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Ecco qualche bella lettura!

 

Intelligenza Artificiale

 

di Brian Aldiss

 

(1925 - vivente)

 

Queste immagini sono tratte dal film Intelligenza Artificiale, diretto nel 2001 da Steven Spielberg sulla base di una sceneggiatura di Stanley Kubrick, con Haley Joel Osment nella parte di David, Frances O’Connor in quella di sua madre Monica, Jude Law in quella di Gigolo Joe e William Hurt in quella del professor Hobby.

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Supertoys che durano tutta l’estate

 

Nel giardino della signora Swinton era sempre estate. I delicati alberi di mandorlo che gli facevano ombra erano sempre in fiore. Monica Swinton staccò una rosa color dello zafferano e la mostrò a David.

"Non è incantevole?" gli chiese.

David la guardò e sorrise senza rispondere. Afferrò il fiore e corse lungo il prato, per scomparire dietro il canile, dove era in attesa il tosaerba-coltivatore, pronto a potare, spazzare e accorrere dove era necessario. La signora Swinton rimase sola sull’impeccabile sentiero coperto di ghiaia di plastica.

"Eppure, ho sempre cercato di volergli bene..." pensò.

Quando si decise a seguire il bambino, lo trovò in cortile, intento a spingere la rosa sull’acqua della piscina, come se fosse una barca. Era rosso in faccia, stava in mezzo all’acqua, e non s’era tolto i sandali.

"David, caro, devi sempre essere così insopportabile? Vieni subito dentro a cambiarti le calze e le scarpe."

Il bambino la seguì fino in casa, senza protestare, con i capelli neri che sobbalzavano all’altezza del suo fianco. A tre anni d’età, non aveva più paura dell’asciugatore ultrasonico in cucina. Ma prima che la madre potesse portargli un paio di pantofole, si divincolò e sparì nel silenzio della casa.

Probabilmente era andato a cercare Teddy.

Monica Swinton, ventinovenne, figura aggraziata e occhi tristi, andò a sedere in soggiorno, accomodando con eleganza le gambe. All’inizio sedeva e pensava, presto si limitò a sedere. Il tempo era in agguato alle sue spalle con il sorriso maniaco che riserva ai bambini, ai pazzi e alle mogli i cui mariti sono fuori, a cambiare il mondo in meglio.

Quasi per riflesso, allungò la mano e cambio la lunghezza d’onda della finestra. Il giardino svanì; al suo posto comparve un pezzo del mondo esterno, pieno di gente che l’affollava, di cartelloni ed edifici, ma lei tenne il rumore al minimo. Era sola come prima. Un mondo sovraffollato è il posto ideale per essere soli.

 

I direttori della Synthank consumavano una pantagruelica colazione per festeggiare il varo del loro nuovo prodotto. Alcuni di loro portavano sulla faccia le maschere di plastica popolari in quel momento. Tutti erano elegantemente sottili, nonostante il ricco cibo e le bevande che ingurgitavano. Anche le loro mogli erano elegantemente sottili, nonostante il cibo e le bevande che consumavano. Una generazione più vecchia e meno sofisticata li avrebbe etichettati come i VIP, a parte gli occhi. Occhi freddi, calcolatori.

Henry Swinton, direttore generale della Synthank, si guardò attorno prima di iniziare il discorso.

"Mi dispiace che tua moglie non sia con noi ad ascoltarti," disse il suo vicino.

"Monica preferisce stare a casa, a pensare alle cose belle," rispose Swinton, senza perdere il sorriso.

"Una così bella donna non può che pensare alle cose belle," continuò il vicino.

"Togliti dalla testa mia moglie, porco!" pensò Swinton, anche ora senza smettere di sorridere.

Si alzò tra gli applausi, per tenere il discorso.

Dopo un paio di battute scherzose, venne alla parte importante: "La giornata di oggi segna un vero passo in avanti per la compagnia. Sono passati quasi dieci anni da quando abbiamo messo sul mercato mondiale le nostre forme di vita sintetiche. Tutti sapete che sono state un enorme successo, soprattutto i dinosauri in miniatura. Ma nessuna di esse era intelligente."

Continuò: "È paradossale che oggigiorno possiamo creare la vita, ma non l’intelligenza. Il nostro primo prodotto, il Solitario di Cresswell, è quello che vende di più, ed è anche il più stupido."

Tutti risero.

"Anche se i tre quarti del nostro mondo sovraffollato soffrono la fame, noi qui abbiamo la fortuna di avere a disposizione più del necessario, grazie al controllo della popolazione. Il nostro problema è oggi l’obesità, non la denutrizione. Penso che a questo tavolo non ci sia nessuno che non abbia il suo Solitario che lavora per lui nell’intestino tenue, un parassita perfettamente sicuro che permette al portatore di mangiare fino al doppio senza dover rinunciare alla propria figura. Vero?"

Tutti mossero la testa in segno affermativo.

"I nostri dinosauri in miniatura sono quasi altrettanto stupidi. Ma oggi lanciamo una forma di vita sintetica intelligente: un cameriere formato naturale. Non solo possiede l’intelligenza, ma ne possiede una quantità controllata. Pensiamo che la gente avrebbe paura di una creatura con un cervello umano. Il nostro servitore ha un piccolo computer nel cranio."

Continuò: "Sul mercato ci sono già meccanismi con minicomputer per cervello: cose di plastica senza vita, Supertoys, superbalocchi, ma finalmente abbiamo trovato il modo di collegare i circuiti del computer con la carne sintetica."

 

David sedeva accanto alla lunga finestra della stanza dei bambini, e lottava con carta e penna. Alla fine terminò di scrivere e cominciò a far rotolare la penna lungo lo scrittoio inclinato.

"Teddy!" esclamò.

L’orsacchiotto era sul letto accanto alla parete, sotto un libro con le figure mobili e un grosso soldatino di plastica. La voce del padrone lo attivò, e l’orsacchiotto si levò a sedere.

"Teddy, non riesco a pensare quello che devo scrivere!"

L’orso scese dal letto, camminò rigidamente fino a lui e gli abbracciò la gamba. David lo prese e lo mise a sedere sullo scrittoio.

"Che cosa hai detto, finora?"

"Ho detto..." Sollevò la lettera e la fissò con grande attenzione. "Ho detto: ‘Cara Mamma, spero che adesso tu stai bene. Ti voglio bene...’"

Scese il silenzio, e infine l’orso disse: "Mi sembra che vada bene. Va’ sotto a dargliela."

Scese di nuovo il silenzio.

"Non va bene. Lei non capirà."

All’interno dell’orso, un piccolo computer esaminò il programma delle possibili risposte: "Perché non lo riscrivi con i colori?"

David era andato a fissare fuori della finestra: "Teddy, sai cosa mi chiedevo? Come puoi distinguere le cose vere da quelle che non lo sono?"

L’orso esaminò le alternative. Infine disse: "Le cose vere sono buone."

"Mi chiedo se il tempo sia buono. Non credo che mamma gli voglia bene. L’altro giorno, un mucchio di giorni fa, ha detto che il tempo se la lasciava alle spalle. Il tempo è vero, Teddy?"

"Il tempo lo misurano gli orologi. Gli orologi sono veri. La mamma ne ha, perciò deve volergli bene. Ha anche un orologio al polso, insieme al telefono."

David aveva cominciato a disegnare un Jumbo jet sul tondo della lettera. "Tu e io siamo veri, Teddy, giusto?"

L’orsacchiotto di peluche lo guardò senza batter ciglio: "Tu e io siamo veri, David," asserì. Era specializzato in consolazioni.

 

Monica camminava avanti e indietro nella stanza, lentamente. Era quasi l’ora del recapito telefonico della posta. Compose sul telefonino da polso il numero della sua casella postale, ma non le arrivò niente. Doveva aspettare ancora qualche minuto.

Poteva tornare al quadro che stava dipingendo. Oppure poteva telefonare a un’amica. O poteva aspettare che Henry rientrasse a casa. Oppure poteva salire da David per giocare con lui.

Raggiunse il corridoio e si fermò davanti alla scala.

"David!"

Non ebbe risposta. Chiamò una seconda volta e una terza.

"Teddy!" esclamò, più seccamente.

"Sì, mamma!" Dopo un istante, in cima alle scale comparve la testa di Teddy, coperta di peluche dorata.

"David è nella sua stanza, Teddy?"

"David è andato in giardino, mamma."

"Vieni subito giù, Teddy!"

Impassibile in fondo alla scala, Monica lo guardò scendere faticosamente di scalino in scalino sulle zampe tozze. Quando raggiunse il fondo, lo raccolse e lo portò in soggiorno. L’orsacchiotto rimase immobile tra le sue braccia. Si coglieva soltanto una debolissima vibrazione del motore.

"Sta’ qui, Teddy, ti devo parlare." Lo posò sul ripiano del tavolino, e l’orsacchiotto rimase fermo come lei gli aveva ordinato, con le braccia alzate e aperte nell’eterno gesto dell’abbraccio.

"Teddy," chiese Monica, "è stato David a ordinarti di dirmi che era andato in giardino?"

I circuiti del cervello dell’orsacchiotto erano troppo semplici per qualsiasi sotterfugio.

"Sì, mamma."

"Allora mi hai detto una bugia."

"Sì, mamma."

"Piantala di chiamarmi mamma! Perché David mi evita? Non ha paura di me, vero?"

"No. Ti vuole bene."

"Perché non riusciamo a comunicare?"

"Perché David è al piano di sopra."

La risposta la fece rimanere di stucco. Perché perdere tempo a discutere con quella macchina? Perché non andare semplicemente al piano di sopra, prendere David tra le braccia e parlargli, come una madre amorosa dovrebbe fare col figlio che le vuole bene? Sentì il peso del silenzio che gravava nella casa, con un diverso tipo di silenzio proveniente da ciascuna stanza. Sul pianerottolo superiore, qualcosa si muoveva in grande silenzio: David, che cercava di nasconderei da lei...

 

Henry era ormai arrivato alla fine del discorso. Gli invitati lo ascoltavano attentamente, e così i giornalisti che si affollavano lungo due pareti della camera dei banchetti, registrando le sue parole e facendogli delle riprese di tanto in tanto.

"Il nostro servitore sarà, sotto molti aspetti, un prodotto del computer. Senza computer non avremmo mai potuto risolvere la complessa biochimica della carne sintetica. Anche il servitore sarà un’estensione del computer, perché avrà nella testa un computer: un computer microminiaturizzato capace di occuparsi di quasi tutte le situazioni che può incontrare nella casa. Con alcune riserve, naturalmente..."

A queste parole si levarono le risate di coloro che ascoltavano: molti dei presenti conoscevano il dibattito scoppiato nel consiglio di amministrazione della Synthank prima che si arrivasse finalmente alla decisione che il servitore fosse asessuato, sotto la sua uniforme impeccabile.

"Fra tutti i trionfi della nostra civiltà, certo, e con i gravi problemi della sovrappopolazione, è triste pensare che molti milioni di persone soffrono sempre più di solitudine e di isolamento. Il nostro servitore sarà per loro una vera salvezza: risponderà sempre, e neppure la più sciocca conversazione riuscirà mai ad annoiarlo."

Continuò: "Per il futuro pensiamo di produrre altri modelli, sia maschili sia femminili, e alcuni senza le limitazioni del primo, vi prometto! E poi c’è il nostro progetto più avanzato, veri esseri bioelettrici. Non solo possederanno i loro computer programmabili singolarmente: saranno collegati con la rete mondiale dei dati. Così ciascuno potrà avere nella propria casa l’equivalente di un Einstein. La solitudine sarà allora bandita per sempre!"

Sedette, tra gli applausi entusiastici. Anche il servitore sintetico, seduto al tavolo e vestito di una livrea priva di ostentazione, applaudiva soddisfatto.

 

Trascinando il proprio zainetto, David girò attorno al fianco della casa. Salì sulla panchina ornamentale sotto la finestra del soggiorno e guardò cautamente all’interno.

La madre era ferma in mezzo alla stanza. Aveva la faccia impenetrabile; la sua mancanza di espressione spaventò il bambino. La guardò affascinato. Non si mosse; la madre non si mosse. Il tempo sembrava essersi fermato, come si era fermato nel giardino. Teddy si guardò attorno, vide David, scese dal tavolo e andò alla finestra. Procedendo a tentoni con le zampe, alla fine riuscì ad aprirla.

Orso e bambino si scambiarono un’occhiata.

"Io non valgo niente, Teddy. Scappiamo!"

"Sei un bambino molto bravo. La tua mamma ti vuole bene."

Lentamente, David scosse la testa. "Se lei mi vuole bene, allora perché non posso parlarle?"

"Non comportarti come uno sciocco, David. La mamma si sente sola. Per questo ha te."

"Ma lei ha il babbo. Io ho soltanto te e mi sento solo."

Teddy gli diede una pacca amichevole sulla testa: "Se ti senti così male, faresti meglio a tornare dallo psichiatra..."

"Odio quel vecchio psichiatra: mi fa sentire come se non fossi vero." Si lanciò di corsa lungo il prato; l’orso saltò fuori dalla finestra e lo seguì con tutta la velocità che gli permettevano le zampe tozze.

Monica Swinton era nella stanza dei bambini. Chiamò una volta il figlio e poi s’interruppe, indecisa. Non si udiva alcun rumore.

Sulla piccola scrivania c’erano alcune matite colorate. Obbedendo a un impulso improvviso, la donna si avvicinò e sollevò il ripiano. All’interno c’erano decine di foglietti di carta. Molti erano scritti a colori, nella goffa calligrafìa di David, con ciascuna lettera di colore diverso da quella precedente. Nessuno dei messaggi era finito.

"Mia cara mamma, cosa pensi veramente, mi ami quanto..."

"Cara mamma, io voglio bene a te e a papà e il sole splende..."

"Cara cara mamma, Teddy mi aiuta a scriverti. Amo te e Teddy..."

"Cara mamma, sono il tuo primo e solo bambino e ti amo tanto che a volte..."

"Cara mamma, sei davvero la mia mamma e odio Teddy..."

"Cara mamma, prova a dire quanto ti amo..."

"Cara mamma, il tuo bambino piccolo sono io e non Teddy e ti amo ma Teddy..."

"Cara mamma, questa è una lettera che ti scrivo per dirti quanto, per dirti quanto tanto tanto..."

Monica lasciò cadere i foglietti di carta e scoppiò a piangere. Nei loro colori allegri e disposte senza cura, le lettere si allargarono a ventaglio e si posarono a terra.

 

Quando Henry Swinton prese il treno espresso che lo portava a casa, era al settimo cielo; per tutto il tragitto, di tanto in tanto disse una parola al servitore sintetico che portava a casa con sé. Il servitore gli rispose educatamente e puntualmente, anche se le sue risposte non erano sempre del tutto rilevanti in base agli standard umani.

Gli Swinton vivevano in uno dei più eleganti isolati cittadini, mezzo chilometro al di sopra del terreno. Chiuso tra altri appartamenti, il loro non aveva finestre che davano direttamente sulla via; nessuno voleva vedere il mondo esterno sovraffollato. Henry aprì la porta accostando l’occhio allo scanner del riconoscimento retinico ed entrò, seguito dal servitore.

Immediatamente venne circondato dall’amichevole illusione del giardino immerso in un’estate eterna. Era stupefacente come il Whologramma riuscisse a creare miracoli, in uno spazio limitato. Dietro le rose e il prato si scorgeva la loro casa: l’inganno era completo. Una grande villa georgiana pareva dargli il benvenuto.

"Ti piace?"chiese al servitore.

"Le rose talvolta soffrono della mosca nera."

"Queste rose sono prive di imperfezioni. Hanno la garanzia."

"È sempre consigliabile acquistare merce con la garanzia, anche se costa un po’ di più."

"Grazie dell’informazione," rispose Henry, asciutto. Le forme di vita sintetiche avevano meno di dieci anni, i vecchi androidi meccanici ne avevano meno di sedici; i difetti dei loro sistemi venivano ancora eliminati uno alla volta, anno dopo anno.

Aprì la porta e chiamò Monica.

Lei arrivò immediatamente dal soggiorno e lo abbracciò, baciandolo con affetto sulle guance e sulle labbra.

Henry rimase stupito.

Tirando indietro la testa per guardarla in faccia, vide che sembrava irradiare luce e bellezza. Da mesi non la vedeva così emozionata. Istintivamente, la strinse più forte.

"Cara, cos’è successo?"

"Henry, Henry... Oh, caro, ero così disperata... Ma ho scaricato la posta del pomeriggio e... non ci crederai! Oh, è meraviglioso!"

"Per l’amor di Dio, donna, cos’è meraviglioso?"

Poi scorse l’intestazione della fotocopia che lei aveva in mano, ancora umida dopo essere uscita dal ricevitore: MINISTERO DELLA POPOLAZIONE. Per lo shock e la speranza, tutto il colore gli fuggì dal volto.

"Monica... Oh... non dirmi che abbiamo vinto l’estrazione!"

"Sì, caro, abbiamo vinto la lotteria di questa settimana per la maternità! Possiamo concepire subito un figlio!"

Henry lanciò un grido di gioia. Abbracciò Monica e prese a ballare con lei per tutta la stanza.

La pressione demografica era talmente alta, che la riproduzione doveva essere strettamente controllata. La nascita di un figlio richiedeva l’autorizzazione dello Stato; Henry e Monica attendevano da quattro anni quel momento. Con frasi incoerenti, gridarono la loro gioia.

Alla fine si fermarono, respirando a fatica, e si abbracciarono in mezzo alla stanza, per ridere della loro felicità.Quando era scesa dalla stanza dei bambini, Monica aveva deopacizzato le finestre, cosicché adesso si scorgeva il giardino all’esterno della casa. La luce del sole artificiale si stendeva lunga e dorata sul prato... e David e Teddy li guardavano dalla finestra.

Vedendo la loro faccia, Henry e la moglie divennero improvvisamente seri.

"Che cosa ne facciamo di quelli?" chiese Henry.

"Teddy non dà problemi. Funziona abbastanza bene."

"David non funziona?"

"Il centro di comunicazione verbale gli dà ancora problemi. Penso che dovrà tornare di nuovo in fabbrica."

"Va bene. Vedremo come si comporterà prima della nascita del bambino. Questo mi ricorda che ho una sorpresa per te: un aiuto, proprio adesso che ti servirà. Vieni in corridoio a vedere cosa ho portato."

Quando i due adulti uscirono dalla stanza, bambino e orso si misero a sedere sotto le rose.

"Teddy... penso che babbo e mamma siano veri, no?"

Teddy rispose: "Mi fai certe domande così stupide, David. Nessuno sa cosa significhi realmente la parola vero. Torniamo dentro."

"Prima voglio prendere un’altra rosa!" Staccò un fiore dal vivo colore rosso e lo portò con sé nella casa. Poteva metterla sul cuscino quando andava a dormire. La sua bellezza e la sua morbidezza gli ricordavano la mamma.

 

I Supertoys quando arriva l’inverno

 

Nel giardino della signora Swinton non sempre era estate. Era uscita nella città affollata, accompagnata da David e da Teddy, e aveva comprato il disco di realtà virtuale Inverno in Europa. Ora i mandorli avevano perso le foglie e i loro rami erano coperti di neve. Finché il disco era inserito, la neve non si sarebbe sciolta sui rami.

E neppure sulle false pareti e sulle false vetrate della simulazione domestica degli Swinton. La neve sarebbe rimasta per sempre sui davanzali delle finestre, i ghiaccioli che pendevano dalla grondaia non si sarebbero sciolti,finché il disco era inserito.

E finché il disco era inserito, anche il cielo invernale sarebbe sempre rimasto lo stesso.

David e Teddy giocavano nella piscina decorativa, che adesso era coperta di ghiaccio. Il gioco era semplice. Si lasciavano scivolare, partendo da sponde opposte, e si passavano vicino, senza colpirsi. La cosa li faceva ridere tutte le volte.

"Questa volta ti ho quasi colpito, Teddy!" esclamò David.

Monica li guardava dalla finestra del soggiorno. Annoiata dalle loro azioni ripetitive, spense la finestra e si allontanò. Il servitore sintetico zoppicò verso di lei, uscendo dalla sua nicchia, e le chiese con serietà se avesse bisogno di qualcosa.

"No, grazie, Jules."

"Mi dispiace vedere che è ancora sofferente, madame."

"Va tutto bene, Jules. Riuscirò a superarlo."

"Vuole forse che chiami la sua amica Dora-Belle?"

"Non sarà necessario." Henry Swinton aveva recentemente aggiornato il servitore. La cosa aveva avuto riflessi sulla sua capacità di deambulazione, che adesso era leggermente più incerta. Lo faceva realisticamente apparire come un vecchio e perciò non era stato corretto. Adesso parlava in modo più umano e a Monica piaceva di più.

Chiamò Henry alla 3D e la sua faccia sorridente apparve all’interno del globo.

"Ehi, Monica! Come va? Pare proprio che la fusione debba avvenire. Devo parlare ad Havergail Bronzwick tra nove minuti. Se riusciamo ad accordarci, la Synthmania sarà la più grande compagnia di uomini sintetici del pianeta, più grande di qualsiasi equivalente nel Giappone e negli Stati Uniti."

Monica lo ascoltò con attenzione, anche se capiva che il marito si limitava a ripetere il discorso che s’era preparato per Bronzwick.

"Quando penso a quanta strada abbiamo fatto, Monica... Se l’accordo verrà concluso, io... noi... immediatamente, avremo tre milioni di sterline in più. Ho già grandi progetti. Ci trasferiremo in una casa più bella, venderemo David e Teddy e prenderemo i sintetici del nuovo tipo, compreremo un isola..."

"Tomi a casa presto?"

La domanda interruppe bruscamente il discorso emozionato di Henry, che disse casualmente: "Sai che questo fine settimana devo andare via. Spero di tornare lunedì..."

Lei interruppe la comunicazione.

Seduta sulla sedia a dondolo con le mani incrociate, colse con la coda dell’occhio un movimento: David e Teddy stavano ancora scivolando sul ghiaccio della piscina, e lanciavano piccole grida di divertimento. Forse avrebbero continuato per sempre... Si alzò, aprì la finestra e li chiamò:

"Venite dentro, bambini! Andate sopra, a giocare."

"Va bene, mamma," disse David. Uscì dalla piscina coperta di ghiaccio e si voltò ad aiutare l’amico a scavalcare l’orlo di plastica.

"Comincio a diventare grasso, David," disse Teddy. Poi rise.

"Sei sempre stato grasso, Teddy. Per questo mi piaci..." rispose David. "È per questo che viene voglia di coccolarti."

Oltrepassarono a quattro zampe la porta d’ingresso, che si chiuse dietro di loro con un cigolio. Salirono le scale scherzando tra loro mentre montavano gli scalini.

"Scommetto che arrivo prima!" David sfidò Teddy. Era un comportamento così infantile... Monica guardò con una certa malinconia le loro caviglie sparire dietro la ringhiera.

L’orologio del 3D batté le cinque e accese lo schermo. Monica si sedette davanti alla macchina e presto prese a lavorare sulla rete. In tutto il pianeta, altre persone, soprattutto donne, cominciarono a discutere di argomenti religiosi. Alcune spedirono le loro riflessioni elettroniche perché arrivassero sulla carta. Altre mostrarono fotomontaggi che avevano fatto.

"Ho bisogno di Dio perché molto spesso sono sola," disse Monica alla moltitudine, "ma non so dove sia. Forse non fa visita alle città."

Giunsero le risposte:

"Sei così pazza da credere che Dio viva in campagna? Se è così, scordatene. Dio è dappertutto."

"Dio è solo a distanza di una preghiera, dovunque tu viva. Pregherò per te."

"Naturalmente sei sola. Dio è solo un concetto, inventato da qualche persona infelice. Cercati un’attività, cara. Studia le neuroscienze."

"È perché pensi di essere sola, che Dio non può arrivare a te!"

Esaminò le risposte per due ore, registrando le più interessanti. Poi spense la 3D e rimase a sedere in silenzio.Anche da sopra non giungeva alcun rumore.

Un giorno, aveva deciso, avrebbe condotto un analisi dei messaggi ricevuti. Una sintesi sarebbe stata interessante. Avrebbe confezionato una produzione 3D dei risultati. Il suo nome sarebbe divenuto celebre. Avrebbe perfino osato camminare, con una guardia, per le strade della città. La gente avrebbe detto: "Ehi, ma quella è Monica Swinton!"

Si scosse da quei sogni a occhi aperti. Perché David era così silenzioso?

David e Teddy erano sdraiati sul pavimento della loro stanza e guardavano un videolibro. Ridevano delle buffonerie degli animali che vi erano raffigurati. Un piccolo e paffuto elefante con i calzoni a quadretti continuava a inciampare su un tamburo che rotolava lungo una discesa, in direzione di un fiume.

"Quello finirà dentro il fiume, prima o poi!" disse Teddy, tra una risata e l’altra.

I due sollevarono la testa, quando apparve Monica. La donna si chinò, raccolse il libro e lo chiuse di scatto.

"Non vi siete ancora stufati di questo gioco?" domandò. "Sono tre anni che lo leggete. Ormai sapete perfettamente cosa succederà a quel piccolo sciocco elefante."

David abbassò la testa, anche se era abituato alla disapprovazione della madre.

"Ci piace vedere che cosa succede, mamma. Scommetto che, la prossima volta che lo guardiamo, Elly cascherà nel fiume. È divertentissimo."

"Ma non lo guardiamo, se tu non vuoi" aggiunse Teddy.

Monica si pentì dello scatto d’ira; dopotutto, conosceva perfettamente i loro limiti. Posò sul tappeto il videolibro e disse, con un sospiro: "Non crescerete mai."

"Io cerco di crescere, mamma. Questa mattina ho guardato sulla 3D didattica un programma di storia della scienza."

Monica gli disse che aveva fatto bene. Domandò a David che cosa avesse imparato. Lui le rispose che aveva visto i delfini: "Noi siamo parte del mondo naturale, vero, mamma?"

Quando David tese le braccia per farsi sollevare, Monica si ritrasse. La sua mente indietreggiava, all’idea di essere imprigionata per sempre in un’eterna infanzia, senza mai svilupparsi, senza poter sfuggire...

"La mamma ha sempre tanto da fare..." disse David a Teddy, quando Monica si fu allontanata.

Continuarono a sedere sul pavimento e a fissarsi, sorridendo.

 

Henry Swinton era a cena con Petrushka Bronzwick. Un paio di bionde decorative teneva loro compagnia al tavolo. Erano in un ristorante con un anacronistico quartetto di musicisti vivi, che suonava poco lontano. La fusione amichevole tra la Synthmania e la Havergail Bronzwick procedeva nel modo migliore: entro un paio di giorni, gli avvocati avrebbero completato tutte le procedure legali.

Scena: un ristorante per i più ricchi. Vanto: una vera finestra sul soffitto, che lasciava entrare la luce dell’estate, offuscata solo leggermente dall’inquinamento.

Petrushka ed Henry, con le loro signore, erano intenti a demolire due maialini da latte che ruotavano sullo spiedo accanto al loro tavolo. I maialini sfrigolavano e gocciolavano appetitosamente. I commensali mandavano giù tutto con champagne d’annata.

"Oh, com’è buono!" esclamò la bionda che si faceva chiamare Bubbles e che stava con Petrushka Bronzwick. Si pulì il mento con un tovagliolo di batista. "Potrei mangiarne per sempre, voi no?"

Sporgendosi verso di lei e senza posare coltello e forchetta, Henry disse: "Dobbiamo tenerci sempre avanti, rispetto alla concorrenza, Pet. Ogni centimetro cubo della corteccia cerebrale del cervello umano contiene cinquanta milioni di cellule nervose. E noi dobbiamo competere con quelle, capisci? L’epoca dei cervelli artificiali è finita. Scordiamoli. Da ieri noi fabbrichiamo cervelli veri."

"Certo!" convenne Petrushka. Si girò per tagliarsi un’altra fetta di carne, allontanando il cameriere che stava accorrendo. "I camerieri sono sempre così tirati nel servire." La sua risata argentina era famosa, e in molti ambienti incuteva paura. Non aveva ancora compiuto trent’anni, ma prendeva già il Preservanex, era magra in maniera quasi spettrale, aveva i capelli corti, tinti ad anelli multicolori, gli occhi azzurri e un leggero tic alla guancia sinistra, anch’essa dipinta a cerchi multicolori. "E noi ne mettiamo cento milioni. Da quando abbiamo rinunciato al silicio, abbiamo trovato la strada vincente. ma il problema, Henry, resta quello del finanziamento..."

Cacciandosi in bocca un grosso pezzo di carne prima di rispondere, Henry le ricordò: "IL nostro Solitario di Cresswell provvederà. Hai visto le cifre. Il bilancio del Kurdistan sono noccioline, al confronto. Quest’anno la produzione è di nuovo salita del quattordici per cento. Il Cresswell è sempre stato il nostro prodotto di maggiore successo, fin da quando eravamo solo Synthank. Ha conquistato l’intero Occidente. La Pillola viene seconda, dopo il Cresswell."

"Certo. Anch’io ho un Cresswell, dentro di me" disse Angel Pink. Con un ditino affusolato si indicò lo stomaco. Era quella che piaceva a Henry. E, per sottolinearlo, aggiunse, lanciando a Henry un’occhiata in tralice: "Ce l’ho dentro di me in ogni momento."

Chinandosi verso di lei, Henry le rivolse una strizzata d’occhio e un brano del suo discorso preferito: "Tre quarti di questo nostro mondo sovrappopolato sono nell’indigenza. Noi abbiamo la fortuna di avere più del necessario, grazie all’arresto della crescita della popolazione. Perciò il nostro problema è l’obesità, non la denutrizione."

"Proprio vero!" sospirò Bubbles. Labbra rosse, denti bianchi, si portò alla bocca un lungo grissino dorato.

"Perché, c’è ancora qualcuno che non ha nell’intestino il suo Cresswell che lavora per lui?" domandò Henry, scuotendo poi la testa in risposta alla sua stessa domanda. "Jim Cresswell era un genio, nel campo della nanobiologia. Sono stato io a scoprirlo, e ad assumerlo. Quel verme parassita, pur essendo assolutamente sicuro, permette a tutti di mangiare fino al doppio senza guardare la propria silhouette, vero?"

"Vero. Una delle grandi invenzioni del passato,"disse Petrushka, con aria indispettita. "IL nostro Senoram è quasi altrettanto redditizio."

"Però costa di più..." commentò Bubbles.

Ma la sua osservazione venne soffocata da Angel Pink, che batteva le mani piccole e graziose: "Faremo un massacro della concorrenza!" Levò il bicchiere: "Brindo alle due persone più intelligenti che conosco!"

Unendosi al brindisi, Henry si chiese dove avesse preso quel faremo. Ma avrebbe pagato per quell’errore. Se ne sarebbe occupato lui.

 

Monica voleva andare a sciare. Il servitore sintetico la accompagnò nella cabina installata nella palestra. Le porse il braccio cavallerescamente. Lei lo accettò: le piaceva quel tocco di eleganza. Le ricordava un’infanzia lontana e ormai quasi dimenticata, quando c’era con lei... Ma si era dimenticata chi fosse... Forse un padre che le voleva bene?

Una volta nella cabina, si collegò e attivò l’immagine Neve Montana. Immediatamente prese a nevicare, con la forza di una tormenta. La visibilità si ridusse. Monica cominciò faticosamente a camminare in salita. Era spaventoso. E lei era completamente sola. Scorse un albero isolato, ammantato di bianco.

Una volta giunta al rifugio, entrò e si riposò, ansimando, prima di mettersi gli sci. La sfida era il freddo, gli elementi senza pietà. Lei li aveva affrontati e li aveva vinti, la tempesta di neve cominciava a diminuire. Prima di lanciarsi lungo la discesa, s’infilò sulla faccia la maschera. Nella grande, esilarante discesa, il suo corpo si fece forza contro la folle, ruggente, furiosa, insopportabile aria. Dietro la maschera, la sua bocca si aprì in un grido di pura gioia! Questa era la libertà... l’abbraccio della gravita!

Era finito. Si ritrovò sola, nuda, nella stretta cabina.

 

Quando si fu rivestita, uscì. Forse era tempo che bevesse un sorso di vodka. Preferiva quella delle Latterie Unite, che era già mescolata col latte.

David e Teddy erano fermi davanti a lei, con l’aria di chi ha fatto una marachella. "Noi non abbiamo fatto niente, mamma..." disse David.

"Non abbiamo fatto alcun rumore," aggiunse Teddy. "È stato Jules a farlo, quando è caduto."

Guardandosi attorno, Monica vide Jules disteso sul pavimento. La gamba sinistra scalciava ancora. Nella caduta, aveva cercato di afferrarsi a qualche oggetto e aveva fatto cadere la copia della statua di Kussinski: quella di cui lei andava orgogliosa, e di cui parlava sempre quando la sua amica Dora-Belle veniva a trovarla. Ora giaceva in frantumi accanto alla testa del servitore. Il cranio si era spaccato, si vedeva la matrice dell’udito e del linguaggio.

Monica si lasciò cadere accanto al corpo. David disse: "Non preoccuparti, mamma. Noi stavamo giocando, quando è inciampato. È solo un androide."

"Sì, è solo un androide, mamma..." intervenne Teddy. "Puoi subito comprarne un altro."

"Oh, Dio! Ma è Jules... Povero Jules! Era un amico." Accostò la mano alla sua faccia. Ma non versò lacrime.

"Puoi comprarne un altro, mamma..." ripeté David. Timidamente, le toccò la spalla.

Monica si rivoltò contro di lui, con ira. "E tu, che cosa ti credi di essere? Sei solo un androide anche tu!"

Non appena pronunciate quelle parole, si pentì di averle dette. Ma David stava già lanciando una sorta di grido prolungato, interrotto da brevi frasi: "No, non un androide... io sono vero... vero come Teddy... come te, Monica... ma tu non mi vuoi bene... non vuoi bene al mio programma... non mi hai mai amato..."

Prese a correre in cerchio e, quando non ebbe più parole, si lanciò verso la scala, continuando a emettere quella sorta di grido.

Teddy lo seguì. Scomparvero alla vista. Monica si alzò e si fermò, tremante, a guardare il corpo del servitore. Si coprì gli occhi con le mani. Ma la sua disperazione non si lasciò spegnere così facilmente.

Dalle stanze di sopra giunsero alcuni tonfi. Monica si recò cautamente a controllare.

Teddy era steso sul tappeto, a pancia in giù, con le braccia larghe. David era inginocchiato sopra di lui e gli aveva aperto la schiena. Adesso esaminava i complessi meccanismi all’interno.

Teddy scorse l’espressione inorridita di Monica: "Va tutto bene, mamma. Gli ho chiesto io di farlo. Vogliamo sapere se siamo veri o solo... Urrp..."

David aveva aperto un coperchio nel petto dell’orso, in alto, dove in un essere umano si sarebbe trovato il ventricolo sinistro del cuore.

"Povero Teddy! È morto! Era davvero una macchina. Questo significa..."

Così dicendo, agitava le braccia in modo incontrollabile. Cadde all’indietro, battendo la testa. La faccia si spezzò, rivelando le rotelline di plastica che si muovevano al disotto.

"David! David! Non piangere! Possiamo ripararlo..."

"Stare zitta!"

Le gridò a fatica quelle due parole e, sollevatosi di scatto, corse via da lei, lasciò la stanza e si lanciò di corsa verso le scale. Monica non riuscì a staccare gli occhi dall’inerte Teddy Bear neanche quando sentì che David urtava contro gli oggetti, al piano di sotto. "Naturalmente" pensò. "Non riesce più a mettere a fuoco gli occhi sullo stesso punto. La sua povera faccia si è rotta."

Allarmata, raggiunse le scale. Doveva chiedere aiuto a Henry. Henry doveva ritornare a casa. Echeggiò uno schianto secco. Il forte crepitio delle scariche elettriche. Un lampo accecante. Poi l’oscurità.

"David!" Ma ormai stava cadendo.

David aveva colpito il centro di controllo della casa; nella furia del dolore e della disperazione, l’aveva strappato dalla parete. Tutto il programma dell’appartamento si era fermato.

La casa era scomparsa, e con essa il giardino. David era fermo in mezzo a un ponteggio su cui correvano matasse di fili elettrici, con i montanti tuffati in blocchi di cemento. In terra c’erano solo calcinacci. Vicino al pavimento si scorgeva una spira di fumo acre.

Dopo un lungo periodo di immobilità, si avviò verso l’uscita, camminando dove c’era la casa, attraversando il luogo dove c’era il giardino coperto di neve, la piscina dove aveva giocato tanti pomeriggi con il suo amico Teddy.

Si fermò in un vicolo di una città che non conosceva; sotto i suoi piedi, il vecchio selciato era scivoloso. Tra una lastra e l’altra spuntavano ciuffì di erbacce. I detriti di un’epoca più antica giacevano ai suoi piedi. Diede un calcio a una lattina ammaccata, etichettata OKA-COL.

Una luce bassa dominava su tutto; la giornata estiva si avvicinava alla fine. Non riusciva a vedere bene, ma, con l’occhio destro, riuscì a scorgere una rosa malaticcia, che cresceva accanto a un vecchio muro di mattoni.

Si avvicinò alla pianta e ne staccò un bocciolo. La sua bellezza e il suo tessuto morbido gli ricordarono ancora una volta la mamma.

Poi, fermo accanto al suo corpo, le disse: "Sono umano, mamma. Ti voglio bene e sono triste come le persone vere, perciò sono umano... Non è vero?"

 

I Supertoys nella nuova stagione

 

Il Paese dei Balocchi Rotti si trovava nel cuore dell’abitato.

David si recò laggiù, guidato da un grosso Miscelatore di Cemento. Il Miscelatore aveva molte mani, e braccia di varie dimensioni. Le teneva tutte ferme, appoggiate contro il cofano arrugginito. Camminando sulle gambe estensibili, articolate come quelle di un ragno, giganteggiava al di sopra di David.

Mentre camminavano lungo la strada, David domandò: "Perché sei così grosso?"

"Il mondo è molto grosso, David. Perciò lo devo essere anch’io."

Dopo qualche istante di silenzio, il piccolo di cinque anni disse: "IL mondo è diventato più grande dopo la morte di mia madre."

"Le macchine non hanno madre."

"Ti prego di tener presente che non sono una macchina."

Nel Paese dei Balocchi Rotti si entrava da una ripida discesa, parzialmente nascosta da un alto muro di cemento al mondo umano che la circondava. La strada che portava in quella città dei rifiuti era larga e comoda. All’interno, tutto ciò che si scorgeva era irregolare. Le forme strane erano frequenti. Si muovevano molte figure, o erano in grado di farlo se lo volevano. Erano di vari colori, e molte esibivano enormi lettere o numeri. Il colore più diffuso era il marrone della ruggine. Erano specializzate in graffi, ammaccature, vetri rotti, portelli scardinati. Erano ferme nelle pozzanghere e colavano liquidi rugginosi.

Quel luogo era il regno dell’obsoleto. Al Paese dei Balocchi Rotti giungevano, o venivano scaricati, tutti i vecchi modelli di automatici, robot, androidi e altre macchine che avevano finito di essere utili all’Umanità indaffarata. Laggiù c’era tutto quello che un tempo funzionava per servire l’uomo in qualche modo e che adesso non serviva più al suo scopo, dai tostapane e dai coltelli elettrici ai sollevatori e ai computer che sapevano contare soltanto fino a infinito meno uno. Il povero Miscelatore aveva perso uno dei manipolatori e non sarebbe mai più riuscito a sollevare una tonnellata di cemento.

Era una città tutta particolare. Ogni oggetto gettato via aiutava gli altri. Anche un calcolatore da tasca vecchio modello poteva calcolare qualcosa di utile, anche se a volte si trattava solo della larghezza del passaggio che si doveva lasciare tra due pile di automobili rottamate per far passare i carrelli a motore e le falciatrici.

Un commesso da supermercato, vecchio e stanco, prese David con sé. Insieme condividevano l’interno di un vecchio frigorifero a due porte.

"Starai benissimo con me, finché i tuoi transistor non scoppieranno..." disse il commesso.

"Sei molto gentile. Mi dispiace solo che Teddy non è con me..." disse David.

"Che cosa aveva di speciale, questo Teddy?"

"Giocavamo sempre insieme, io e lui."

"Era umano?" domandò il commesso di supermercato.

"Era come me."

"Solo una macchina, eh? Meglio scordarti di lui, allora."

David si chiese: "Dimenticare Teddy? Io gli volevo davvero bene". Ma il frigorifero non era una cattiva sistemazione.

Un giorno il commesso gli domandò: "Chi era, a tenerti?"

"Avevo un papà chiamato Henry Swinton. Ma di solito era fuori per lavoro."

 

Henry Swinton era fuori per lavoro. Insieme a tre colleghi era ospitato in un hotel di un’isola dei Mari del Sud. L’appartamento in cui erano raccolti dava su una distesa di sabbia dorata che si stendeva fino all’oceano. Sotto la finestra crescevano i tamerischi, e i loro rami ondeggiavano in una brezza che toglieva il peggio della calura dall’aria del Tropico.

Il mormorio delle onde che s’infrangevano sulla spiaggia non superava i tripli vetri delle finestre.

Henry e i suoi colleghi sedevano al tavolo di lavoro, con davanti a sé bottiglie di acqua minerale e blocchi di carta per appunti. Henry voltava la schiena al bel panorama.

Henry Swinton si era fatto strada fino alla carica di direttore generale della Worldsynth-Claws. Era la persona di grado più alto fra tutti coloro che sedevano al tavolo. Di questi, una in particolare, Asda Dolorosaria, si era assunta l’incarico di parlare per l’opposizione.

"Hai visto le cifre, Henry. L’investimento marziano che ci proponi non renderà un soldo per almeno un secolo. Cerca di essere ragionevole. Lascia perdere quell’idea assurda."

Henry disse: "Asda, la ragione è una cosa, il fiuto un’altra. Sai la quantità di affari che combiniamo in Asia Centrale. È l’area del pianeta più simile a Marte. Abbiamo in mano le comunicazioni, laggiù. Non c’è un singolo uomo meccanico che non venga dalle nostre fabbriche. Sono stato io a investire nell’Asia Centrale quando nessun altro l’avrebbe toccata. Per Marte dovete fidarvi di me."

"Samsavvy è contrario alla tua opinione," disse Maureen Shilverstein, in tono asciutto. Samsavvy era il supersoftputer Mark 5 che in pratica gestiva la Worldsynth-Claws. "Mi dispiace. Sei brillante, ma sai cosa dice Samsavvy..." Gli rivolse l’imitazione di un sorriso: "Dice di lasciar perdere."

Henry aprì le mani e appoggiò le punte delle dita le une sulle altre, come se volesse formare un arco di saggezza:

"Certo. Ma Samsavvy non ha il mio intuito. E l’intuito mi dice che, se metteremo i nostri sintetici su Marte fin da adesso, essi potranno occuparsi del creatore d’atmosfera. In un battibaleno... be’, in mezzo secolo, diciamo... la Worldsynth finirà per essere proprietario dell’atmosfera. È come possedere lo stesso Marte. Tutte le attività umane dipendono dalla respirazione, vero? Possibile che non riusciate a capirlo?" Batté il pugno sul tavolo di vero legno ricostruito: "Dovete avere fiuto. Io ho costruito tutta questa impresa, sul fiuto."

Il vecchio Ainsworth Clawsinski non aveva detto niente, accontentandosi di fissare Henry senza batter ciglio. Era lui il Claws della compagnia Worldsynth-Claws. L’auricolare che aveva all’orecchio indicava che era in contatto con Samsavvy. Ora parlò dalla sua estremità del tavolo:

"Il tuo fiuto può andare a farsi fottere, Henry."

I colleghi, incoraggiati, si precipitarono contro di lui, tutti in coro:

"Gli azionisti non pensano in termini di cinquant’anni, Henry..." disse Maureen Shilverstein. Era la sola che all’inizio era parsa disposta ad ascoltare il progetto di Henry.

"Marte non ha nessun valore, come investimento..." disse Asda Dolorosaria. "Hanno importato manodopera tibetana. Costa meno e si sostituisce facilmente. Meglio lasciar perdere gli altri pianeti, Henry, e concentrare il tuo fiuto sul calo del due per cento che c’è stato l’anno scorso qui, sul nostro pianeta."

Henry arrossì:

"Scordatevi il passato. Trascinate i piedi invece di correre, voi tre! Marte è il futuro. Ainsworth, con il dovuto rispetto, sei troppo maledettamente vecchio per pensare al futuro! Aggiorniamo la riunione e riprendiamola alle tre e mezzo. Ma vi avverto... so quello che faccio. Voglio che mi diate Marte su un piatto d’argento."

Prese il blocco d’appunti e uscì in fretta dalla stanza.

 

David venne a sapere che nel Paese dei Balocchi Rotti c’era anche un laboratorio di riparazioni.

Attraversò il labirinto di passaggi dove il terreno era coperto di ruggine e alla fine vi arrivò. Era situato in un vecchio serbatoio rovesciato, che un tempo serviva a raccogliere l’acqua piovana; qualcuno, con la fiamma ossidrica, ci aveva aperto una porta. All’interno di quel rifugio pieno di echi, piccole macchine industriose lavoravano e riparavano e limavano e incollavano. I circuiti ancora validi venivano messi da parte per riutilizzarli, i motorini venivano rigenerati, il vecchio veniva quasi rinnovato, l’antico tornava a essere solo vecchio.

E laggiù David si fece riparare la faccia che s’era spaccato.

Laggiù fece anche la conoscenza dei Dancing Devlins. Un perno del ginocchio del Devlin maschio era uscito di sede, e la società consumistica aveva eliminato il robot danzante: lui e la sua macchina femmina, con il loro breve atto di danza acrobatica, erano ormai superati. Guadagnavano assai meno di prima. Perciò erano stati rottamati.

Ma nel laboratorio degli androidi il perno era stato sostituito. Le batterie ricaricate. Ora Devlin M poteva di nuovo danzare con Devlin F.

Portarono David con loro, nella piccola baracca. Poi eseguirono la loro danza-lampo, una volta dopo l’altra. David continuò a guardarli con piacere. Non si stancava mai delle ripetizioni.

"Non siamo meravigliosi, caro?" domandò Devlin F.

"Mi piacereste ancora di più se ci fosse Teddy a guardarvi, qui con me."

"La danza è la stessa, ragazzo, che Teddy sia presente o no."

"Ma tu non capisci..."

"Io capisco che la nostra danza è bella anche se nessuno la guarda. Una volta c’erano centinaia di persone che ci guardavano danzare. Ma allora era diverso."

"È diverso adesso," disse David.

 

La sabbia cedeva eccessivamente sotto le sue suole, ed Henry Swinton si tolse le scarpe di gomma e le lasciò sulla spiaggia. Camminò sul margine dell’oceano. Era disperato. Era a terra, dopo essere precipitato dal più alto ciglio del successo.

Dopo il deludente esito dell’incontro del mattino, si era recato al bar dei residenti per godersi lentamente un latte e vodka, la bevanda preconfezionata dell’anno: "Vodkamilk, smooth as silk": "Vodka e latte, liscia come seta." I suoi colleghi avevano evitato di avvicinarsi a lui. Finito di bere, aveva preso un ascensore fino al suo appartamento privato, al piano attico dell’albergo.

Pesca era scomparsa. Le sue valigie non c’erano più.

Il suo profumo aleggiava ancora nell’appartamento, il condizionatore non l’aveva ancora eliminato.

Sullo specchio, la ragazza aveva lasciato un messaggio, scritto col rossetto: LEGGI IL 3D!!! MI DISPIACE E ADDIO. P."

"Vuole scherzare..." mormorò Henry. Ma sapeva che non era vero. Pesca non scherzava mai.

Il 3D era già sintonizzato sul canale privato della Worldsynth. Henry si avvicinò al globo:

Messaggio di SS M 5 a Henry Swinton. Tuo azzardo marziano non accettabile da azionisti. Tuoi progetti surplus rispetto ai nostri piani futuri.

Prego accettare ringraziamenti e immediata cessazione contratto con la presente. Aperti a negoziato su liquidazione se rinunci a opposizione. Cfr. Legge sul lavoro 21066A, art. 1621. Addio."

L’oceano, che dall’albergo gli era parso così luminoso e puro, rigettava adesso sulla battigia bottiglie di plastica, insieme a pesci morti. Henry alla fine si lasciò cadere sulla sabbia, esausto. Recentemente aveva messo pancia, nonostante il verme solitario di Cresswell, e non era abituato a camminare.

Nessun gabbiano aveva mai visitato quell’isola. Gli uccelli che vi regnavano erano le rondini. Giravano in cerchio sopra la sua testa, e si gettavano su qualche insetto che si alzava in volo. Quando ne catturavano uno, volavano fino al tetto dell’albergo per nutrire i piccoli, che gridavano nel nido. Poi tornavano indietro, a volare sui rifiuti dove l’oceano incontrava la riva. Pareva che non ci fosse riposo per gli uccelli.

Dalla prospettiva bassa di Henry, l’hotel aveva un aspetto fatiscente. Era stato costruito sulla sabbia. Lentamente, uno dei lati stava sprofondando. Assomigliava a una grossa nave di cemento che affonda in un mare color sabbia.

Sentì montare la collera verso tutti coloro che conosceva, contro chiunque avesse attraversato la sua strada fin dall’inizio. Il basso rullare delle bottiglie di plastica che si urtavano tra loro fece da accompagnamento alla sua collera.

Per qualche tempo pensò di uccidere Ainsworth Clawsinski, che da anni era suo nemico nel consiglio d’amministrazione. Alla fine, la collera si rivolse contro sé stesso:

"Ma cosa ho fatto? Dove sono vissuto? Cos’avevo nella testa? Proprio un bel successo! Un successo vuoto... sì, vuoto. Ho solo venduto oggetti. Sono un piazzista, niente di più; anzi, ero un piazzista. Comprare e vendere. Mio Dio, volevo comprare Marte. Un intero pianeta. Ero impazzito dall’avidità. Sono pazzo. Sono malato. Mortalmente malato. Quando mai ho voluto bene a qualcuno?

Non ho mai fatto niente di creativo. Ho soltanto immaginato di esserne capace. Non sono mai stato uno scienziato, sono solo un saccente. Ormai non capisco più niente dei meccanismi che vendo... Dio, sono un fallimento. Irrecuperabile. Adesso mi sono spinto troppo avanti. Perché non l’ho capito? Perché ho trascurato Monica? Monica, amore mio... Monica, ti amavo. E ho pensato di poterti accontentare con un bambino giocattolo. Anzi, due. David e Teddy...

Oh... Almeno David ti amava. David. Quel povero piccolo giocattolo era la tua sola consolazione...

Mio Dio, cos’è successo a David? Forse posso ancora..."

Le rondini gridavano sopra di lui, assordanti.

 

Un camion del municipio entrò lentamente nel Paese dei Balocchi Rotti dall’ampia discesa. Una volta superato il cancello, svoltò a sinistra e si trovò finalmente in quella che gli uomini chiamavano la Discarica.

I martinetti pneumatici cominciarono lentamente a sollevare la piattaforma posteriore. Numerosi robot di vecchio modello, che per molti anni avevano servito il pubblico lavorando nel sistema della sotterranea, scivolarono giù dal fondo del camion. Toccarono terra con uno schianto. Poi il camion spinse via anche l’ultimo robot, che si teneva alla sponda del piano di carico, e finì a terra anche quello.

Uno o due dei robot si ruppero nella caduta; uno restò a giacere sulla faccia, agitando inutilmente un braccio, incapace di alzarsi, finché un compagno non lo aiutò. Insieme, l’uno che sorreggeva l’altro, si allontanarono lungo il passaggio color della ruggine.

David corse a vedere l’origine di tanta eccitazione. I Dancing Devlins cessarono di danzare per seguirlo. Quando i robot arrivati da poco si furono allontanati, ne rimase ancora uno. Sedeva per terra muovendo avanti e indietro le braccia in qualche modo prescritto.

Avvicinandosi quanto più osava, David domandò all’uomo meccanico perché si comportasse così.

"Lavoro ancora, vero? Non vedi che lavoro ancora? Potrei lavorare nel buio, ma mi si è rotta la lampada. La mia lampada non funziona. L’ho battuta contro una trave che usciva dalla parete. Il computer capo mi ha mandato qui. Ma io lavoro ancora."

"Che lavoro facevi? Lavoravi sui treni della metropolitana?"

"Lavoravo. Ho sempre lavorato bene, fin dal giorno della mia costruzione. Lavoro ancora."

Mentre David conversava con l’uomo meccanico, una sottile limousine nera entrò nel Paese dei Balocchi Rotti. Sul sedile anteriore sedeva un uomo.

Abbassando il finestrino, l’uomo sporse la testa e rivolse una domanda.

Le sue parole furono: "David? Sei David Swinton?"

David si avvicinò all’auto: "Papà?... Oh, papà, sei davvero venuto a prendermi? Qui nel Paese dei Balocchi Rotti non è il mio posto."

"Monta su, David. Ti faremo rimettere in ordine per amore di Monica."

David si guardò attorno. I Dancing Devlins erano fermi a poca distanza. David rivolse loro un saluto d’addio. I due robot rimasero immobili a guardare. Non erano mai stati programmati per dire addio. Non era come prendere un applauso.

Mentre David saliva sull’auto del padre, i due ballerini meccanici eseguirono la loro danza. Era la loro danza favorita. La danza che avevano eseguito centomila volte prima di allora.

 

Henry Swinton non era più ricco. Non aveva più una camera da grande dirigente. Non aveva più donne attorno. Non aveva più ambizioni.

Ma aveva tempo.

Ora sedevano in un appartamento da poco prezzo sul fiume. Henry parlava a David. L’appartamento era vecchio e usato. Una delle pareti aveva sviluppato una specie di balbettio. A volte mostrava una falsa vista del fiume, con l’acqua azzurra e antichi battelli a ruote che viaggiavano in su e in giù, adorni di bandiere. Altre volte mostrava una pubblicità del Preservanex, in cui una coppia di ultracentenari faceva l’amore con movimenti rachitici.

"Perché non dovrei essere umano, babbo? Non sono come i Dancing Devlins e l’altra gente che ho conosciuto nel Paese dei Balocchi Rotti. Io mi sento felice e mi sento triste. Amo la gente. Quindi sono umano. Non è vero?"

"Tu non puoi capirlo, David, ma io sono un fallito. Ho rovinato tutta la mia vita, come succede a tanta gente."

"La mia vita era bella, quando abitavamo in quella casa con mamma."

"Te l’ho detto: non puoi capire."

"No, babbo, capisco... Non possiamo tornare laggiù?"

Henry guardò con tristezza il bambino di cinque anni che stava davanti a lui e gli sorrideva. Notò sulla sua faccia la spaccatura riparata alla meglio: "Tornare indietro non è mai possibile."

"Potremmo prendere la limousine."

Henry prese il bambino e lo abbracciò.

"David," gli disse, "tu eri un vecchio prodotto della mia prima compagnia di uomini meccanici, la Synthank. Da allora sei stato superato. Sai solo pensare di essere felice o triste. Sai solo pensare che vuoi bene a Teddy o a Monica."

"E tu vuoi bene a Monica, babbo?"

Henry trasse un profondo sospiro: "Pensavo di amarla."

 

Henry fece salire David sull’auto, dicendogli che la sua ossessione di essere umano sarebbe stata considerata una nevrosi, se fosse stato un uomo. C’erano degli uomini, che nella loro malattia mentale credevano di essere macchine.

"Te lo farò vedere."

Delle rovine della carriera di Henry Swinton, ben poco rimaneva. Una cosa, però, c’era ancora. C’era ancora, in una vecchia periferia tra la città e i parchi di divertimento, l’unità di produzione della Synthank, la prima ditta di Henry, che non era stata inghiottita dai suoi sogni sempre più megalomaniaci.

Henry manteneva il controllo azionario della Synthank. E i prodotti della ditta non erano stati distrutti. Sopravvivevano ancora, a un basso livello di produzione, sotto il controllo di un vecchio amico umano di Henry, Ivan Shiggle. Questi esportava i prodotti della Synthank in Paesi sottosviluppati d’Oltremare, dove essi, nella loro semplicità, erano i benvenuti come aggiunta alla forza lavoro.

"Potremmo mettergli dei cervelli migliori. Sarebbero più moderni. Ma perché affrontare la spesa?" diceva Henry, mentre fermava l’auto nel cortile dello stabilimento.

"Forse a loro piacerebbe avere cervelli migliori..." suggerì David. Henry si limitò a ridere.

Shiggle uscì a incontrarli. Stringendo la mano a Henry, posò l’occhio su David: "Un vecchio modello..." commentò. "Che ne pensava Monica?"

Henry attese qualche istante, prima di rispondere. Mentre entravano nell’edifìcio, disse: "Sai, Monica non è mai stata molto espansiva."

Shiggle gli rivolse un’occhiata comprensiva e rispose: "Ma l’hai sposata. Le volevi bene?"

Le luci si accesero automaticamente mentre camminavano lungo un corridoio e passavano per una porta a vetri. David li seguì senza parlare.

"Oh, certo, le volevo bene. Ma non abbastanza. O forse lei non ne voleva abbastanza a me. Non lo so. L’ambizione ha finito per prendermi la mano: deve avere trovato in me una persona con cui era difficile vivere. Adesso è morta... perché l’avevo trascurata. La mia vita è un completo fallimento, Ivan."

"Non è la sola. Anch’io, che cosa ho fatto della mia vita? Spesso me lo chiedo."

Henry gli batté una pacca sulla spalla: "Sei sempre stato un buon amico, per me. Non mi hai mai imbrogliato, e non ti sei mai messo contro di me."

"Be’, c’è sempre tempo!"disse Shiggle, e tutt’e due risero.

Intanto erano arrivati in magazzino, dove il prodotto era in attesa di essere impacchettato ed esportato. David fece un passo avanti e fìssò a occhi sgranati il contenuto dell’ambiente.

Davanti a lui c’erano mille David. Tutti uguali. Tutti vestiti in modo identico. Tutti con lo sguardo identicamente attento. Tutti in silenzio, gli occhi fìssi dinanzi a sé. Mille repliche di se stesso, senza vita.

Per la prima volta, David comprese davvero la realtà.

Ecco cos’era lui. Un prodotto. Solo un prodotto. Spalancò la bocca e s’immobilizzò; non riusciva più a muoversi. Il giroscopio cessò di ruotare dentro di lui. Crollò a terra, all’indietro.

 

Il pomeriggio del giorno seguente, Shiggle ed Henry, in maniche di camicia, si sorrisero e si strinsero la mano.

"Sono ancora capace di lavorare, Ivan! Stupefacente! Forse per me c’è ancora qualche speranza."

"Puoi essere utile, qui. E penso che andremo perfettamente d’accordo. Sempre che il cervello neurale funzioni, in questo tuo figlio."

David era sul bancone in mezzo a loro, ancora collegato a un cavo, in attesa della rinascita. I vestiti erano nuovi, presi dal magazzino; la faccia era stata rimessa a posto nel modo giusto. E gli avevano montato un cervello dell’ultimo modello, inserendovi i suoi vecchi ricordi.

Era morto. Adesso era il momento di vedere se sarebbe tornato a vivere, con un cervello molto più versatile di quello vecchio.

I due uomini smisero di parlare. Tornarono a guardare il corpo disteso davanti a loro.

Henry si voltò verso la figura che gli stava accanto, e che allargava le braccia nel suo eterno gesto di amore e di benvenuto.

"Sei pronto, Teddy?"

"Sì, sono molto contento di giocare di nuovo con David..." disse l’orso. Era uno degli orsi di peluche riportati in fabbrica per le riparazioni. "Ho sentito molto la sua mancanza. Io e David ci divertivamo tanto, una volta."

"Bene. Allora riportiamo in vita David, d’accordo?"

I due uomini, però, esitavano ancora. Avevano eseguito a mano quello che in genere veniva fatto da macchine automatiche.

Teddy sorrise: "Urrah! Dove vivevamo una volta, era sempre estate. Fino alla fine. Allora è diventato inverno."

"Be’, adesso è primavera," disse Shiggle. Henry pigiò il pulsante della carica. David sobbalzò. Con la mano destra, automaticamente, staccò il cavo. Poi aprì gli occhi.

Si rizzò a sedere e si portò le mani alla testa, poi assunse un’aria stupita: "Babbo! Che strano sogno ho fatto. Non avevo mai fatto un sogno, prima..."

"Ben tornato tra noi, David, ragazzo mio..." disse Henry.

Abbracciò il bambino e lo fece scendere dal bancone. David e Teddy si guardavano con stupore. Poi si gettarono l’uno tra le braccia dell’altro.

Erano quasi umani.

 

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