano resta sempre un Essere Umano. Perfino Voi che votate per chi non sente puzza, vicino a individui che parlano di far carne di porco di Noi.

Dunque NO, non chiameremo porci né il Piscicelli né il Bertolaso né il Berlusconi né Voi. Però Vi diremo: Considerate, ve ne preghiamo, come avete ridotto Voi stessi per l’odio che portate a Noi. Considerate, ve ne preghiamo, che per l’odio che portate a Noi, avete messo Noi e Voi nelle grinfie di chi fa carne di porco non soltanto di Noi, ma anche di Voi. Come potete sopportarlo? Come potete dire non solo di Noi, ma di Voi stessi e dei vostri figli: “Va bene, che ci facciano Tutti carne di porco”? Tornate in Voi, ricordatevi che non siete porci, ma Esseri Umani come Noi. E aiutateci a liberarci di Loro.

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mercoledì 3 febbraio

 

Mickey Mouse, alias Topolino, nei panni dell'Apprendista Stregone in "Fantasia", di Walt Disney.

Mickey Mouse, alias Topolino, nei panni dellApprendista Stregone in Fantasia, di Walt Disney.

 

La “scienza” de La Repubblica

 

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 Con qualche giorno di ritardo ― è quasi impossibile star dietro ai mille spettacoli pirotecnici al giorno che i media allestiscono a uso e consumo del colto e dell’inclita ― non possiamo non occuparci dell’Umberto Galimberti de La Repubblica del 23 gennaio (La nostalgia dell’innocenza perduta che leggiamo nello sguardo dei cuccioli) e dell’Elena Dusi (Piccoli sogni crescono: assenti nei bimbi, si formano con l’età, con accompagnamento di Giulio Tononi) de La Repubblica del 25.

 

Inizio fulminante del Galimberti: siamo tutti matti. Infatti curiamo i nostri animali domestici “con attenzioni che forse neppure lontanamente riserviamo ai nostri simili” ― matti, quindi, perché nemmeno a un figlio vogliamo bene quanto al cane o al gatto di casa ― “oppure con una crudeltà che, se fosse praticata ai nostri simili, ci porterebbe subito, se non sempre dietro le sbarre, certamente in qualche casa di cura”: non solo matti, dunque, ma anche pericolosi. Alternative non ce ne sono, tertium non datur, non è previsto che qualcuno tratti sanamente Fido per quel che Fido è: il nostro comportamento nei confronti degli animali domestici certifica che siamo matti per tutte le ruote. Come, del resto, qualsiasi nostro comportamento, se diamo retta agli articoli e ai libri del Galimberti, fitti da anni come un’invasione di cavallette perenne: è quel che più tiene a dirci, sembrerebbe, e non perde occasione per farlo.

 

L’uomo non è un animale,” prosegue il nostro. E che cos’è, allora? Il Galimberti non si pronuncia. Segno che ci lascia liberi ― speriamo ― di ritenerci animali umani.

 

Gli uomini non hanno ‘istinti’”, aggiunge, ma “solo ‘pulsioni’, spinte generiche a meta indeterminata”. (Distinzione suffragata, secondo il nostro, non solo da Freud, ma anche da “una lunga tradizione” che vede Kant ― dimentico, supponiamo, di aver scritto la Critica della ragion pura ― a braccetto con l’idealista Platone, e l’ateo Nietzsche, convertitosi, far pappa e ciccia con il “santo” Tommaso d’Aquino). Ma che cos’è una “spinta generica a meta indeterminata”? Pietoso, il nostro spiega che, per esempio, “in presenza di una pulsione sessuale, l’uomo, a differenza dell’animale, può concedersi a tutte le perversioni oppure a una sublimazione delle pulsioni che mette capo al mondo dell’arte e della poesia”. Ecco, dunque, in che modo per il Galimberti “l’uomo non è un animale”: non lo è perché è un matto nato, appunto (“tutte le perversioni” vuol dire non solo la pedofilia ma anche la zoofilia e la necrofilia, e “concedersi” all’una o all’altra non sarebbe che una questione di gusti), straordinaria “scoperta” di cui si compiacciono da sempre le chiacchiere da bar senza che i chiacchieroni riscuotano per esse principeschi onorari dai media; e non è un animale, inoltre, perché l’uomo, se impara a controllarsi, può distillare le proprie “naturali” perversioni in arte e poesia occultandole così ai magistrati, agli psichiatri e perfino a sé stesso.

 

E come vede l’animale vero, questo non-animale-mostro che sarebbe l’uomo? “Vedere l’animale,” afferma il Galimberti citando Nietzsche, “fa male all’uomo” (in generale, come se tutti gli umani fossero così infelici da dover invidiare le bestie) poiché al confronto dell’animale egli si vanta della sua umanità e tuttavia guarda con invidia alla felicità di quello, giacché questo soltanto egli vuole, vivere come l’animale, né tediato né fra dolori; che lo vuole però invano, perché non lo vuole come l’animale”. Commenta il nostro: “La coscienza, infatti, espone l’uomo...,” ecc. Diremo dopo a cosa lo espone, ma prima notiamo che con quell’infatti il Galimberti ha stabilito (a spese proprie?, a spese di Nietzsche?) che è la coscienza che fa dell’uomo un non-animale-matto-infelice-di-esserlo-e-invidioso-dell’animale-vero. E perché proprio la coscienza? Poiché essa espone l’uomo alla ricerca di una felicità che non può escludere l’apertura al senso, essendo questa apertura ciò per cui l’uomo è uomo e non animale.

 

Ricapitioliamo. Fin qui abbiamo appreso: 1, che il nostro comportamento nei confronti del cane e del gatto dimostra che siamo matti; 2, che non siamo animali perché siamo (non solo pazzi, ma anche) perversi nati che (talvolta) riescono a non farne di tutti i colori dandosi all’arte; 3, che non siamo animali, inoltre, perché siamo consapevoli di noi stessi; 4, che non siamo animali, infine, perché cerchiamo la felicità e di dare un senso alle cose. Un essere umano, dunque, per il Galimberti, si distingue da un animale in quanto per natura matto e perverso, mostruoso, e tuttavia alla ricerca di felicità e di senso.

 

Ma il peggio (se possibile) deve ancora venire. A che cosa è destinata ad approdare, infatti, la ricerca di senso di questi poveri non-animali matti e mostruosi che saremmo noi? Al “tragico” della “vista della morte”, cioè della constatazione di essere “aperti per nulla”. E a questo punto ― è chiaro ― anche “la ricerca della felicità” va a farsi benedire: quale felicità è mai possibile a chi è certo di dover decedere e (tra una perversione e l’altra) non riesce a pensare che alla morte? Lo diceva anche lo HegelLo diceva anche lo Hegel: “L’essere delle cose finite, come tale, sta nell’avere per loro essere dentro di sé il germe del perire: l’ora della loro nascita è l’ora della loro morte” (G. W. F. Hegel, La scienza della logica). Pazzi e mostri, costretti dalla coscienza ad andar in cerca di felicità e di senso, scopriamo invece che tutto muore, che niente perciò ha un senso e che non possiamo che essere infelici: ecco perché invidiamo gli animali ed ecco (presumibilmente) perché infieriamo su di essi con torture per le quali meriteremmo la galera o il manicomio, oppure ― “sublimando” le torture ― li trattiamo meglio dei nostri stessi figli. Tutto qui. Non lo diceva anche la Cesira, al mercato, cominciando sempre il suo dire ― a chiunque si rivolgesse ― con un fatidico Eh, signora mia...? Certo. Solo che la Cesira, dal dirlo, non ricavava altro emolumento che la soddisfazione di udir sé stessa ripetere quel che già dicevano sua madre e sua nonna prima di lei.

 

Un quadro sconfortante? Niente paura, il nostro ha pronta la soluzione: dobbiamo coltivare in noi “un’altra soggettività più profonda e decisiva: (...) quella che ci prevede come funzionari della specie per la sua e non per la nostra economia. (...) Se interiorizzassimo questo sguardo dell’animale, deporremmo le pretese esagerate dell’io, limiteremmo le nostre ansie di potere, i nostri eccessi di aggressività, la futilità delle nostre ire, delle nostre violenze, delle nostre guerre. (...) Smetteremmo di dire esageratamente ‘io’ e incominceremmo quella pratica del ‘noi’ che vuol dire solidarietà e amore”.

 

Bello. Di sinistra. Cristianamente di sinistra. Peccato, però, che invece sia un po’ nazista. Il matto-e-perverso-non-animale-insensato-e-infelice, intima il Galimberti, si tramuti in animale e si annulli (non in una chiesa o in un partito, ma) nella specie: niente amore da umano a umano, che non esiste, niente solidarietà fondata sull’empatia, cioè sull’immaginazione umana, che non è possibile, niente ricerca umana di felicità e di senso, che non scopre e non trova che morte. Ma la “solidarietà” e l’“amore” da formiche di esseri morti a sé stessi per non esistere che in quanto specie. Non è possibile, naturalmente, ma quel che conta è farci credere che lo sia, così ci sentiamo in colpa perché non ci riusciamo.

 

Cosa resta, a questo punto, del Galimberti? Nient’altro che la citazione da Nietzsche, per la quale (pur emendandola) lo ringraziamo: “Vedere l’animale fa male all’uomo (che aliena la sua umanità cedendo a ideologie che per dominarlo lo convincono di essere per natura matto e mostruoso) poiché al confronto dell’animale egli non riesce più a vantarsi della propria alienata umanità e quindi guarda con invidia alla felicità di quello; giacché questo soltanto egli vuole, vivere essendo sé stesso, come l’animale; che lo vuole però invano, se a differenza dell’animale si lascia insegnare che in quanto sé stesso fa orrore”.

 

Non passano quarantott’ore e a battere il ferro finch’è caldo arriva la Elena Dusi: “Anche a sognare si impara,” ci informa. “Le trame piene di azioni ed emozioni non sono affare da bambini, ma si costruiscono solo crescendo. Nonostante quel che s’immagina osservando le smorfie o i movimenti del corpo, le notti dei piccoli sono calme e placide come specchi d’acqua senza vento. (...) Prima di elaborare scene ricche di movimenti, colori, interazioni ed emozioni, secondo i ricercatori Giulio Tononi e Yuval Nir, del dipartimento di psichiatria dell’università del Wisconsin a Madison, un bambino deve aver sviluppato le proprie capacità cognitive e arricchito la propria immaginazione. E questo avverrebbe attorno ai sette anni di età. (...) Fino a cinque anni le scene sono fisse e i protagonisti immobili. (...) Le emozioni sono assenti. (...) E l’incapacità dei bambini di sognare scene complesse fa pensare a Tononi e Nir che neanche gli animali sappiano elaborare trame di caccia, corsa o avventurosi salti fra gli alberi”.

 

Ma come? È un caso di omonimia o è la medesima Elena Dusi che nell’aprile del 2009 scrisse (sempre su La Repubblica) che un’indagine sulle pecore aveva “dimostrato” che il feto umano sogna già nell’utero materno? Nonché la medesima Elena Dusi che poi, nel luglio, aggiunse (citando sempre le pecore) che il feto “sente” i rumori, ne conserva memoria e in base a tali suoi “ricordi” sogna alla grande?

 

Difficile capirci qualcosa. Prima uno “studio” “dimostra” (su un animale non umano) che il feto (umano) sogna. Poi un altro “studio” “dimostra” che il neonato e il bambino invece non sognano, “proprio come gli animali non umani”... E le pecore, che fine hanno fatto? La pecora sogna, il feto umano pure, gli altri animali non sognano e il bambino e il neonato nemmeno?! Elena! Sei connessa?

 

In realtà siamo sempre lì. Agli sproloqui della Cesira al mercato e del Cesiro in oratorio. Tu, mamma, e tu, papà, che udendo gemere nel sonno la bimba o il bimbo accorrete premurosi al lettino e con una carezza e un bacetto cercate ingenuamente di indirizzare i loro incubi verso immagini più liete, la prossima volta restatevene a lettone e lasciateli gemere fino a domani: tanto, fino a sette anni non ci sono emozioni, nei sogni dei piccoli umani. E perché non ci sono? Perché i piccoli umani... non sono umani. Sono come gli animali non umani (tranne le pecore) e dunque non sognano né tanto meno hanno sentimenti, finché i genitori, i nonni, le monache, i preti e i maestri non gli insegnano a essere umani.

 

E così, dopo che il don Cesiro Galimberti del 23 ci ha persuasi (se ce la beviamo) che forse non siamo animali, d’accordo, ma solo perché siamo matti, mostruosi, infelici e insensati, e dunque è meglio, per il bene della specie, che animali ci sbrighiamo a diventarlo, ecco la donna Cesira Elena Dusi del 25 che ci rassicura (se ci beviamo pure lei) che invece nasciamo animali, tranquilli (dopo che siamo stati umani da feti per imitare le pecore e far contento il Ratzinger) e che animali restiamo sino a cinque–sette anni, quando finalmente i duri sforzi tenaci degli adulti (validamente addestrati da don Cesiro e donna Cesira) riescono a cavare, dalle rape che l’evoluzione ha fatto, gli umani che l’evoluzione non è riuscita a fare. In qual modo gli adulti pervengano a un così stupefacente miracolo, i Cesiri non lo spiegano. Ma ci sembra di poter concludere ― secondo la millenaria Cesirologia che anche in noi fu inculcata da piccoli ― che ci vogliano amore e timore. E che il timore, finché “il bambino non ha sviluppato le proprie capacità cognitive e arricchito la propria immaginazione,” non si possa ottenere che con urlacci e busse.

 

Che fra il sogno e il racconto del sogno, non solo fino ai cinque-sette anni di età ma per tutta la vita, qualcosa possa andar lost in translation, è un’ingenuità di noi eterni bambini che non può neanche sfiorare le menti più che adulte dei Cesiri. Ma, a quanto sembra, neanche quelle dei due illustri scienziati e psichiatri e ricercatori dell’Università del Wisconsin. Il primo dei quali ― il professor Giulio Tononi ― intervistato dalla Elena Dusi, non solo non la informa (non sa?) che il sogno e la sua narrazione cosciente (l’irrazionale e la coscienza) non sono la stessa cosa almeno come non lo sono una sinfonia e la sua descrizione verbale, ma addirittura le racconta che “durante l’attività onirica (...) il cervello genera un intero universo di esperienze coscienti. E questo pur essendo disconnesso dalla realtà esterna”. La notizia è così straordinaria ― tradotto, significa che nel sogno il cervello è cosciente pur non essendo cosciente ― che la Dusi, non ben sicura d’aver capito, giustamente (per una volta) se la fa ripetere: “Nel sogno,” domanda, “il cervello non risponde agli stimoli ma la coscienza funziona?” “Esatto,” risponde il Tononi, “e ancora non sappiamo perché e in che modo questo avvenga. Abbiamo sperimentato che mantenendo le palpebre aperte in una persona che dorme e proiettando un film, le immagini vengono percepite dagli occhi e sono trasportate dai nervi ottici fino alla corteccia cerebrale. Ma lì si bloccano. Perché?” A noi, ingenui eterni bambini e quindi non umani, vien da rispondere che gli occhi di chi dorme non vedono il film proiettato sulle pupille perché chi dorme, appunto, non è cosciente. Ma questo non può soddisfare i veri adulti come il professor Tononi. Il professor Tononi (se il resoconto dell’intervista è fedele) vuole che chi dorme, benché non cosciente del film proiettatogli sulle pupille, sia al tempo stesso cosciente del sogno che intanto sta facendo. Ma perché mai vuoi qualcosa di tanto contraddittorio, professor Tononi? Forse perché ― se il sogno non ha (come in effetti non ha) alcun bisogno della coscienza ― si dissolverebbe la tua “scoperta” che non si può sognare finché non si è capaci di narrazioni coscienti? E allora, quel ch’è peggio, si dissolverebbe anche il tuo commovente ricordo della “saggezza” della Cesira e del don Cesiro che quand’eri bimbo ti diedero a bere che un piccolo umano è niente, finché non gli è dato il Verbo?

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